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www.ildialogo.org La tattica della “terra bruciata” – Le conseguenze del dominio coloniale tedesco in Africa Tedesca del Sudovest,di Claus Kristen

La tattica della “terra bruciata” – Le conseguenze del dominio coloniale tedesco in Africa Tedesca del Sudovest

(traduzione dal tedesco di José. F. Padova)


di Claus Kristen

La Germania è un Paese in cui la storia coloniale non è affatto finita. È piuttosto in attesa della sua presa di coscienza. E non soltanto per quanto riguarda i concreti avvenimenti passati. Altrettanto importante è riconoscere il decisivo stampo mentale delle persone, la trasformazione operante nel profondo della consapevolezza sociale, che negli Stati colonizzatori è emersa da sé e che oggi è certamente modificata, ma per nulla meno efficace di quanto lo era 100 anni fa. Nel 2004 si offerse un’occasione per una pubblica discussione sulla storia coloniale tedesca e sulle sue conseguenze, fino ad oggi oltremodo gravi. In occasione dei 100anno trascorsi dal genocidio perpetrato dalle truppe tedesche contro herero e nama in “Africa Tedesca del Sudovest” (Namibia) – il primo genocidio del XX secolo – abbiamo udito è letto più volte sulla stampa e alla televisione degli avvenimenti accaduti e anche delle attuali richieste di riparazioni avanzate dagli herero. Subito dopo tutto sembra nuovamente dimenticato sotto il motto: “Abbiamo già parlato di questo”. Già un anno più tardi si presenta – annoverato nei macabri “anni di commemorazione” – un’altra occasione: la guerra dei maji-maji nell’”Africa orientale tedesca”, la prima lotta di liberazione anticoloniale africana estesa an un intero popolo.
La guerra maji-maji durò dal 1905 al 1907, quindi per comprenderla dobbiamo spingere lo sguardo indietro di altri 20 anni. Là arriviamo ad una delle figure più temerarie della storia coloniale tedesca: Carl Peters, il figlio di un pastore evangelico di Neuhaus sull’Elba. Ossessionato dal pensiero di procurare colonie all’Impero tedesco, con tre compari di simili convinzioni si recò in Africa orientale. Concluse “trattati” con africani e africane, la cui attuazione, secondo le sue stesse parole, avveniva così: “Entrammo in un insediamento e così Jühlke ed io ci recammo da Sua Altezza… A Mbusine presso Mbuela stabilimmo subito un rapporto veramente cordiale, intanto tenendolo in mezzo a noi portammo il sultano in un magazzino, circondandolo persuasivamente con le nostre braccia. … Quindi iniziarono le trattative diplomatiche sulle cui basi fu concluso il contratto. Fatto questo si issarono le bandiere, fu data lettura del contratto nel testo tedesco da parte del dr. Jühlke, io tenni un breve discorso … che terminò con un hurrah a Sua Maestà l’Imperatore tedesco, e tre salve [di fucileria] dimostrarono ai neri … che cosa avrebbero dovuto aspettarsi nel caso di inadempienza. Ci si può facilmente immaginare quale impressione esercitò quella procedura sui negri”.
La mancata tematizzazione del colonialismo tedesco
Nel 1884 e in tempi brevissimi Carl Peters concluse in questo modo una dozzina di “trattati di protettorato”. Il suo nome è indissolubilmente legato alla conquista dell’Africa orientale da parte dell’Impero tedesco. Come fondatore della “Società per la colonizzazione tedesca” egli vide, secondo sue dichiarazioni, “l’arricchimento spietato e risoluto del proprio popolo a spese di altri popoli deboli” come suo scopo e sua motivazione in quanto “ne avevo abbastanza di essere considerato fra i paria e desideravo appartenere ad un Herrenvolk [popolo di signori, di padroni]”. Di propria iniziativa penetrò nella regione costiera dell’Africa orientale, la via d’accesso verso il gigantesco entroterra. Sulle prime i governanti dell’Impero germanico lo squadrarono sospettosi. Temevano conflitti con le altre potenze coloniali, specialmente con l’Inghilterra. Herbert von Bismarck, figlio del Cancelliere, così si espresse: “Peters è un pessimo soggetto, a un babbeo tanto fantastico deve capitare una brutta fine”.
Eppure dopo poco tempo il vento cambiò direzione. Dopo la Conferenza sul Congo svoltasi a Berlino, nella quale le potenze coloniali fissarono i territori di loro interesse, Peters fu nominato “commissario imperiale” per il territorio del Kilimangiaro. Il Cancelliere del Reich Bismark, all’inizio su posizioni scettiche sulle acquisizioni coloniali tedesche, osservava con preoccupazione la politica di dazi protettivi di inglesi e francesi, che si estendeva anche ai territori coloniali e si opponeva agli interessi commerciali dei tedeschi. Successivamente Bismarck modificò la sua opinione; inoltre sperava in un aumento dei voti a lui favorevoli nelle incombenti elezioni del Parlamento.
Il territorio indicato come “Africa orientale tedesca” – gli odierni Stati Tanzania, Ruanda e Burundi – era separato quasi ermeticamente da enormi laghi e gigantesche catene montuose dal resto del Continente africano. L’estensione, vicina al milione di kmq, era quasi doppia di quella dell’Impero tedesco. Fiorenti città costiere erano in contatto con i piccoli villaggi dell’entroterra. In tutta l’Africa orientale si contavano oltre 130 diversi gruppi etnici, le cui forme di organizzazione spaziavano da regni strettamente centralizzati a società ugualitarie prive di ceto dominante.
Carl Peters, un “tipo totalmente malvagio”
All’interno di quel Paese Carl Peters si mosse instancabile alla ricerca di conquiste. Nei luoghi in cui si spostava faceva montare una capanna e subito dopo una forca. I suoi eccessi contro i nativi e le sue orge a base di alcol erano famigerati. Alla fine il suo destino fu segnato da un episodio che al suo soprannome “Uomo dalle mani insanguinate” aggiunse quest’altro: “Peters l’impiccatore”. La sua amante africana si era azzardata ad avviare una relazione col suo servitore, al che sui due piedi Peters fece appendere entrambi alla forca. Questo fatto suscitò in Germania grande scalpore, si arrivò al processo e alla sua destituzione. Più tardi egli fu riabitato e fino alla sua morte nel 1918 percepì una pensione concessagli personalmente dal Kaiser. I nazionalsocialisti lo proclamarono quintessenza dell’aspirazione tedesca a grande potenza e modello della gioventù germanica. Anche nella Repubblica federale tedesca degli anno ’50 e ’60 fu recepito benevolmente da politici e stampa.
Le acquisizioni di Peters nell’Africa orientale tedesca presentavano un grande svantaggio: le gigantesche appropriazioni territoriali nell’entroterra da parte della “Società per la colonizzazione tedesca” – presto ribattezzata come “Società tedesca per l’Africa orientale” (DOAG) – esigevano il controllo della regione costiera, dominata dagli Arabi, per poter promuovere il commercio. Nell’estate 1888 si giunse all’escalation: la cosiddetta “sollevazione araba”. La DOAG dovette chiedere aiuto all’Impero. La richiesta non rimase inascoltata: il Parlamento autorizzò l’invio di un corpo spedizionario e lo stanziamento di due milioni di Reichsmark. Bismarck aveva tenuto pronto l’argomento adatto: si trattava soprattutto della lotta contro il commercio di schiavi gestito dagli arabi, in una annotazione agli atti troviamo questa sua domanda: “Non si può trovare dettagli raccapriccianti sul supplizio delle persone?”.
La “rivolta araba” fallì dopo un anno, nonostante a periodi l’intero territorio sotto protettorato germanico si trovasse nelle mani dei rivoltosi. Si dovette inviare navi da guerra, per ritornare padroni della situazione. Eppure i problemi dei tedeschi non erano diventati minori. Infatti ora si ribellarono i Wahehe sotto il comando del leggendario Mkwawa, che presto in Germania divenne uno dei più famosi africani. I wahehe all’inizio inflissero ai tedeschi una devastante sconfitta. Ma con una campagna militare durata sette anni i colonialisti riuscirono a soggiogare i wahehe. La tattica di guerra dei tedeschi sotto la guida di Hermann Wissmann, ancor oggi beniamino dei nostalgici delle colonie, fornisce già una luce sulla successiva guerra dei maji-maji.

Sfruttamento mediante pesanti imposte e lavoro forzato
Le truppe tedesche desertificarono una località dopo l’altra. Presto non si fecero più prigionieri, donne e bambini furono presi in ostaggio, campi, sementi e capanne bruciati, il bestiame sequestrato. Il governatore Eduard von Liebert scrisse a proposito: “Ho praticamente imparato la guerra in Boemia e in Francia … ma ciò che ho sperimentato qui in Uhehe era fuori dal quadro di tutto l’accaduto finora. Si trattava di qualcosa di autenticamente africano”.
Mkwawa, il capo dei wahehe, alla fine non vide più via di scampo e si suicidò. Nel periodo della guerra wahehe ebbero luogo 60 ulteriori cosiddette “spedizioni punitive”. L’esercito tedesco d’altra parte era costituito in piccola parte da tedeschi – la parte di gran lunga più grande era formata da guerrieri africani mercenari, reclutati in Sudan, Eritrea e perfino Nuova Guinea. Oggi parliamo di “eserciti mercenari”. Il loro nome di allora era: “ascari”.
Dopo le campagne militari contro gli abitanti, di ambo i sessi, della costa e contro i wahehe sembrò arrivato il momento di inculcare ad africani e africane la civiltà europea. E ciò significo soprattutto: trasmettere ai “pigri negri” la giusta morale del lavoro. Gli indigeni furono costretti a lavorare nei campi di cotone per l’esportazione in Germania. In questo ottennero soltanto una piccolissima parte del compenso per il loro lavoro e per di più soltanto un anno dopo il raccolto, quando i prodotti esportati in Germania fossero stati venduti. Come forma di resistenza passiva di notte si dileguavano non soltanto singoli lavoratori e lavoratrici, ma in molti casi intere squadre di lavoro. Al rifiuto di lavorare i signori[1] coloniali risposero riducendo in cenere interi villaggi e con pene corporali barbariche. In un provvedimento del Cancelliere imperiale si dice: “Le pene autorizzate sono: punizioni corporali (mediante bastone, verga), sanzioni pecuniarie, carcere con lavoro forzato, incatenamento, pena di morte”. Nessun’altra potenza coloniale applicò le pene corporali in misura tanto estensiva quanto l’Impero tedesco. L’Amministrazione coloniale proibì le attività venatorie tradizionali e aumentò ancor più la pressione fiscale, come a esempio la tassa detta Pombe sulla birra “fai da te” degli africani. Il drastico provvedimento d’altronde introdusse la tassa pro capite, tassa pro capite, l’aumento del quadruplo delle imposte sulle capanne. Con ciò il vaso cominciò a traboccare. Il messaggio esisteva già e altrettanto il profeta. Il suo nome era Kinjikitile.
Un giorno dell’anno 1904 Kinjikitile fu posseduto da uno spirito, da un “hongo”. Cadde sul ventre e si trascinò strisciando lontano dalla sua capanna. Si dice inoltre: “Poi scomparve in uno stagno. Vi si mise a dormire e i suoi seguaci dormirono presso lo stagno, per aspettarlo la notte … Così attesero e il mattino dopo … egli tornò a galla incolume e con i vestiti asciutti, come quando il giorno prima aveva mangiato con essi. Dopo questo suo ritorno egli cominciò a fare discorsi profetici”.
Hongo nella visione di Kinjikitile annunciava il precetto dell’unità. Doveva avere fine la dispersione dei diversi popoli e solamente così il comune nemico poteva essere battuto. Egli, Kinjikitile, era in possesso di una nuova medicina che avrebbe reso possibili veri e propri prodigi: il “Maji”, un termine swahili che in tedesco significa: “acqua”. Mais e sorgo devono essere bolliti in acqua e subito dopo o bevuti, o portati in un recipiente appeso al collo o semplicemente versati sulla testa. Il maji proteggerà dalla magia nera, dalla siccità, dal cattivo raccolto e dai cinghiali che devastano i campi. Ma soprattutto il maji renderà invulnerabili, le pallottole dei fucili nemici imperleranno i corpi come gocce di pioggia.
Nell’estate 1904 si misero in cammino masse di pellegrini per ricevere il maji da Kinjikitile. I tedeschi osservavano questi gruppi, anche di oltre 300 persone, ma non sospettavano il pericolo che si annidava in quei preparativi. Gli storici discutono sulla possibilità che anche senza maji si sarebbe arrivati a una sollevazione popolare. In ogni caso il maji era il legame spirituale unificante in mancanza del quale probabilmente non si sarebbe attuata l’azione di gruppi tanto diversi.
La guerra maji-maji contro l’occupante tedesco
Un certo mattino di luglio 1905 accadde quanto segue: gli abitanti della cittadina di Nandete come al solito sgobbano nelle piantagioni di cotone. Dopo qualche ora, in una calura insopportabile, all’improvviso uno dei sorveglianti giace al suolo gemente. Due lavoratori gli hanno preso il randello e lo bastonano. Una donna e due uomini cominciano a strappare dal suolo gli arbusti di cotone. Quindi dalla città accorrono sempre più abitanti finché tutte le piante di cotone sono distrutte. Il che equivale a una dichiarazione di guerra contro i tedeschi. L’amministrazione coloniale si allarma; si sparano i primi colpi e poi risuonano anche i tamburi di guerra. Il rituale maji-maji è portato a termine in massa. Nella poco lontana città di Kibata sono saccheggiati i negozi dei commercianti arabi e indiani, alcuni dei quali vengono uccisi. L’assalto alla fortezza però fallisce e la guarnigione può fuggire. Il colono tedesco Hopfer è la prima vittima bianca degli insorti.
Già pochi giorni dopo Kinjikitile è fatto prigioniero e condannato al capestro. Poco prima di morire dice: “La mia impiccagione non servirà più nulla a voi tedeschi, perché la mia dawa (magia, farmaco) ha già avuto effetto fino a Kilosa e Mahenge”. Queste parole inquietarono enormemente i tedeschi: le città nominate distavano centinaia di chilometri dal territorio di origine della rivolta. La cosa era chiara: i tedeschi e le loro truppe ausiliarie avrebbero avuto a che fare con l’insurrezione collettiva di popoli fra i più diversi fra loro. Dopo le dure lotte in Africa Tedesca del Sudovest anche in Africa orientale tedesca l’Amministrazione coloniale tedesca avrebbe dovuto chiedere assistenza all’Impero. Si inviò un’altra nave da guerra e le truppe coloniali furono integrate da personale bianco e da ulteriori mercenari ascari. In direzione nord la rivolta giunse alla stasi, ma verso sud e sudovest prese una dinamica sempre più forte. In queste zone si trovavano popoli uniti fra loro nonostante strutture sociali interne molto differenti. Ma non tutti vi prendevano parte. I wahehe ad esempio, dopo la loro guerra contro i tedeschi durata sette anni, non erano stati in grado di rigenerarsi. Anche la fede nella forza del maji non era più dovunque salda nella stessa misura. D’altronde il fatto che i combattenti non fossero protetti e venissero uccisi dalle pallottole all’inizio non era motivo di dubbio. Infatti diverse prescrizioni condizionavano l’assunzione del maji, ad esempio la rigorosa astensione sessuale prima della battaglia, la proibizione del saccheggio o tenere continuamente lo sguardo sul nemico mentre si combatteva. I morti non avevano forse rispettato queste disposizioni?
Un autentico dubbio circa il potere magico del maji sorse in settembre. Una guarnigione tedesca di cinque soldati bianchi e 60 ascari, si trovò di fronte a 25.000 guerrieri africani che portavano i simboli del maji: legati alla testa steli di miglio e una stoffa rossa al braccio destro. Tuttavia fattore decisivo non fu il numero dei guerrieri ma la tecnica delle armi moderne. Due mitragliatrici decisero le sorti della lotta, del tipo specificamente sviluppato da Hiram Maxim per la guerra contro “indigeni”. Lo scrittore Hillaire Belloc la vide così: “Whatever happens, we have got / the Maxim gun, and they have not” [«Comunque vada, noi abbiamo la Maxim, e loro no.»]. Davanti alle canne di queste armi i guerrieri africani che correvano all’attacco cadevano a intere ondate. La guarnigione tedesca lamentò 20 morti, mentre dalla parte avversa si ammucchiavano innumerevoli cadaveri. Gli insorti si resero consapevoli della necessità di un armamento equivalente. Di conseguenza cambiarono la loro tattica: gli attacchi in massa contro le devastanti armi a lunga gittata degli avversari apparvero insensati e passarono quindi a forme diverse di guerriglia.
Nell’ottobre 1905 il fronte bellico unitario degli africani cominciò a sgretolarsi. Gli eventi bellici presentarono sempre più una tendenza alla regionalizzazione. La potenza coloniale assunse in misura crescente il controllo del commercio. Eppure allo stesso tempo l’insurrezione raggiunse la sua maggiore estensione, un terzo circa dell’intero territorio coloniale dell’Africa orientale tedesca. I tedeschi dovettero soprattutto impedire un ulteriore allargamento verso nord. Perciò misero in atto una tattica che il capitano von Wangenheim descrive nel modo seguente: “A mio parere soltanto fame e miseria possono condurre alla sottomissione definitiva; le operazioni militari rimarranno più o meno buchi nell’acqua. Quando i mezzi di sussistenza ancora disponibili saranno esauriti, le case distrutte da persistenti incursioni e si sarà tolta la possibilità di coltivare nuovi campi, allora dovranno definitivamente abbandonare la loro rivolta”
Eredità del colonialismo: povertà e malattia
Era la tattica della “terra bruciata”, che abbiamo già visto applicata nella guerra contro i wahehe. Non appena le truppe tedesche raggiungevano una località la radevano al suolo, dopo aver saccheggiato le sue risorse alimentari – le capanne bruciate, i campi distrutti, avvelenate le sorgenti, il bestiame razziato. Poi si cercò di affamare gli abitanti e di impedire che ricostituissero le loro condizioni di sopravvivenza. Inoltre alle truppe ausiliarie (ascari) non si diede più né paga né sostentamento, che avrebbero dovuto procurarsi direttamente dai loro “nemici”. Ci si può facilmente immaginare il conseguente abbrutimento. La fame provocata assunse ora importanza decisiva. Essa causò in molti territori più morti delle operazioni belliche dirette. Il numero di abitanti si ridusse rapidamente, il tasso di natalità calò drasticamente. Il puzzo dei cadaveri impestò molte zone ed esplosero malattie come la dissenteria “rossa”. Animali come cinghiali ed elefanti penetrarono nei terreni un tempo coltivati e distrussero tutto ciò che ancora si poteva cavarne. Molte persone caddero vittime dei leoni. Si diffuse anche la mosca tze-tze portando con sé malaria e malattia del sonno. Era diventato inabitabile un territorio immenso.
I documenti dell’Ufficio coloniale dell’Impero parlano di 75.000 africani e africane deceduti. Stime più realistiche vanno da 250.000 fino a 300.000 vittime, circa un terzo della popolazione complessiva delle zone di guerra. Dalla parte tedesca caddero 15 europei, 73 ascari e 316 “collaboratori bellici”. In Africa la prima lotta di liberazione anticoloniale comprendente più popolazioni era fallita. L’élite politica nei territori di guerra era annientata, durevolmente distrutte le strutture sociali e nuovamente azzerata la pur raggiunta unità dei popoli colpiti. I tedeschi avevano riconosciuto il carattere dello scontro. Così scrive l’ispettore di missione Axenfeld: “I suoi insegnamenti politici più importanti sono l’improvvisa unificazione solidale, mai avvenuta prima, di tribù nemiche fra loro per la lotta contro i bianchi e il fanatico coraggio di popoli diffamati come vili, che si mostra ora attraverso la superstizione della magia [maji] …”.
Nella Prima guerra mondiale svanirono i sogni dell’impero coloniale tedesco. La Società delle Nazioni mise la gran parte delle già colonie tedesche – Tanganica e Zanzibar – sotto il mandato britannico. i belgi ottennero i due regni più piccoli, situati nell’estrema parte nord-occidentale, Ruanda e Burundi, nei quali i tedeschi avevano evitato di ingerirsi troppo direttamente. Lì ricercatori e etnologi tedeschi parteciparono alla formazione di un oscuro mito razzistico, le cui devastanti conseguenze avrebbero raggiunto il loro culmine più di cento anni dopo. La fuorviante interpretazione di contrasti sociali come categorie etniche – qui i “nobili tutsi”, là i “negroidi hutu” – è una causa degli assassinii di massa e dei genocidi sia in Ruanda che in Burundi. All’inizio degli anni i territori sotto mandato ottennero l’indipendenza. Il Tanganica si unì a Zanzibar per formare la Tanzania. Anche il Ruanda e il Burundi divennero Stati autonomi. Il carismatico presidente tanzaniano Julius Nyerere si adoperò su una via di sviluppo autonomo di carattere socialista, che alla fine non si realizzò per il taglio dei fondi da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, per la caduta dei prezzi delle materie prime e a causa della burocrazia interna statale.
Oggi la Tanzania è uno dei Paesi più poveri al mondo. La molteplicità dei gruppi etnici è ancora la più marcata in tutto il Continente, mentre diversità e conflitti al contrario sono relativamente insignificanti – una circostanza che dovrebbe fare riflettere sulla consueta rappresentazione che si ha dell’Africa. Circondata da regioni in crisi, la Tanzania ospita il maggior numero relativo di profughi all’interno dell’Africa. In un documento strategico della Commissione dell’Unione Europea del settembre 2005, che si riferisce esplicitamente a proposte del Ministero degli Interni tedesco, si progetta in Tanzania l’istituzione di campi di raccolta dei profughi, da sostenere mediante fondi di un programma di sviluppo dell’UE. Si prevede di concentrare soprattutto profughi dalla regione dei “Grandi laghi” e di selezionarli sul posto con uno “screening” basato su criteri di utilizzabilità economica: secondo la situazione del mercato del lavoro negli Stati dell’UE una parte dei profughi potrebbe lavorare nel settore europeo dei bassi salari, mentre la parte “non impiegabile” verrebbe riportata nei paesi di origine.
Navi da guerra tedesche davanti alla costa orientale dell’Africa
Fino ad oggi il sud della Tanzania è il “punto cruciale” sociale del Paese. La guerra maji-maji e la politica della “terra bruciata” mostrano ancora adesso i loro effetti. Svariati “indicatori di sviluppo” parlano un linguaggio univoco: il tasso di mortalità infantile è alto, il reddito pro-capite particolarmente basso, l’aspettativa di vita limitata, l’accesso all’acqua pulita e ai servizi sanitari difficoltoso, mentre l’accesso alla scuola è ostacolato – soprattutto da quando, su richiesta dei prestatori internazionali di fondi, dal 1990 si esige una tassa scolastica. Altrettanto al sud del Paese, dove si trova il più grande parco naturale dell’Africa, il secondo del mondo per estensione. Si tratta del “Selous Game Reserve”, che ha preso il nome dal capitano britannico Frederick Selous, appassionato di caccia grossa, morto nel 1917 durante uno scontro con i tedeschi di Lettow-Vorbeck. Questa riserva ha un’estensione di 50.000 kmq – più vasta della Danimarca – ed è riconosciuta come patrimonio naturale mondiale dall’UNESCO. Vi vivono circa un milione di animali selvatici. Nella rivista avventure e viaggi del settembre 2005 si trova il seguente articolo: “Maggiore riserva naturale d’Africa con i suoi 50.000 kmq, il Parco Selous non è un posto in cui la vita è facile. Si parla della Tanzania meridionale, di per sé già una regione poco popolata, non da ultimo a causa di molti animali, fra i quali la mosca tze-tze, anche se dall’aspetto insignificante, è uno dei più pericolosi. La malattia del sonno, diffusa da questa mosca, risparmia la fauna selvatica, ma segna indelebilmente la regione condizionando la colonizzazione dell’Oriente africano”.
Questa situazione sarebbe stata tale “da sempre”. La descrizione che ne fa la rivista di viaggi porta con sé la prospettiva eurocentrica sulla questione. In realtà il parco naturale si trova esattamente nel territorio della guerra maji-maji e della “terra bruciata”. La scarsità della popolazione è causata soprattutto dall’annientamento di gran parte degli abitanti fra il 1905 e il 1907, dalla distruzione delle strutture tradizionali e dalle basi del sostentamento, con la conseguente invasione della fauna selvatica e anche della mosca tze-tze, per la quale essa costituisce una straordinaria risorsa. Ilpatrimonio naturale dell’UNESCO – un prodotto della violenza coloniale tedesca!
Già negli anni ’50 la prospettiva razzistica eurocentrica si mostrò capace di una presa fortissima sul pubblico con il film premio Oscar “Serengeti non deve morire” di Bernhard Grzimek. Il suo scopo era la costituzione di ulteriori riserve naturali nel nord della Tanzania. A questo scopo Grzimek pretendeva la deportazione dei masai che vi vivevano.
E 50 anni dopo? Dal 2002 ad Amburgo, nel quartiere di Jenfeld, imperversa un conflitto sotterraneo circa la destinazione a “Parco Tanzania” di un’area della ex “Caserma Lettow-Vorbeck” - nomen est omen. Vi dovrebbe sorgere, accanto al padiglione della Tanzania dell’EXPO 20n “Monumento alle truppe coloniali” e un “Bassorilievo agli ascari”, in onore dei mercenari fedeli ai tedeschi. Fino ad oggi l’allestimento è stato impedito dai gruppi anticolonialisti, dal Governo della Tanzania e da un grande eco mediatico internazionale.
Cause del contrasto su tutto questo può anche essere il fatto che oggi di nuovo – come 100 anni fa – navi da guerra [tedesche] incrociano davanti alla costa orientale dell’Africa, senza peraltro suscitare troppo scalpore nel Paese. Quasi identici modelli retorici sono impiegati per legittimare la presenza di soldati tedeschi in tutto il mondo: un tempo era la “guerra contro la schiavitù”, come oggi lo è la “guerra contro il terrorismo” e “per i diritti della persona”. Nella “Lingua nuova” orwelliana si difende la “Libertà della Germania” non soltanto sull’Hindukush, ma anche nel Corno d’Africa, senza che questo susciti grande indignazione.
[1] Kolonialherren: il termine Herr significa qui sia “signore” [in senso feudale] sia “padrone”, “dominus”.



Lunedì 14 Ottobre,2019 Ore: 14:54
 
 
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