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www.ildialogo.org LUGLIO 1960: PERCHE’ QUEI MORTI CI INTERROGANO ANCORA,di Luigi Caputo

LUGLIO 1960: PERCHE’ QUEI MORTI CI INTERROGANO ANCORA

di Luigi Caputo

Il più giovane aveva solo 14 anni, la più anziana, l’unica donna, 53: sono due delle undici vittime di quel cruento luglio del 1960, le vittime del governo Tambroni, un monocolore democristiano insediatosi al culmine della crisi del centrismo, grazie al voto decisivo del MSI (il quale aveva ottenuto in cambio il via libera allo svolgimento del proprio congresso a Genova, città medaglia d’ oro della Resistenza) e rimasto al potere per poco meno di tre mesi ( tra i più pericolosi nella storia della Repubblica), grazie a incredibili circostanze favorevoli e, soprattutto, a ciniche e spregiudicate connivenze. Nomi ed eventi ormai in gran parte rimossi dalla memoria collettiva e, quel che più colpisce, talvolta poco considerati anche in sede storiografica, perfino in quella specialistica. Quelli di Reggio Emilia erano sui vent’anni, immortalati dalla straordinaria, omonima canzone di Fausto Amodei: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi, Afro Tondelli. Tutti e cinque iscritti al PCI, in quella sorta di città- laboratorio che era Reggio Emilia, anche per questo motivo bersaglio preferito della polizia di Scelba, Tambroni e Spataro. “Son morti come vecchi partigiani”, cantava Amodei. Ed effettivamente ben tre di loro ( Serri, Tondelli e Reverberi) lo erano stati. La manifestazione del 7 luglio 1960, indetta dalla Camera del Lavoro per protestare contro le repressioni poliziesche dei giorni precedenti (nel corso delle quali si era registrata la prima vittima, il venticinquenne Vincenzo Napoli, a Licata), aveva visto fronteggiarsi da un lato, da parte dei dimostranti più accesi, fionde e sassi, dall’ altro (polizia e carabinieri) mitra, fucili e moschetti, che spararono ad altezza d’uomo, colpendo in taluni casi a freddo (alla fine della giornata si contarono circa 500 colpi esplosi dalle forze dell’ordine). I funerali del 9 luglio videro la presenza di oltre centomila persone, fra le quali il segretario del PCI Togliatti e Alcide Cervi, il padre dei sette fratelli massacrati dai fascisti nel 1943 (in una esemplare linea di continuità resistenziale) e l’ orazione funebre del capo della Resistenza, nonché ex Presidente del Consiglio, Ferruccio Parri.
Nuovi e vecchi partigiani combattevano per una libertà in gran parte ancora da conquistare, nell’ Italia classista del tempo, in cui l’ incipiente boom economico veniva costruito su bassi salari, supersfruttamento in fabbrica ed emigrazione forzata dalle campagne. Tuttavia, lottando per una libertà non ancora vissuta, per lo più soltanto assaporata, davano nerbo e sostanza a quei diritti scritti nella Costituzione, li rendevano finalmente cosa viva, cosa del popolo. Quella libertà che – aveva ricordato nel 1955 Piero Calamandrei - è come l’aria: incominci a sentirne la mancanza quando si affievolisce e rischia di svanire. Quella libertà che ora, come molte, troppe volte nella storia d’Italia, si trovava all’opposizione e doveva essere riaffermata, con una sorta di giuramento d’ogni giorno, contro quelli che l’avevano incisa addirittura nel loro simbolo, e adesso non esitavano a calpestarla. Per Tambroni Reggio Emilia fu una sorta di rivincita, tragica ed effimera, rispetto allo smacco di Genova, dove le imponenti manifestazioni del 28 (con il formidabile discorso antifascista di Sandro Pertini) e del 30 giugno erano riuscite a cacciare i suoi alleati neo- fascisti dalla città e a far annullare il loro congresso, previsto per il 2 luglio. Voleva sangue, Fernando Tambroni (un piccolo Fouche’ nostrano, come lo aveva apostrofato il suo collega di partito Mariano Rumor, con allusione alla sua mania per le schedature e ai suoi trascorsi in camicia nera) e sangue ebbe, asserragliandosi fino all’ultimo al Viminale, fra oscure minacce, proclami e dossier, forte anche del forsennato anticomunismo della grande industria, delle gerarchie vaticane e di larga parte della DC, oltre che dell’ interessato “indecisionismo” della sua leadership. La parabola del governo più reazionario della storia della Repubblica non era però affatto conclusa, come la vulgata odierna tende a far credere, facendo torto, oltre che alla verità, alle altre cinque vittime, tutte in Sicilia, che quella sciagurata avventura avrebbe lasciato dietro di sé: l’8 luglio viene abbattuto a Catania il diciannovenne Salvatore Novembre; lo stesso giorno cadono altre quattro vittime, a Palermo, sotto i colpi delle forze dell’ordine, al termine di una manifestazione per il lavoro indetta dalla CGIL, che inevitabilmente finisce per assumere un significato politico: sono il quarantaduenne sindacalista Francesco Vella, la sessantatreenne Rosa La Barbera, casalinga ( colpita sulla finestra di casa), il quattordicenne Andrea Gangitano e il sedicenne Giuseppe Malleo, che spirera’ diversi mesi dopo. Il 19 luglio, dopo aver ricevuto il benservito dalla Direzione del suo partito e dal suo segretario Aldo Moro (finalmente determinato a chiudere la vicenda) ed essere stato messo in minoranza nello stesso governo, Tambroni saliva al Quirinale per rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Gronchi, suo mentore e pigmalione. Aveva inizio, con il governo Fanfani, una fase di normalizzazione democratica, preludio alla successiva apertura a sinistra verso il PSI e al disgelo costituzionale. In ogni caso, i morti del luglio ‘60 non furono inutili: morti evitabili, morti senza aver ricevuto nessuna giustizia, certo, ma non inutili. Morti come partigiani senza guerra, uccisi dagli apparati di uno Stato in cui, nonostante tutto, avevano riposto la loro fiducia.
Luigi Caputo – Partito della Rifondazione Comunista – Federazione di Avellino



Mercoledì 08 Luglio,2020 Ore: 18:33
 
 
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