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www.ildialogo.org “STALAG XI B”: LA STORIA SOMMERSA DEL MILITARE INTERNATO MARIO.,di Maria Teresa D’Antea

“STALAG XI B”: LA STORIA SOMMERSA DEL MILITARE INTERNATO MARIO.

di Maria Teresa D’Antea

Soltanto dal 1990 si è cominciato a parlare degli internati militari italiani, così definiti dai tedeschi per togliere loro lo status di prigionieri di guerra, che, secondo la convenzione di Ginevra, si dovevano vedere garantita la dignità di combattenti. Perché non se ne è mai parlato prima? Perché le vergogne di una guerra vengono volentieri taciute dagli stessi storici, che, se sono di parte, parlano solo di quel che conviene e non di ciò che è veramente accaduto. Lo insegna molto bene un intellettuale come Pierpaolo Pasolini, il quale, pur avendo un fratello morto nelle foibe, ha colpevolmente taciuto la realtà degli infoibati, portata alla luce soprattutto dallo strazio dei parenti, prima che dagli storici. Così nel comune di Monte Argentario (Grosseto), è stata una figlia, Antonella Gaibisso, a far conoscere e condividere con tutti, sabato 16 marzo, nel centro studi “Pietro Fanciulli”, la dolorosa storia del padre Mario, dando alle stampe, per i tipi di Effigi, il racconto che l’internato n. 158294, cioè Mario Gaibisso di Porto Santo Stefano, ha scritto molti anni dopo il ritorno dalla Germania. Si tratta quindi di un libro postumo, grazie all’interesse di Enzo Costanzo, a cui si deve la raccolta di tutto il materiale necessario: manoscritto, foto, lettere familiari. Come dice la relatrice prof. Gabriella Solari, le storie simili a quella di Mario sono tante e ancora oggi sconosciute. Tutti coloro che sono ritornati, a guerra finita, dagli stalag (lager per soldati semplici) o dagli oflag (lager per ufficiali) hanno taciuto, perché ingiustamente considerati collaborazionisti dei nazisti nel clima di “dagli al fascista” del dopoguerra. Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, continua Gabriella Solari, cominciò la tragedia di tanti militari italiani, che, di fronte all’invito di arruolarsi per la repubblica di Salò oppure di essere fatti prigionieri, scelsero la prigionia. Firmato l’armistizio, nessuno, volutamente, pensò a dare ordini allo stato maggiore dell’esercito italiano e tutti i corpi militari si trovarono allo sbando. Il re si metteva in salvo a Brindisi, Mussolini veniva liberato a Campo Imperatore, Badoglio comunicava in ritardo l’armistizio e disse solo di deporre le armi, gli Alleati si facevano i fattacci loro, pur in un mare di giovani morti. In quella grande fossa ecologica che è la guerra, ogni pezzo della materia prima restava a galla, solo i figli di mamma andavano a fondo. Imbottiti di propaganda e portati al macello non sapevano cosa fare e ognuno scelse secondo la propria dignità o il proprio istinto. Mario Gaibisso aveva 19 anni e si trovava militare al Lido di Venezia, nel reparto dei segnalatori della Marina. Scelse di arrendersi ai tedeschi e fu deportato il 12 settembre. La sua storia, conservata in un cassetto, ha interessato Enzo Costanzo, amico di famiglia e curatore del libro. Costanzo racconta l’aspetto più doloroso dell’esperienza di Mario e cioè che i prigionieri furono messi in carri bestiame, stipati come vitelli, senza spazio per sedersi o sdraiarsi. Viaggiarono quattro giorni senza cibo e senza acqua, tanto che furono costretti a orinare nelle mani per levarsi un po’ di sete e a fare i bisogni ognuno nel punto in cui si trovava. Arrivati al campo, vissero prima in tende militari, senza altri abiti che quelli estivi con cui partirono e gli restarono addosso anche nei rigori degli inverni europei. Poi furono costruite baracche, dove dormivano su tavolacci infestati da cimici, pulci e pidocchi. Molti impazzirono. Come cibo avevano un po’ d’acqua nera al mattino, chiamata caffè dai tedeschi, a pranzo era servita una brodaglia con qualche pezzo di carota o di rapa e due fette di pane, mentre a cena due patate e la solita brodaglia, dove un giorno Mario trovo anche un topo. Presolo per la coda, lo tirò fuori dalla gamella e continuò a mangiare. Lavoravano 12 ore al giorno alla costruzione di armi. Nei vari lager in cui fu spostato Mario incontrò tanti suoi conterranei e non tutti sopravvissero. Ritornò il 12 settembre del 1945, nello stesso giorno in cui era stato catturato: era una larva. I tedeschi chiamavano camerati i prigionieri, ma li trattavano col massimo disprezzo, come pusillanimi e traditori. Fu una resistenza senza armi quella di questi internati? Più che resistenza, la chiamerei resilienza, cioè la capacità della giovinezza di assorbire eventi traumatici nelle più feroci avversità. Ben 650 mila furono i militari italiani internati, mentre i resistenti, quelli cioè che rifiutarono la consegna delle armi, furono 30 mila e vennero tutti fucilati. Nella seconda guerra mondiale, furono utilizzati circa undici milioni di giovani uomini. Come il dio pagano Crono mangiava i propri figli, così la guerra mangia generazioni di giovani per opera di vecchi imbarbariti dall’odio e dalla demenza. Ogni guerra, odiando la gioventù, odia il futuro perché il suo valore è la morte.
Maria Teresa D’Antea



Giovedì 21 Marzo,2019 Ore: 22:33
 
 
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