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www.ildialogo.org La Germania in Africa – Il colonialismo e le sue ripercussioni,Dirk van Laak, Universitàdi Lipsia

La Germania in Africa – Il colonialismo e le sue ripercussioni

(Traduzione dal tedesco di José F. Padova)


Dirk van Laak, Universitàdi Lipsia

 
Centrale federale per la formazione politica
Dirk van Laak, Universitàdi Lipsia
(Traduzione dal tedesco di José F. Padova)
La Germania in Africa – Il colonialismo e le sue ripercussioni
Che la Germania abbia posseduto un tempo colonie in Africa è stato ampiamente rimosso dalla memoria nazionale. Per di più l’espansione imperialistica è stata per generazioni di tedeschi una vitale questione nazionale. Già nel 1884 l’Impero germanico si era dedicato alla costruzione della sua economia, tuttavia già nella prima guerra mondiale perdette le sue colonie.
Introduzione
Viste dalla Germania poche zone del mondo appaiono oggi tanto lontane quanto l’Africa. Di conseguenza il racconto sulla vita africana descrive quella degli animali come un paradiso e delle persone come un inferno. Nessuna delle apocalissi umane – povertà, fame, epidemie, dissesto dello Stato e guerre – che non imperversino in Africa nelle loro forme estreme. Fin dagli anni ottanta l’Africa è considerata addirittura come continente “dimenticato”. Quasi ogni ottimismo, alimentato dal punto di vista dell’Europa per oltre un secolo, nel frattempo è scomparso. “Nel cuore del continente intere regioni sono riaffondate nella non – riscoperta1”. I media si ricordano del potenziale del Continente soltanto in periodi di calma geopolitica. Altrimenti in Europa e in America l’Africa si distingue per un’assenza che si racchiude già per questo in una cattiva coscienza, perché essa è collegata alla permanente richiesta di aiuto umanitario. La circostanza che la Germania ha posseduto un tempo colonie in Africa e ha perfino aspirato ad un Reich centro-africano chiuso in sé stesso è poco presente nella consapevolezza collettiva.
Eppure l’eredità del colonialismo, attivamente in parte rimossa dopo il 1945, era fino ad allora oltremodo vitale. All’inizio degli anni ’40 l’Unione coloniale del Reich contava quasi due milioni di membri e somme considerevoli di denaro fluivano nella ricerca coloniale. Nei cassetti di numerose Istituzioni giacevano pronti all’uso elaborati piani per una rinnovata presa di possesso dei territori perduti nella Prima guerra mondiale. Innumerevoli volontari si presentarono per un impiego il più presto possibile nel Continente meridionale. Le conoscenze specialistiche della tecnica tedesca circa colonie e tropici erano aggiornate al massimo livello. E uno degli ultimi lungometraggi del “Terzo Reich”, mai presentato al pubblico, “Quax in Afrika”, faceva volare ancora una volta Heinz Rühmann verso il Continente nero – dove però subì un atterraggio di fortuna2.
Questo bilancio in complesso era riferito al revisionismo coloniale tedesco dopo il 1918 e forse anche al colonialismo tedesco dal 1884 in poi. Eppure i film e le aspettative della lobby colonialistica indicano allo stesso tempo come fortemente e a lungo fossero diffuse in Germania le fantasie africane. Quando nel 1919 i vincitori della Prima guerra mondiale esclusero la Germania dal novero delle potenze coloniali attive ciò suscitò un grido d’indignazione. In Germania il consenso politico per le colonie era del tutto unanime quando dall’esterno la missione colonizzatrice dei tedeschi fu dichiarata finita e l’Africa tedesca del sudovest, l’Africa orientale tedesca, il Camerun e il Togo passarono sotto l’amministrazione dei vincitori di quel tempo. Sotto l’aspetto economico e finanziario la perdita colpì ben poco l’Impero germanico. Nel 1913 nel commercio tedesco con l’estero la quota delle colonie ammontava a circa lo 0,6 percento. Non da ultimo i nemici del colonialismo bollarono abbastanza come un “affare nazionale in perdita” i circa trent’anni, durante i quali la Germania era stata in possesso di alcuni territori poco produttivi in Africa, di una testa di ponte in Cina e di alcuni possedimenti nel Pacifico meridionale.
Una forma di pensiero imperialistica
Come si può spiegare questa contraddizione fra la limitata importanza delle colonie tedesche e la violenta indignazione per la loro perdita? L’enfasi, con cui dopo il 1918 i revisionisti del colonialismo insistettero sulle colonie come spazi per insediamenti e aree vitali e mercati di materie prime e di smercio, diviene comprensibile soltanto davanti al sottofondo di una visione del mondo che impregnò un’intera epoca del colonialismo europeo fra la fine del XIX e la metà del XX secolo. In Europa e in America, nell’età dell’imperialismo, si partiva dall’imprescindibile necessità di uno sfruttamento a livello mondale di spazio e di risorse. Il dinamico sviluppo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione e soprattutto la rapidissima evoluzione delle strutture della movimentazione e della comunicazione oltrepassarono i confini nazionali e fecero nascere un nuovo, attivo ordinamento territoriale. Da ciò si formò una competizione nazionale nell’efficienza e una rivalità mondiale per le risorse, che apparivano necessarie al fine di una costante crescita delle nazioni “giovani” e “vigorose”. In merito le tecniche e la medicina moderne svolsero funzioni centrali, perché confermarono l’apparenza di una superiorità dei popoli e delle nazioni “evoluti”. Gli europei intesero come loro missione quella di portare nel mondo i “benefici della tecnica”, vissuti in casa loro come sconvolgimenti. Il “progresso” scientifico-tecnico divenne un’ideologia, sempre più confermata da estesi trionfi – come la costruzione del canale di Suez, il completamento delle linee ferroviarie transcontinentali negli USA o la posa dei cavi sottomarini.
“La politica di potere mondiale è strettamente legata al dominio delle grandi vie dell’economia mondiale. (…). Ferrovia e telegrafo, navigazione a vapore e cavi sono gli strumenti con i quali il moderno ‘homo sapiens’ ha reso accessibili e sottomesso tutte le parti della terra – eccellenti strumenti anche di potere politico e ottime armi degli Stati moderni in lotta per la spartizione della Terra”3. Al “panico della porta chiusa” per gli ultimi spazi ancora non sfruttati, per le zone d’influenza, i mercati e i territori di smercio si accompagnò la questione del popolamento: fra i segnali premonitori di una concorrenza su piano mondiale si fece nettamente una distinzione su chi alla fine avrebbe giovato l’emigrazione, che in Germania ebbe luogo a ondate. Sembrò opportuno offrire alternative agli emigranti tedeschi, perché non si disperdessero nel mondo come “concime dei popoli”. Secondo le possibilità essi avrebbero piuttosto dovuto fondare una “Germania d’oltremare” o agire perlomeno come “teste di ponte” dell’influenza germanica.
Strettamente connesso alla fondazione di uno Stato nazionale, già nel 1848 a molti tedeschi sembrò ovvio che si sviluppasse, da un Reich unificato e in un certo senso in crescita naturale, qualcosa come una “politica mondiale” tedesca. Numerosi “conquistatori da tavolino”, dalla posizione di osservatori, già a lungo prima della politica coloniale attiva germanica credettero di essere i migliori colonizzatori4. La concreta trentennale storia effettiva del colonialismo tedesco, instauratasi negli anni ottanta del XIX secolo, aveva un lungo antefatto, durante il quale si esperimentò con insediamenti e colonie a scopo di sfruttamento e venne formulato un intero quadro di aspettative coloniali. Fallirono tuttavia le svariate associazioni per la colonizzazione nell’America settentrionale, centrale e meridionale. Specialmente dopo il 1871 i viaggiatori richiamarono sempre più l’attenzione del governo del Reich germanico su territori che presumevano si adattassero a diventare un’ “India tedesca”5. L’Africa, come ultimo continente “non sfruttato”, sembrò poter diventare oggetto di conquista relativamente a buon mercato e a basso rischio ed essere compartecipato pacificamente. Bismark, fino ad allora esitante riguardo alle colonie, alla Conferenza di Berlino sul Congo, svoltasi da novembre 1884 a febbraio 1885, cercò di fare luce sui titoli giuridici in base ai quali fino ad allora era stato occupato territorio apparentemente “senza proprietario”. Infatti una “contesa sull’Africa”, della quale scrisse il “Times” lo stesso anno, avrebbe potuto ripercuotersi negativamente sull’equilibrio della politica europea.
L’impero coloniale tedesco, sorto mediante la concessione di “salvacondotti” a commercianti in cerca di avventure come Adolf Lüderitz o conquistadores come Carl Peters, nella sua espansione era arbitrario e casuale. Più tardi Peters ammise che nella scelta delle colonie tedesche non avevano avuto alcun ruolo valutazioni di carattere “geografico o etnografico, agricolo e neppure di politica commerciale, linguistico, climatico o militare”6. Tutto questo non era in alcun modo inusuale. I motivi per procurarsi colonie erano non soltanto strategici, “di politica globale” o di natura economica. Esotismo ed erotismo, attizzati dai racconti di viaggio e dai romanzi d’avventura, facevano tanto parte del colonialismo quanto lo struggimento per luoghi lontani e la “febbre dei tropici”, che offuscavano una percezione realistica di comunanze e diversità fra il proprio mondo e quello “straniero”.
Non da ultimo per motivi di prestigio a molti entusiasti colonialisti riusciva difficile accontentarsi di quanto già ottenuto. L’”Unione pangermanica” per l’allargamento territoriale faceva propaganda con il volume al massimo. Tedeschi “esperti di politica mondiale” puntavano il dito sul fatto che era allora sotto amministrazione germanica una superficie di 2.953.000 kmq, cinque volte maggiore di quella del Reich tedesco. Eppure olandesi, portoghesi, spagnoli, belgi, francesi e soprattutto britannici possiedevano ancora colonie di gran lunga più vaste in confronto con la “Mutterland”, la Madre Patria. Tuttavia, nonostante fino al 1914 fosse diffusa una mentalità di concorrenza imperialistica, soltanto eccezionalmente vi fu il pericolo di conflitti militari. Un ingranaggio orientato ad operazioni di compensazioni territoriali e politiche sottrasse molto materiale incendiario alla gara europea per lo spazio e le risorse. A causa delle loro continue pretese e dell’inettitudine diplomatica propria del loro Imperatore Guglielmo II, i tedeschi si misero continuamente in situazioni problematiche. Alla fine almeno fino alla Prima guerra mondiale prevalse però la convergenza dei colonizzatori europei, in particolare quando le rivendicazioni dei colonizzati, come nel caso della rivolta cinese dei boxer, furono messe collettivamente in discussione7.
Il dilemma coloniale
Sotto il governo di Bismark il Reich germanico, per prima cosa e unicamente, voleva essere presente nelle colonie come forza di protezione, come documenta chiaramente il termine ufficiale di “Protettorato”. Questo approccio si basa sull’aspettativa che la rumorosa lobby colonialista – dal 1887 unificata nella “Società tedesca per le colonie” – si sarebbe applicata con iniziativa privata per lo sfruttamento dei territori da poco acquisiti. Lo sviluppo economico e parti dell’amministrazione furono di conseguenza trasmesse a società fondiarie, per il trasporto e per il commercio, alle quali fu lasciata anche la costruzione di infrastrutture. Comunque si rivelò che in Africa gli imprenditori tedeschi erano interessati ai loro guadagni e non già ad uno sviluppo coordinato dei territori. In mancanza di duraturi investimenti statali non si sarebbe potuto trasformare le colonie né in economie redditizie né in territori per insediamenti. Ci si sorprese anche per l’incessante resistenza delle popolazioni indigene. Le prime misure prese consistettero perciò in una “pacificazione” dei territori – che ebbe luogo per lo più mediante violenze e che riuscì raramente a durare – in misure profilattiche preventive e nella lotta contro insetti e animali nocivi, soprattutto per rendere possibile la permanenza di soldati, impiegati amministrativi e coloni di pelle bianca. Gli impianti idrici, i porti, le strade o le ferrovie, essendo veri e propri lavori di genio [militare], furono intesi dagli imprenditori e dai coloni come compiti spettanti allo Stato. Con ciò la politica coloniale tedesca si mosse fin dall’inizio in un fraintendimento fra iniziativa privata e pubblica. Luogo di elezione di queste tensioni divennero i dibattiti al Reichstag [Parlamento], che decideva circa lo status coloniale. Alcuni parlamentari respinsero categoricamente l’imperialismo, altri considerarono il progetto coloniale troppo rischioso e costoso e si videro le loro posizioni quasi generalmente confermate dai primi dieci o quindici anni di politica coloniale tedesca.
Per di più presto venne alla luce una serie di irregolarità e di comportamenti altamente trasgressivi da parte dei colonizzatori germanici, soprattutto abusi contro le popolazioni native. Parecchi soldati e funzionari amministrativi, ma anche coloni o imprenditori, credevano di dover trattare gli africani con un atteggiamento marcatamente “dispotico”. Il “caso Peters” divenne lo scandalo coloniale più notorio: figura simbolica della lobby coloniale tedesca, aveva fatto impiccare la sua compagna nera insieme al suo amante, ciò di cui gli avversari del colonialismo si servirono non soltanto per la sua destituzione, ma anche per una resa dei conti generale sui metodi coloniali tedeschi8. Questi dibattiti sulle colonie si riferirono però sempre a linee conflittuali di politica interna, cosicché raramente toccarono realisticamente la situazione in Africa9.
La contraddizione, eclatante verso la fine del secolo tanto, fra la continua affermazione tedesca per un “posto al sole” e la reale evoluzione nelle colonie aveva numerose cause:
  • i tedeschi erano comparativamente inesperti nella pratica della colonizzazione nei tropici e per questo dovettero affrettatamente recuperare molte delle esperienze che i britannici o i francesi si erano fatti già da lungo tempo. Fallì il tentativo di Bismark di un “Reich coloniale a responsabilità limitata”10.
  • Lo sfruttamento di quegli enormi territori era più problematico di quanto ritenuto in un primo tempo. Dopo un decennio e mezzo erano organizzati unicamente alcuni punti base e qualche linea ferroviaria e di navigazione su alcuni laghi dell’Africa orientale. Oltre a questo vi erano idee discordi su quale scopo ci si prefiggeva con le colonie, se ci si volesse insediare, sfruttarle o “rivalutarle” per sé stesse.
  • Poiché erano entrati in possesso a distanza di territori che non conoscevano per nulla, i tedeschi constatarono solamente con ritardo quanto poco essi fossero redditizi. Per giunta avvenne una serie di casi sfortunati, come la peste bovina del 1897, che nell’Africa Tedesca del Sudovest annientò l’80 percento circa del patrimonio zootecnico dei “nativi” e più del 50 percento del bestiame dei coloni tedeschi. Gli imprenditori tedeschi investivano nella ferrovia di Bagdad, che appariva più lucrativa, piuttosto che nei progetti africani.
  • L’aspettativa che gli emigranti tedeschi si sarebbero stabiliti nelle loro colonie per evitarne la persistente “de-germanizzazione” non si realizzò, perché dagli anni ottanta del XIX secolo la Germania da Paese di emigrazione divenne meta di immigrazione. Prima della Prima guerra mondiale si stabilirono così in Africa Tedesca del Sudovest non più di 15.000 “bianchi” (dei quali non tutti erano tedeschi), in Africa orientale tedesca circa 5.000, in Camerun 2.000 e in Togo 500. Negli ambienti dei coloni e nel personale amministrativo si mantennero sovente residui di antiquati comportamenti di tardo feudalesimo. E proprio le donne dei coloni, ingaggiate con grandi difficoltà, si consideravano spesso come vere e proprie depositarie della tradizione e del “germanesimo”11
  • I “nativi”, dei quali all’inizio si sapeva altrettanto poco che del territorio, nel migliore dei casi furono considerati ben poco come “proprietari” della loro terra. L’asserzione che essi degli spazi e delle risorse loro affidati nulla facessero che potesse anche lontanamente ricordare il lavoro produttivo e la creazione di valore aggiunto degli europei parve essere motivo sufficiente per espropriarli. Contro i metodi per lo più scorretti e spesso violenti dei colonizzatori, per respingerli e derubarli delle loro risorse vitali, gli africani avevano tutti i buoni motivi per opporre resistenza. Tuttavia contro i tedeschi, molto impregnati di “senso dell’onore piccolo borghese”, resistere era per lo più vano, perché effettuato con armi ìmpari. Come alternativa all’essere deportati rimase il lento adattamento al modo di lavorare, all’economia monetaria e allo stile di vita sedentario europei. Contrariamente all’aspettativa dei colonizzatori tutto questo portò a un esteso “sradicamento” delle società tradizionali africane.
  • L’opinione pubblica tedesca esitava ad appassionarsi per le colonie. Infatti al di là del fascino esotico del Paese straniero perfino ai tavoli degli abituali frequentatori dei bar gli sviluppi futuri erano in parte valutati in modo estremamente realistico: “Quando i pionieri tedeschi avranno adempiuto il loro compito culturale in Asia, Africa ecc. e qui si crederà essere arrivato il momento di raccogliere i doni della sorte, là le tribù locali si solleveranno, scuoteranno via da sé il giogo schiavistico e al buon tedesco resteranno le briciole”12.
Colonizzazione dei mezzi di sostentamento”
Nel 1902, al primo Congresso coloniale tedesco, il professore (dell’Università) di Bonn Ferdinand Wohltmann definì i primi 18 anni di colonizzazione tedesca “per così dire come le prime settimane di luna di miele, piene di fantasie e spensierate, che ogni giovane coppia e ogni popolo pieno di gioia di vivere e che felicemente si procura colonie, devono festeggiare”. Secondo la sua interpretazione il futuro delle colonie starebbe “più nella densità e nel potere d’acquisto della popolazione nativa che negli investimenti per le piantagioni13”. Qui si delinea una svolta che al volgere del secolo ebbe luogo in quasi tutte le potenze coloniali: una “valorizzazione” delle colonie parve essere l’unica via per impedire che a lungo andare rimanessero un affare da sovvenzionare. Si scoprirono i “nativi” come futuri soggetti del mercato e dello Stato. Sollecitarli al lavoro sembrò poter evitare la loro “proletarizzazione” e salvarli dalla condizione di “improduttività”. Rimase controverso se questo rendimento sul lavoro avrebbe avuto più effetto mediante una imposizione fiscale, suscitando necessità di beni [di consumo] o con la costrizione. Le colonie tedesche sperimentarono forme disparate di educazione al lavoro, tanto più che raramente gli africani si sottomisero volontariamente ad un regolare lavoro salariato14.
Il 15 luglio 1902 sull’esempio dell’Africa orientale tedesca la “Deutsche Zeitung” mise in luce il rapporto fra esazione fiscale, rendimento del lavoro, consumi, sicurezza e infrastrutture: “Non appena sono in funzione i collegamenti ferroviari dall’interno verso la costa, non soltanto l’aumento delle imposte può essere sempre più esteso localmente, ma la vite fiscale può anche venire stretta con più decisione. Invece di tre rupie di tassa sulla capanna, dalle famiglie si può esigere senza difficoltà un’imposta di sei rupie, perché con la possibilità dello smercio il valore del lavoro aumenta più volte e il negro afferra straordinariamente in fretta l’importanza dei vantaggi economici. In questo modo gli introiti delle colonie aumenteranno anno dopo anno e copriranno con facilità i ridotti importi a garanzia delle costruzioni ferroviarie”. Tuttavia i lavori sulle linee ferroviarie procedevano stentatamente, soltanto nel 1894 fu aperta una tratta della cosiddetta ferrovia dell’Usambara. La questione delle ferrovie avrebbe segnato l’intera seconda metà del periodo coloniale tedesco prima del 1914.
Effettivamente dalla metà degli anni ’90 del XIX secolo l’Impero germanico fece di più per lo sviluppo delle sue colonie. L’amministrazione coloniale a Berlino fu potenziata, nominato un direttore coloniale, formato un Consiglio per le colonie e governatori e personale amministrativo furono tenuti al guinzaglio corto. Al volgere del secolo si formò una serie di strutture che si presero cura dello studio e dello sviluppo delle colonie tedesche, fra le quali il Comitato per l’economia coloniale, costituito nel 1896, che eseguì soprattutto ricerche di base sui problemi agricoli. Nel maggio 1891 a Dahlem fu allestito un Ufficio centrale per la botanica nelle colonie, dal 1899 in poi nella Scuola coloniale tedesca presso Witzenhausen si formarono “pionieri della cultura”. Nel 1900 sorse ad Amburgo l’Istituto per le malattie tropicali e della navigazione, nel 1902 seguì l’Istituto biologico e agricolo Amani in Africa orientale tedesca, per ricordarne solamente alcuni. Infatti tutte le potenze coloniali erano convinte che gli imperi dovessero essere consolidati, in primo luogo non più con la forza e la costrizione, ma molto più mediante l’informazione scientifica15. I tedeschi erano fieri in particolare dei loro metodi di colonizzazione “scientifica”, che furono loro riconosciuti pienamente dai loro concorrenti coloniali prima del 1914.
Tuttavia fu criticato che si fosse fatto troppo in teoria e troppo poco nella pratica16 e che le conoscenze venissero trasmesse ai protettorati con “pignoleria” tedesca. Le idee accademiche sull’”innalzamento” del loro livello culturale raggiunsero gli africani essenzialmente come coercizione al lavoro. La loro specifica cultura, i loro sistemi economici ed ecologici erano finiti essenzialmente fuori equilibrio a causa degli interventi dei colonizzatori. Molti interventi bene elaborati si insabbiarono come sempre in un labirinto di confuse competenze e in una burocrazia inflessibile. In Germania la “pedissequa mentalità burocratica” di molti funzionari coloniali divenne addirittura proverbiale.
Una vera e propria rottura verso una nuova politica coloniale ebbe luogo soltanto dopo una serie di sanguinose sollevazioni. Nel 1904, a causa del più rigoroso procedere nello sfruttamento, sia in Africa Tedesca del Sudovest sia in Africa orientale tedesca scoppiarono fra i “nativi” rivolte che continuarono a lungo. Evidentemente un loro ruolo svolsero le promesse non mantenute fatte ai popoli nomadi di non limitare più del dovuto le modalità basiche della loro esistenza. Nell’Africa Tedesca del Sudovest Herero e Nama con abilità strategica si rivoltarono contro la potenza coloniale che laggiù – e nella quasi contemporanea sollevazione dei maji-maji in Africa orientale tedesca – reagì con brutalità senza pari17. L’Impero germanico si vide provocato fondamentalmente dalle ribellioni. I richiami alla moderazione del governatore Leutwein e del suo gruppo di lavoro, che insistevano per la conservazione della forza lavoro “nera” e anche dei beni esistenti, non poterono imporsi. Il generale Lothar von Trotha, che comandava le truppe coloniali in Africa Tedesca del Sudovest, speculava apertamente per una colonia “puramente bianca”. La sua campagna militare comprendeva alcuni aspetti della successiva pratica di conquista di “spazio vitale” nell’Est europeo, come pure la denominazione di “guerra di razze e di annientamento”, la deportazione in territori ostili alle forme di vita, la distruzione dei mezzi di sostentamento, le esecuzioni indiscriminate o l’uccisione mediante totale privazione dei mezzi di sostentamento18.
Per la prima volta nell’Impero germanico le guerre suscitarono effettiva attenzione per le colonie. Il “tributo di sangue” versato – si intendevano i coloni e i soldati uccisi – non ammetteva che si potesse ritornare ad una politica coloniale condotta con scarsa partecipazione. Il 1907 fu l’anno del cambiamento di direzione. Dopo la cosiddetta “votazione ottentotta”19, che raccolse in Parlamento una maggioranza di favorevoli ad una politica coloniale più benevola, il Segretario di Stato Bernhard Dernburg introdusse un management coloniale più ammodernato. Delle colonie non si occupavano ormai più soltanto i critici, come Matthias Erzberger, che ancora nel 1906 aveva definito distruttivo il “bilancio coloniale”. Anche gli economisti Karl Helfferich, Moriz Julius Bonn e Walther Rathenau sottoposero proposte per un “risanamento“ del progetto coloniale tedesco. Per un breve periodo il Reich appoggiò la costruzione di infrastrutture, concentrate sulle ferrovie. Dernburg parlò di una colonizzazione dei mezzi di sostentamento"20. La sua politica di una “elevazione della cultura dei nativi” valutava ora gli africani soltanto come un “attivo” economico. Da questa ammissione della loro capacità di svilupparsi si discostavano certamente convinzioni razzistico-biologiche, che nelle “persone di colore” ravvisavano l’immutabile “Altro”. “Dominatori” come Carl Peters erano sconcertati dalla lenta rivalutazione del “negro”, che avrebbe una “natura di schiavo”, alla quale si imporrebbe soltanto una “volontà maschile sicura di sé”. La graduale equiparazione dei livelli di civilizzazione fra neri e bianchi portò quindi con sé anche una distinzione sempre più marcata da criteri razzisti21. La questione della razza – specialmente il problema dei cosiddetti “matrimoni misti” dominava il dibattito. Paul Rohrbach, temporaneo “Commissario agli insediamenti” in Africa Tedesca del Sudovest, riteneva che sotto l’influenza di concubine di colore i coloni perdessero “del tutto il senso di tradizioni, cultura, ordine sociale e dignità nazionale”, alla fine erano [diventati] “cafri”22. E il medico tropicale Ludwug Külz richiamò perfino l’attenzione sull’influsso “selettivo in senso contrario” che la dominazione dei bianchi con le loro benedizioni culturali provoca in Africa.
Per lo meno le forze di lavoro africane furono in seguito trattate meglio. Verso il 1913 nelle colonie tedesche circa 150.000 africani erano battezzati e 120.000 frequentavano le scuole tedesche. Fino al 1914 nelle colonie furono posati qualcosa come 3.754 chilometri di binari. Tuttavia la politica coloniale rimase un affare non redditizio basato sulle sovvenzioni, solamente il Togo si reggeva finanziariamente da sé. Secondo stime, dalla fondazione fino allo scoppio della Guerra per le colonie africane erano stati spesi 646 milioni di marchi. L’importazione di sisal, cotone, caffè, arachidi, copra o banane poteva essere facilmente compensata sul mercato mondiale23. Wolfgang Reinhard in questo bilancio vede un “modello di fondo” del colonialismo europeo: “La ‘mano pubblica’, più o meno costretta dalla necessità, si prende carico dei costi delle infrastrutture, senza trarre dalle colonie un corrispondente immediato guadagno, vale a dire che per la maggior parte delle casse statali la dominazione coloniale era deficitaria, come i socialdemocratici tedeschi avevano rammentato abbastanza spesso al Parlamento. Al contrario negli affari coloniali le ‘mani private’ avevano sempre intascato cospicui introiti, cosicché fino all’ultimo da parte del governo furono prese iniziative per far partecipare questi veri e propri approfittatori alle spese per le colonie”24.
Conseguenze coloniali
Quando nel luglio 1911 la Germania, dopo la seconda crisi marocchina, ottenne per di più una compensazione di 280.000 kmq sotto la forma del Nuovo Camerun, si liberarono aspettative per un territorio coloniale centroafricano connesso. Dopo il 1914 l’idea divenne per i tedeschi un obiettivo di guerra. Tuttavia dopo lo scoppio della guerra francesi, britannici e i loro dominion penetrarono nelle colonie tedesche, cercando di soddisfare i loro interessi di sicurezza soppiantando un fastidioso concorrente25. Il Togo cadde quasi immediatamente nelle mani delle “truppe nemiche”, l’Africa Tedesca del Sudovest venne conquistata dall’esercito sudafricano nella primavera del 1915, mentre il Camerun fu in grado di reggere in parte fino al 1916. Addirittura leggendaria per ogni relazione dei tedeschi con le loro colonie divenne la tattica di guerriglia di Paul von Lettow-Vorbeck nell’Africa orientale tedesca. Con una truppa coloniale di circa 5.000 uomini, in prevalenza ascari neri, si spostò zigzagando per anni attraverso l’attuale Tanzania, mantenendo impegnati alla fine non meno di 130.000 soldati nemici. Dopo il 1919 in Germania la sua truppa fu considerata “imbattuta sul campo”26. Secondo il Trattato di Versailles le colonie tedesche divennero territori sotto mandato della Società delle Nazioni. Non necessariamente a vantaggio di quest’ultima, perché la Prima guerra mondiale aveva fortemente ridotto il margine operativo finanziario per una strutturazione dell’economia coloniale. Mentre britannici e francesi si dedicavano gradatamente a un colonial-developement con investimenti intensivi – e con ciò favorivano i movimenti indipendentisti piuttosto che reprimerli – la Germania fu perlomeno liberata da questi gravami. Nel 1928 Carl von Ossietzky poté quindi scrivere sulla “Weltbühne”: “Fra tutti i Paesi coinvolti nella Guerra la Germania è l’unico che può ritenere a buon diritto che il Trattato di pace le ha portato vantaggi. Certamente ha perduto territori, deve pagare pesanti riparazioni di guerra e una parte della sponda del Reno è ancora occupata [dagli Alleati]. Ma a questo riguardo è uscita dalla sfera dell’imperialismo e non c’è più una Germania d’oltremare da difendere”27
La punta di questa presa di posizione si dirige chiaramente contro il revisionismo coloniale. Infatti dopo il 1919 nulla colpì al cuore i tedeschi tanto sensibilmente quanto l’affermazione degli Alleati che essi si sarebbero dimostrati incapaci come colonizzatori. Nel marzo 1919, con 414 voti contro sette contrari, l’Assemblea nazionale di Weimar elevò protesta e richiese la “reintegrazione della Germania nei suoi diritti coloniali”. Eppure né quattro milioni di firme né il richiamo alla “fedeltà” degli ascari28 in Africa orientale tedesca furono in grado di ostacolare il dettato dell’art. 119 del Trattato di Versailles, in cui si dice: “La Germania rinuncia a favore delle Potenze alleate e associate a tutti i suoi diritti e pretese riguardo ai suoi possedimenti di oltremare”.
L’epoca coloniale tedesca finì così come storia reale, ma non come storia di fantasie e proiezioni. Dal 1920 l’Africa sembrò perfino spostarsi pericolosamente vicino alla Germania, sotto la forma dei soldati coloniali “di colore”, belgi e francesi, appartenenti alle forze di occupazione della Renania. I nazionalisti tedeschi videro allora il loro Paese svilito a colonia e considerarono l’impiego militare di truppe di colore come serio pericolo per l’intera “razza bianca”, uno schiaffo per tutta l’esperienza coloniale29. Reagirono con massima violenza i razzisti nazional-popolari: nella percezione di Adolf Hitlersullo spazio “vitale” sul Reno se ne stavano “orde di negri” francesi, dalla parte della Francia incombeva perfino “un territorio d’insediamento, gigantesco e chiuso, dal Reno fino al Congo (…), riempito da una razza inferiore che si formava lentamente mediante un lento imbastardimento”30.
Il dibattito, che in seguito proseguì sui cosiddetti “bastardi renani”, era sintomatico per la crescente mescolanza del pensiero geopolitico con elementi razzistici. La lobby coloniale tedesca mise tuttavia in atto questa trasformazione soltanto in parte. Nello spettro politico di Weimar essa formò una piccola ma ben organizzata minoranza che ancora una volta intendeva fare della questione coloniale una pietra di paragone per un rinnovato apprezzamento internazionale dei tedeschi. In tutto questo essi si appoggiarono alla aspettativa che le rimaste potenze coloniali alla lunga sarebbero state sovraccaricate dallo sfruttamento dei loro territori tropicali. Il rinnovamento del “continente d’integrazione” europeo sarebbe ora dovuto diventare un progetto complessivo d’intesa europea. Nel Piano Schuman del maggio 1950 risuonava ancora questa prospettiva eurafricana31.
In molti tedeschi le colonie in Africa lasciarono una specie di “dolore all’arto fantasma”. Fino ai primi anni ‘40 si nutrì la speranza che delle colonie si sarebbe potuto riprendere possesso. Tuttavia sul lungo periodo ebbero la meglio le stesse forze che volevano abbandonare l’Africa a sé stessa insieme al suo “incompleto sviluppo”. L’economia tedesca si consolò presto della perdita delle colonie, si adattò alle nuove situazioni e cominciò a vedere come vantaggio il non essere più gravata dalle sue ex-colonie. La ricerca industriale accelerò la realizzazione di materie prime sintetiche che avrebbero dovuto rendere la Germania indipendente dalle risorse coloniali. I geopolitici, oltre all’Africa, si orientarono verso altri territori in cui espandersi e consigliarono nuovamente la “penetrazione pacifica” nei Balcani fino al Vicino Oriente. Hitler e il suo movimento nazionalsocialista perseguivano al contrario il piano di conquista dello spazio vitale tedesco nell’Europa orientale. Dopo la “presa del potere” Hitler coordinò il movimento coloniale, se ne servì per i suoi giochi strategici di politica estera e lo “liquidò” rapidamente dopo l’inizio della campagna contro la Russia. “Quando l’impero coloniale tedesco era quasi completato e perfetto sul piano della pianificazione”, così considerò Klaus Hildebrand, “all’inizio del 1943 un ordine di Martin Bormann su disposizione di Hitler pose termine ad ogni attività nel campo coloniale”32. In confronto alle pianificazioni per un futuro ordinamento territoriale “germanico” nell’Europa orientale i progetti per le colonie appaiono perfino relativamente “moderati”. Infatti insieme a tutto il razzismo, che qui si manifestava, l’idea di una “ricomposizione fondiaria” popolare onnicomprensiva, come presupponevano i piani territoriali per l’Oriente, non era più qui un’alternativa reale.
Proprio perciò il desiderio tedesco di Africa poté ancora una volta accendersi anche nel secondo dopoguerra. Alcuni autori dopo il 1945 videro ancora nell’Africa il “compito comune n. 1 dell’Europa”. Altri invece guardavano con sentimenti contrastanti i processi di trasformazione avviati dagli europei33. La loro crescente autonomia risvegliò timori che gli africani decolonizzati potessero passare all’islam o al comunismo. I tentennanti approcci di aiuti per lo sviluppo in entrambi gli Stati tedeschi furono giudicati in Occidente come il diffondersi del blocco orientale e in Oriente bollati come neocolonialismo. Entrambi i sistemi trovarono ancor sempre difficile trattare con gli africani al medesimo livello34. Con l’ulteriore indipendenza di parti dell’Africa nel 1960 i Paesi industrializzati persero evidentemente il loro interesse politico per i Paesi in via di sviluppo. Invece di ciò essi si arresero sempre più davanti alla problematica degli sviluppi avviatisi – in particolare la continua consunzione dei modesti tassi di crescita economica dovuta all’esplosivo aumento delle popolazioni – e sempre più fortemente sentirono sé stessi come indecisi “apprendisti stregoni”.
Per questo l’Africa non svolge più alcun ruolo per i tedeschi? Di tanto in tanto si vede ancora sui muri di vecchie case uno sbiadito riferimento a un “Negozio di generi coloniali”. Anche numerosi musei, giardini botanici o istituzioni di ricerca possono essere fatti risalire ad una preistoria coloniale. Ad Amburgo o a Berlino si può osservare da tracce di vario tipo che per i tedeschi l’Africa una volta ancora era uno spazio di fantasie vasto e durevole35. Quando gli Herero dell’Africa Tedesca del Sudovest esigettero dalla Germania almeno una scusa per il tentato genocidio, nell’opinione pubblica tedesca questa richiesta fu liquidata come una stravaganza. Simili gesti sono interpretati sempre più come inevitabili fenomeni concomitanti alla globalizzazione. Eppure l’Africa ha assolutamente ancora da offrire al mondo: quantità di risorse, gigantesco potenziale di energia e un numero di abitanti superiore ai 700 milioni. Già solamente la dinamica propria delle connessioni in rete suggerisce che l’Africa – resa accessibile soltanto parzialmente dagli europei e lasciata ampiamente sola con le relative conseguenze – alla lunga non rimarrà alla periferia del mercato e della società mondiali. Così tornerà il tempo del continente apparentemente tanto dimenticato.
1 Bartholomäus Grill, Ein Kontinent in Flammen, die Zeit 18.5.2000, p.3.
2 V. Dirk van Laak, Imperiale Infrastruktur. Deutsche Planungen für eine Erschliessung Afrikas 1880 bis 1960, Paderborn u.a. 2004.
3 Arthur Dix, Deutschland auf den Hochstrassen des Weltwirtschaftverkehrs, Jena 1901, p. 4,7.
4 V. Suzanne Zantop, Kolonialphantasien im vorkolonialen Deutschland (1770-1870), Berlin, 1999.
5 V. Hans Fenske, Ungeduldige Zuschauer. Die Deutschen und die europäische Expansion 1815-1880, in: W. Rheihard (editore), imperialistische Kontinuität und nationale Ungeduld im 19. Jahrhundert, Frankfurt/M., 1991, p. 87-123.
6 Carl Peters, Ein deutsches Kolonialreich in Afrika, in: Adolf Grabowsky/Paul Leutwein (Hrsg.), Die Zukunft der deutschen Kolonien, Gotha 1918, S. 48.
7 Vedi: Susanne Kuß/Bernd Martin (Hrsg.), Das Deutsche Reich und der Boxeraufstand, München 2002.
8 Vedi: Franz Giesebrecht, Ein deutscher Kolonialheld. Der Fall "Peters" in psychologischer Beleuchtung, Zürich 1897; ders., Die Behandlung der Eingeborenen in den deutschen Kolonien. Stellungnahmen deutscher Kolonialpioniere, Berlin 1897.
9 Vedi: Hans Spellmeyer, Deutsche Kolonialpolitik im Reichstag, Stuttgart 1931; Maria-Theresia Schwarz, "Je weniger Afrika, desto besser". Die deutsche Kolonialkritik am Ende des 19. Jahrhunderts, Frankfurt/M. u.a. 1999.
10 Vedi: Rudolf von Albertini (unter Mitarbeit von Albert Wirz), Europäische Kolonialherrschaft. Die Expansion in Übersee von 1880 - 1940, München 1982, S. 448f.
11 Vedi: Lora Wildenthal, German Women for Empire, 1884 - 1945, Durham 2001.
12 Richard J. Evans (Hrsg.), Kneipengespräche im Kaiserreich. Stimmungsberichte der Hamburger Politischen Polizei 1892 - 1914, Reinbek 1989, S. 351.
13 Verhandlungen des Deutschen Kolonialkongresses 1902 zu Berlin am 10. und 11. Oktober 1902, Berlin 1903, S. 505, 507.
14 Vedi: Anton Markmiller, Die Erziehung des Negers zur Arbeit. Wie die koloniale Pädagogik afrikanische Gesellschaften in die Abhängigkeit führte, Berlin 1995.
15 Vedi: Thomas Richards, The Imperial Archive. Knowledge and the Fantasy of Empire, London 1993, S. 5.
16 So der Kolonialtechniker Franz Allmaras, Ich baue 2 000 km Eisenbahnen, in: Heinrich Pfeiffer (Hrsg.), Heiß war der Tag. Das Kolonialbuch für das junge Deutschland, Berlin 1933, S. 41.
17 Zum Herero-Krieg Vedi: die literarischen Verarbeitungen von Gustav Frenssen, Peter Moors Fahrt nach Südwest. Ein Feldzugsbericht, Berlin 1906; Uwe Timm, Morenga. Roman, München 1978; Gerhard Seyfried, Herero. Roman, Frankfurt/M. 2003.
18 Vedi: Jürgen Zimmerer, Krieg, KZ und Völkermord in Südwestafrika. Der erste deutsche Genozid, in: ders./Joachim Zeller (Hrsg.), Völkermord in Deutsch-Südwestafrika. Der Kolonialkrieg (1904 - 1908) in Namibia und seine Folgen, Berlin 2003, S. 60.
19 Il Reichstag votò contro la richiesta del governo di un maggiore finanziamento per la guerra in Africa Tedesca del Sudovest contro i “ribelli” herero e nama, chiamati spregiativamente “ottentotti”. Vedi: Matthias Erzberger, Die Kolonial-Bilanz. Bilder aus der deutschen Kolonialpolitik auf Grund der Verhandlungen des Reichstags im Sessionsabschnitt 1905/06, Berlin 1906.
20 Bernhard Dernburg, Zielpunkte des deutschen Kolonialwesens. Zwei Vorträge, Berlin 1907, S. 9.
21 Vedi: Pascal Grosse, Kolonialismus, Eugenik und bürgerliche Gesellschaft in Deutschland 1850 - 1918, Frankfurt/M.-New York 2000.
22 Il termine tedesco spregiativo kaffer significa negro e stupido, ignorante. Carl Peters, Kolonialpolitik und Kolonialskandal (1907), in: ders., Gesammelte Schriften, 1. Bd., München-Berlin 1943, S. 441f. Wolfgang Uwe Eckart, Medizin und Kolonialimperialismus. Deutschland 1884 - 1945, Paderborn 1997, S. 65; Vedi: auch Birthe Kundrus, Moderne Imperialisten. Das Kaiserreich im Spiegel seiner Kolonien, Köln 2003, S. 219 - 279
23 Vedi: Horst Gründer, Geschichte der deutschen Kolonien, Paderborn u.a. 19912, S. 239.
24 Wolfgang Reinhard, Öffentliche und andere Hände. Privatisierung und Deregulierung im Lichte historischer Erfahrung, in: Helga Breuninger/Rolf Peter Sieferle (Hrsg.), Markt und Macht in der Geschichte, Stuttgart 1995, S. 281.
25 Vedi: Wolfgang Petter, Der Kampf um die deutschen Kolonien, in: Wolfgang Michalka (Hrsg.), Der Erste Weltkrieg, Weyarn 1997, S. 393.
26 [n.d.t.] Recenti studi hanno chiarito che la guerriglia di Lettow-Vorbeck è costata alla popolazione civile centinaia di migliaia di morti, soprattutto per fame, perché le sue truppe, in gran parte composte da “ascari neri”, si rifornivano predando le risorse alimentari della loro stessa popolazione. Le truppe inglesi che si pretese fossero state sottratte al fronte europeo erano divisioni indiane di infima efficienza. Vedi fra gli altri Eckard Michels, “Der Held von Deutsch-Ostafrika, Paul von Lettow-Vorbeck, ein preussischer Kolonialoffizier”, Ferd. Schöning, Paderborn 2008, ISBN 978-3-506-76370-9.
27 Carl von Ossietzky, Deutschland ist ..., in: Die Weltbühne, 24. Jg., Nr. 45 vom 6. 11. 1928, S. 689.
28 Vedi: Christian Koller, "Von Wilden aller Rassen niedergemetzelt". Die Diskussion um die Verwendung von Kolonialtruppen in Europa zwischen Rassismus, Kolonial- und Militärpolitik (1914 - 1930), Stuttgart 2001.
29 N.d.t.: vedi le attuali teorie razziste del sovranismo fascitoide.
30 Wolf W. Schmokel, Der Traum vom Reich. Der deutsche Kolonialismus zwischen 1919 und 1945, Gütersloh 1967, S. 30 mit Bezug auf "Mein Kampf".
31 Vedi: Thomas Oppermann, "Eurafrika" - Idee und Wirklichkeit, in: Europa-Archiv, 23 (1960), S. 695 - 706.
32 Klaus Hildebrand, Vom Reich zum Weltreich. Hitler, NSDAP und koloniale Frage 1919 - 1945, München 1969, S. 774.
33 Anton Zischka, Afrika. Europas Gemeinschaftsaufgabe Nr. 1, Oldenburg 1951; auch Gustav-Adolf Gedat, Was wird aus diesem Afrika? Wiedersehen mit einem Kontinent nach fünfzehn Jahren, Stuttgart 1952.
34 Vedi: Ulf Engel/Hans-Georg Schleicher, Die beiden deutschen Staaten in Afrika. Zwischen Konkurrenz und Koexistenz 1949 - 1990, Hamburg 1998.
35 Vedi: Ulrich van der Heyden/Joachim Zeller (Hrsg.), Kolonialmetropole Berlin. Eine Spurensuche, Berlin 2002.



Giovedì 31 Ottobre,2019 Ore: 22:01
 
 
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