Tabucchi all’ombra di un eroe tradito

di REMO CESERANI (il manifesto, 24.02.2004)

Per le vie accidentate di una vita incamminata verso una lenta, allegorica agonia si avvia l’ultimo romanzo di Antonio Tabucchi, «Tristano muore», uscito di recente da Feltrinelli. Tra deliri, sogni, memorie, l’intreccio si scompone in una miriade di dettagli, mentre riverbera denunce spietate verso la società in cui viviamo

Il nuovo romanzo di Antonio Tabucchi (Tristiano muore, Feltrinelli, 2004, pp.164, E. 14,50) appartiene alla sua più recente maniera narrativa: accattivante nel ritmo, desultorio e franto nella sintassi e nell’impianto tematico, spesso reticente, impervio, quasi sconcertante (ma anche assai ripagante per il lettore che accetta di seguirlo nel tour de force). La situazione è apparentemente semplice: Tristano, un eroe che ha combattuto in Grecia e ha ucciso da solo un drappello intero di tedeschi durante la guerra partigiana in Italia, giace morente in una casa di campagna in Toscana, che egli chiama sprezzantemente Malafrasca. Siamo in agosto, nel mese della grande calura, nell’ultimo anno del secolo che muore, e l’allegorica agonia di Tristano si protrae a lungo. È assistito dalla fedele e scorbutica governante tedesca, Frau Renate, che gli è stata accanto fin da bambino e che, per antico rito, ogni domenica gli recita una poesia dal grande canone della lirica tedesca. È seguito da un medico, anch’egli tedesco, il filosofico dottor Ziegler, un po’ amico e cordiale conversatore un po’ rappresentante dell’odiata categoria degli Abderiti ippocratici, con cui se la prendeva a suo tempo anche La Fontaine. Ha chiamato al suo cappezzale uno scrittore, che ha già scritto un romanzo sulle sue imprese eroiche da partigiano, e ora, tra sfoghi di umore, rimescolamenti della memoria, momenti di delirio sotto l’effetto della morfina, gli racconta brani della sua vera vita, come materiale per una nuova scrittura. Anche la storia è apparentemente semplice: Tristano è cresciuto in Toscana, famiglia borghese e antifascista, nonno garibaldino e appassionato di astronomia, padre biologo e appassionato di jazz (uno «studiava le vite vicinissime col microscopio», l’altro «cercava quelle lontanissime col cannocchiale, entrambi con le lenti»). Lo sfondo culturale, dei gusti, stili e atmosfere è costituito dalle passioni letterarie, dalle canzoni e dai film del tempo (che il lettore deve recuperare, frugando nella memoria e in gara continua con le allusioni e le poche piste offerte dalla pagina): Goethe, Leopardi, Heine, Melville, Lorca, Montale, Kavafis, Céline, Celan, i racconti di Hemigway (Hills like White Elephants), Dea Gasbarra che canta la popolare polka di Jaromir Vejvoda Rosamunda, Charles Trenet che canta «Nous n’osons plus chanter les roses», gli anarchici toscani che cantano «nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà», Jean Moreau che canta «J’ai la mémoire qui flanche» e Le Tourbillon dal film Jules et Jim, i suonatori greci che intonano la vecchia canzone Thaxanarthis, Rossella O’Hara che ripete in Via col vento «Domani è un altro giorno», le scene dal film Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens con Alan Ladd, quelle dai film di Cary Grant e Clark Gable.

C’è stata la guerra partigiana e ci sono stati due amori: un primo amore romantico in Grecia con Daphne, la giovane musicista incontrata alla Plaka durante un’azione di guerra, chiamata da lui Mavri Elià (occhi neri), amata sullo sfondo dell’improvviso di Schubert opera 142 (che come si sa elabora un tema dalla musica di scena per la commedia musicale Rosamunde, ripreso anche nell’andante del quartetto per archi in la bemolle opera 29 chiamato appunto anch’esso Rosamunde); un secondo amore con una americana occhi azzurri, addetta al collegamento con i partigiani italiani in montagna, di nome Marilyn, ma che lui chiama Rosamunda o talvolta Guagliona, mentre lei chiama lui Clark (e un altro suo uomo Cary). L’amore con Rosamunda ha per sfondo, oltre la casa di campagna in Toscana, la Spagna: una Spagna desolata dove ci si perde e dove i treni finiscono nel nulla. I due amori sono senza sbocco. Nonostante la canzone intitolata Thaxanarthis (che significa «tornerai»), Tristano non sa tornare, o torna troppo tardi, quando ormai Mavri Elià è solo una voce e un’immagine della memoria nelle isole greche e tra gli ulivi di Delfi. Marilyn, con la quale Tristano non ha mai voluto fare un figlio, torna da lui, nella casa toscana, portando e lasciando a vivere e crescere con lui un ragazzo che ha adottato e si chiama Ignacio, soprannominato anche lui Clark, per cercare una somiglianza che non può esserci. Dopo pochi anni il ragazzo morirà facendosi saltare anzitempo fra le gambe una bomba con cui preparava un attentato anarchico. Tristano è ormai solo, ha una gamba in cancrena, l’accidiosa ora meridiana del mese di agosto ha fermato il tempo sopra di lui, Walter Benjamin sembra recitargli le sue tragiche meditazioni sulla storia.

Il testo, tuttavia, è assai più complicato di quanto non appaia da questo breve sunto. Lo scrittore ha il suo daffare per dare un’organizzazione al racconto. Tristano parla in prima persona e lo scrittore riferisce le sue parole, ma continuamente lo trasforma in personaggio, passando alla terza persona. Memoria, delirio, sogno si confondono continuamente. I problemi (e le intrinseche storture) dell’arte narrativa si interpongono. I riferimenti cronologici, nonostante la presenza di tanti orologi, si fanno vaghi e insicuri. Il vecchio programma realistico stendhaliano dello scrittore come specchio viene messo in discussione («mai fidarsi degli specchi, lì per lì sembra che riflettano la tua immagine, e invece te la stravolgono, o peggio, la assorbono, si bevono tutto, risucchiano anche te... Gli specchi sono porosi, scrittore, e tu non lo sapevi»).

Ricostruire la vita di un uomo - Tabucchi ne ha parlato a lungo nel libro precedente: Autobiografie altrui (Feltrinelli, 2003) - è una impresa avventata, quasi impossibile. Le vicende di una vita, anche della vita di un eroe, si perdono in dettagli contraddittori. Daphne suonava la Rosamunde di Schubert, ma Marilyn rievoca la Rosamunde di Vejvoda. Quale delle due è Rosamunda? Quale è Dafne? E chi ha il bandolo della storia? E il suo significato di fondo è epico, tragico, o grottesco? E come si riscattano i tre paesi di questo romanzo, l’Italia, la Spagna e la Grecia dall’ignominia del fascismo, del franchismo, del regime autoritario del maresciallo Papagos?

D’improvviso aleggia, sulla grande casa toscana, l’ombra del tradimento e della rovina, mentre dentro la camera del malato un moscone cerca vanamente la finestra e l’odore della cancrena si diffonde: le speranze socialiste sono state tradite dalla burocrazia di partito, la bomba atomica sganciata su Hiroshima ha costituito il primo esempio di arma di distruzione di massa e fa traballare la Statua della libertà, una nuova divinità si è installata nelle case di tutti, che Tristano chiama pippopippi, e prende la forma, in Italia, di «un tipo tracagnotto con un’aria da mastino, vestito in doppiopetto», che si presenta come fondatore della repubblica di pippopippi e offre agli intellettuali di diventare «conduttori di un programma coi fiocchi».

L’eroe non sa più se è stato davvero un eroe. Nel lungo monologo di Tristano l’eroe tutto di un pezzo si è frantumato, ha perso motivazioni e forse anche verità. Diventa una parodia del prode Anselmo di Visconti Venosta o addirittura un limerick: «C’era un decrepito eroe di Malafrasca, Che si era messo tutti i sogni in tasca, Ma la frasca aveva già perso le foglie, E a lui restarono uno stecco e morte voglie, A quel decrepito eroe di Malafrasca». Prendendo pian piano forza, il romanzo diventa così un’elegia tragica e amara, una denuncia spietata della società in cui viviamo.



Martedì, 02 marzo 2004