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www.ildialogo.org I.M.I. La testimonianza della figlia del generale Alberto Trionfi,di Maria Trionfi

I.M.I. La testimonianza della figlia del generale Alberto Trionfi

di Maria Trionfi

La testimonianza della figlia, Maria Trionfi, figlia del generale Alberto medaglia d’oro alla resistenza trucidato in un lager nazista come I.M.I.
Di questi soldati che dissero No a proseguire la guerra, sappiamo ancora molto poco la loro storia invece dovrebbe essere raccontata come contrapposizione a qualsiasi forma di violenza che è bruttezza interiore. Questo No invece rappresenta ciò che S.Agostino scrive nelle Confessioni:
“Le bellezze esteriori seducono ma segnalano anche la presenza della grande bellezza, della bellezza in se. Solo l’occhio addestrato e acuto sa vedere “la luce invisibile “nel cuore della “ luce visibile “
Il compito di chi crede nella Pace è quello di addestrare l’occhio a saper vedere la bellezza, io mi auguro che questi stralci di testimonianza servano a ciò
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Del suo arresto sappiamo solo quanto riportato dall’incartamento gen. Guido Sinopoli “Rimpatrio Onorevole”: Alle ore 12,30 giunge da Atene, rientrante da una brevissima licenza dall’Italia, il generale Alberto Trionfi, comandante del settore Navarino. Il giorno 7 settembre il generale Trionfi trovavasi a Roma, il giorno 8 giunge ad Atene ed il 9 raggiunge Tripolis con auto del comando della 11^ armata. Egli dà notizia che a Roma nulla era trapelato della firma dell’armistizio, nemmeno negli alti comandi ove si era recato i giorni 6 e 7 settembre, né dalle conversazioni avute con il generale Gandin, capo di Stato Maggiore dell’armata, con il quale aveva fatto il viaggio da Roma ad Atene. Ad Atene la vita procedeva regolarmente, gli ufficiali erano liberi, mentre fra i comandi italiano e tedesco erano in corso trattative…
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La cattura dei generali Paolo Angioy ed Alberto Trionfi
  1. Il mattino del 18 settembre il generale Angioy si reca alle ore 10.00 a Vitina per essere ricevuto dal comandante interinale del Corpo d’Armata tedesco, prendendo occasione da alcune divergenze sorte circa il trattamento degli scaglioni italiani di transito, allo scopo di controllare la voce relativa al nostro internamento.
L’appuntamento con il generale Kruger è per le ore 10.00 (il generale Felmy aveva assunto il comando superiore di Atene). Il generale Angioy rimane in macchina per evitare altri incontri.
Il capo di Stato Maggiore del LXVIII° Corpo d’Armata viene incontro al generale Angioy avvertendoli che il generale Krueger l’attende.
La guardia tedesca, in contrasto con le recenti disposizioni (abolizione di onori fra italiani e tedeschi), rende gli onori.
Il generale Krueger si fa trovare sulla porta della villetta del comando. Il saluto è freddo, il generale Angioy, rifiuta l’offerta di un caffè e di sigarette, rimane in piedi malgrado ripetuti inviti a sedere. Prega il capitano Veit di tradurre fedelmente le sue parole:
“Elevo nuova protesta per le vessazioni ingiustificate cui sono sottoposti i miei soldati e dichiaro che obbrobrioso sarebbe il comportamento dei tedeschi se questi tradissero ancora la propria fede negando il promesso rimpatrio alle mie truppe”.
Il Kruger che appare riservato non rileva l’ingiuria e si limita a dare assicurazioni generiche nell’ambito della propria competenza.
Il generale Angioy prende atto affermando che la risposta non lo soddisfa e dichiarando di riservarsi libertà di azione nell’ambito di quello che considera “la sua competenza”.
Il congedo fra i due generali è glaciale.
E’ intento del generale Angioy di riprendere la sua libertà d’azione ma è tardi. Durante il viaggio di ritorno a Tripolis, prima del posto di blocco sulla strada di Vitina, due automezzi tedeschi fermano la macchina del generale Angioy. Il capitano Veit ad una domanda di chiarimento rivoltagli dal generale Angioy, scoppia in singhiozzi confessandogli che recandosi dal capo di Stato Maggiore per avvisarlo del suo arrivo, cioè prima del colloquio Kruger-Angioy, il capitano Veit aveva appreso l’ordine di cattura del generale Angioy.
Solo all’arrivo nella sua abitazione ove un reparto tedesco, sopraffatta la guardia italiana e catturato il figlio del generale Angioy vi si era istallato, il generale Angioy viene considerato prigioniero ed invitato a consegnare la pistola.
Il provvedimento dei tedeschi è giustificato quale misura di ritorsione in seguito alla fuga del generale Carta dall’isola di Creta.
Il generale Angioy viene internato nella sua abitazione assieme al generale Trionfi ed al tenente Mario Angioy, figlio del generale che è autorizzato a seguire il padre.
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Dopo questo primo arresto, sappiamo che è stato portato ad Atene da dove, mentendo, gli dicono che partirà diretto in Italia. Invece scrive … “Sono arrivato qui, il 28 settembre dopo otto giorni ed otto notti di viaggio”. “Qui” è il campo di concentramento di Schokken (Oflag 64Z) (attuale Skoki) in Polonia dove sono internati generali ed ammiragli catturati dai tedeschi. Questo campo, ricavato da un ex-collegio di corrigendi del 1912, è costituito da varie palazzine, discrete nella loro architettura esterna, ma i cui interni sono invece piuttosto squallidi. Un grande cortile dove con qualunque tempo, si procede due volte al giorno ad interminabili appelli. E’ ben noto che nei Lager si moriva letteralmente di fame. Nel diario di un ammiraglio rinchiuso nello stesso Lager, Emilio Brenta, viene descritto accuratamente la modesta razione che veniva fornita dalla Werhmacht: basti dire che mio padre che all’inizio della prigionia pesava 91 chili (era alto quasi due metri), quando lascerà il campo per l’ultima marcia verso la morte, ne peserà 60. Poi il freddo della Polonia che è “crudo, pungente” per chi come mio padre era equipaggiato per la Grecia. In una lettera scrive che gli hanno sequestrato anche l’impermeabile perché “secondo loro, è un indumento che i prigionieri non devono avere”.
La cosa più importante per i prigionieri era sia non cedere ai continui incitamenti da parte di varie autorità italiane e tedesche ad aderire alla repubblica di Salò sia a non lasciarsi andare. Lasciarsi andare in effetti significava morire. Nelle lettere spesso mio padre, per esempio, chiese del lucido da scarpe, lucido che avrebbe preso il posto di un qualche alimento. Quindi la dignità della divisa che indossava valeva quanto la fame che doveva sopportare.
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fra poco inizierà il 1945, anno che, con tutta l’anima, invoco da Dio sia quello della pace, quella pace che consentirà di ritornare … continue alternanze, speranze, illusioni, disillusioni … una guerra crudele … Roma e soprattutto il mio NO”, No a lasciarsi andare, no ad aderire alla Repubblica di Salò. Da notare che in tutti i suoi scritti non c’è mai una parola di risentimento o di odio per i suoi carcerieri: crede fermamente in Dio, e invita mia madre a fare altrettanto, incoraggiandola continuamente. Alla fine del 1944 scrive: “Certo, il timore di passare in queste umilianti condizioni di internati un nuovo inverno polacco, è grave: ma è altrettanto certo che non per questo potrei cambiare idee e sentimenti”. Il suo “NO” è più fermo che mai.
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Il 12 gennaio 1945 i sovietici attaccano sulla Vistola ed i tedeschi sono costretti ad indietreggiare. Il 20 arriva l’ordine di evacuare il campo di Schokken per quello di Luckenwalde a sud di Berlino. Gli internati sono avviati a piedi verso occidente, si profila un’altra marcia della morte. La distanza da coprire è di varie centinaia di chilometri. I prigionieri si muovono nel gennaio polacco in relazione all’età, alle condizioni fisiche ed alle diverse andature. Si sbandano, percorrono strade diverse. Si forma un gruppo di diciassette internati fra cui mio padre che si ferma in un piccolo paese Selkow (attuale Kusnica Zelichowaska). Per sfuggire al freddo e rifocillarsi entrano in una taverna, dove sono visti da un sottufficiale della Luftwaffe, Otto Hois. Il giorno dopo all’alba una pattuglia di SS che tornava dal fronte, ormai vicinissimo, viene guidata dal sottufficiale alla stalla dove dormivano i diciassette ufficiali. Vengono messi in marcia di nuovo. Due o tre SS ed un generale. In fila. Assassinano per primo il generale Carlo Spatocco, sofferente ad un piede, ha una scarpa in mano, poi Emanuele Balbo Bertone di Breme che fa in tempo a gridare “Assassini”; poi mio padre. Vi sono delle donne polacche, ancora esseri umani, loro, che gridano per l’orrore. Segue Alessandro Vaccaneo, poi Giuseppe Andreoli ed ultimo Ugo Ferrero. Il resto della colonna prosegue. Sarà un maggiore della Werhmacht a fermarla. Tutti i generali vengono messi al muro, uno di loro, il generale Giuseppe Pagliano mi racconterà che in quel momento supremo, quando credeva che di lì a poco sarebbe stato fucilato, era riuscito a pensare che non poteva morire come un commesso viaggiatore ed ha lanciato dietro di sé la valigetta con le sue poche cose. Non moriranno. Saranno condotti in un altro Lager in condizioni penose, un generale, Guido Cerruti avrà tutte e due le gambe amputate per congelamento, ma torneranno e racconteranno.
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Nel mese di luglio i generali Ugo Tabellini ed Amedeo Sorrentino, accompagnati da un medico italiano e da due medici russi molto competenti e scrupolosi, si recano a Selchow per ricercare le salme dei compagni uccisi. Riconoscono le salme, recuperano gli oggetti personali, le mostrine delle divise, gli orologi e nel caso di mio padre anche l’agendina, sulla quale aveva scritto tanti suoi pensieri.
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La salma di mio padre è stata portata gratis ad Ancona da una nave russa “l’Argun” nel gennaio del 1956, ma i funerali ufficiali dovettero essere rinviati per l’opposizione di un importante uomo politico che teneva le sue elezioni in quel periodo in quella città. Ricordo l’arrivo al porto di Ancona. Il 5 gennaio 1956 vedemmo arrivare la nave nelle nebbie del primo mattino. Ad attendere la salma di mio padre c’eravamo solo mia madre, mio fratello ed io ed un ambulanza pronta a portare la cassetta al cimitero. L’equipaggio della nave era schierato tutto sull’attenti sulla tolda dove c’era anche una piccola cassetta con i resti di mio padre e tanti fiori freschi. Non c’era una rappresentanza diplomatica, né tantomeno una rappresentanza militare. Mia madre si sentì in dovere di portare dei fiori alla moglie del capitano che viaggiava con lui in ringraziamento per la sua generosa disponibilità. La cassetta fu deposta nella camera mortuaria del cimitero e solo dopo tre mesi circa avemmo la possibilità di celebrare il funerale ufficialmente.
La storia di mio padre finisce qui. Ne comincia un’altra, la mia. Il mio incontro con Simon Wiesenthal, la ricerca dell’assassino ed l’istituzione di un processo a Mannheim contro Otto Hois che, ovviamente, non ha ottenuto nessun risultato.
Significativo è il fatto che dei generali italiani ignorassero i termini dell’armistizio



Giovedì 28 Gennaio,2021 Ore: 21:48
 
 
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