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www.ildialogo.org ESSERE CONSAPEVOLI: FRUTTO DI CORAGGIO PIU' CHE DI INTELLIGENZA,di Augusto Cavadi

ESSERE CONSAPEVOLI: FRUTTO DI CORAGGIO PIU' CHE DI INTELLIGENZA

di Augusto Cavadi

lunedì 6 luglio 2020
Riprendiamo questo articolo, su segnalazione dell'autore che ringraziamo, dal suo blog Augustocavadi.com
"Le nuove frontiere della scuola"
Quadrimestrale, anno XVII, maggio 2000
“LE NUOVE FRONTIERE DELLA STORIA”
Anno XVII, maggio 2000
CONSAPEVOLEZZA: FRUTTO DI CORAGGIO PIU’ CHE D’INTELLIGENZA
Si suppone che la consapevolezza – frutto della riflessione critica su ciò che si è, si pensa, si dice, si fa, si possiede, si sceglie, si mangia…- dipenda dall’intelligenza del soggetto. Sino a un livello minimo di facoltà intellettuali ciò è vero: gravi danni cerebrali o squilibri psichici pregiudicano irrimediabilmente la dimensione della consapevolezza. Ma – al di sopra di questo minimo clinicamente accertabile – non è più questione di intelligenza: come aveva intuito Nietzsche, diventa una questione di coraggio.
Vivere senza auto-coscienza è decisamente più facile che interrogandosi sui presupposti, sulle modalità e sulle conseguenze del proprio esistere. Non per nulla il pastore errante per l’Asia di Leopardi confessa una sorta di invidia per il suo gregge che nasce, si pasce e muore senza inquietudine e senza angoscia (almeno così si spera che avvenga, anche quando le mani degli umani strappano gli agnellini dal petto delle madri o alzano su di esse il coltello per conficcarglielo in gola, tradendo la fiducia illimitata che i nostri fratellini minori nutrono verso di noi con un affetto che mi commuove di anno in anno sempre di più). E nello stesso arco temporale Schopenhauer ribadiva che il grado di sofferenza di un vivente è direttamente proporzionale al suo grado di intelligenza. Già due secoli prima Pascal aveva annotato nei suoi foglietti volanti che i moralisti sbagliano nel condannare frettolosamente le masse proiettate in ogni genere di divertissement (dalla caccia alle strategie di corteggiamento, dalla guerra ai giochi di società): in questa perenne fuga dal silenzio, dal raccoglimento, dalla meditazione agisce una sorta di astuzia istintiva che le protegge dal disagio di pensare. Di prendere consapevolezza della condizione umana così miserabile (forse eravamo nati re, ma certo siamo re decaduti: il che, in un certo senso, è peggio di non esserlo mai stati). 
Se il quadro complessivo è questo, non resta molto spazio alle illusioni: la ricerca della consapevolezza è stata nel passato appannaggio di minoranze coraggiose e tale resterà nel presente e nel futuro. Le religioni, i partiti, i movimenti che propongono soluzioni sloganistiche alle grandi questioni antropologiche e sociali avranno, comunque, la meglio su chiunque preferirà invitare a pensare da sé, documentandosi sui dati e confrontandosi liberamente con altri sull’interpretazione dei dati. I dittatori e i dittatorelli lo sanno bene e per questo tendono a parlare direttamente al “popolo”, saltando la mediazione di organi istituzionali e scientifici che potrebbero problematizzare: preferiscono offrire risposte pre-confezionate pronte da portare a casa anziché aprire dibattiti pubblici fra cittadini, soprattutto se competenti. Il circolo che si annoda è davvero infernale: alla domanda di formule semplicistiche e rassicuranti da parte della base corrisponde l’offerta relativa da parte dei vertici, la quale – a sua volta – rafforza la domanda. Si crea così l’opinione comune la cui solidità dipende non dalla validità intrinseca delle tesi, quanto dal numero delle generazioni che le recepiscono e le trasmettono. 
Mi è rimasto vivido, dopo quasi mezzo secolo, il ricordo di un coetaneo prete che, tornato a Palermo fresco di studi teologici, mi confidava lo sconforto delle prime esperienze pastorali. Quando in confessione un coniuge parlava del controllo artificiale delle nascite, egli dapprima tentava di dirgli che si trattava di un tema delicato; che avrebbe dovuto parlarne col marito o con la moglie; che insieme avrebbero dovuto ponderare sulla loro situazione economica; che avrebbero dovuto pregare per capire la volontà divina nel loro caso specifico, per discernere eventuali motivazioni egoistiche da oggettive ragioni di prudenza (anche in considerazione delle responsabilità verso i figli già nati)…Ma, in risposta a questo invito alla consapevolezza, il mio amico di allora si sentiva invariabilmente rispondere: “Padre, così è troppo complicato. Facciamola breve: io le confesso che evito le gravidanze con ogni mezzo possibile e Lei mi dà l’assoluzione. D’altronde, non fanno così tutti gli altri preti?”.
 Né si supponga che questa abdicazione alla responsabilità morale di pensare criticamente sia un’esclusiva delle fasce sociali meno istruite. Negli anni del liceo e dell’università ho frequentato una comunità cristiana intellettualmente molto vivace che aveva come cifra “il metodo della consapevolezza”: ognuno di noi veniva invitato a prendere, nei confronti della vita in generale e della dimensione divina in particolare, un atteggiamento che fosse frutto non (solo) di emotività e sentimento, ma (anche e soprattutto) di informazione documentata e di riflessione argomentata. Poi, negli anni successivi alla mia laurea, ognuno di noi ha preso strade diverse sulla base di un criterio principale: man mano che si scoprivano le falle del sistema dottrinario millenario della Chiesa cattolica, c’era chi aveva la forza interiore di rimettere in discussione tutte le certezze acquisite e chi, invece, preferiva restare fra le confortevoli mura di una costruzione evidentemente priva di legittimazione biblica, storica, antropologica e teoretica. Ciò che mi colpisce tuttora è che le persone più intelligenti e colte non si sono concentrate su una delle due file: si sono distribuite, invece, equamente fra gli avventurosi ricercatori di verità anche amare, da una parte, e, dall’altra, fra i nostalgici della Chiesa del Concilio ecumenico Vaticano I (1870), nel breve corso del quale Pio IX fece in tempo per proclamare solennemente il dogma dell’infallibilità papale (!). No, decisamente no: andare sino in fondo nel sentiero erto della consapevolezza non è questione di titoli accademici. Lo sanno tanti fascisti attaccati sino alla fine alla Repubblica sociale italiana di Salò; tanti comunisti attaccati sino alla fine all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche; tanti cattolici attaccati a quella “Mater et Magistra” di cui il cardinal Charles Journet (per altro figura esemplare di santità personale) sosteneva che avesse la risposta per ogni interrogativo dell’uomo, la soluzione di ogni dubbio teoretico o esistenziale. Senza questa chiave di lettura etico-psicologica (non psicologistica né ancor meno psicanalitica) non si capisce nulla dell’attuale fronda di cardinali, vescovi, preti, teologi di indubbio calibro dottrinale contro un papa mite, annunziatore del vangelo di un Cristo che non ha mai preteso di dominare il mondo dall’abside di una cattedrale bizantina, ma di suggerire sommessamente al mondo - impazzito per avidità – di scoprire nella “misericordia” il segreto della convivenza e dell’allegria. 
 Da una ventina d’anni, con colleghi di tutta Italia, abbiamo provato a importare nel nostro Paese la Philosophische Praxis avviata in Germania da Gerd Achenbach: una professione nuova, e antichissima, nella quale un filosofo si mette a disposizione di un interlocutore (non-filosofo di professione, anzi anche privo di qualsiasi – sia pur minima – nozione di storia della filosofia) per stimolarlo , nel dialogo paritetico, a riflettere criticamente su una questione esistenziale che lo interroghi o addirittura lo attanagli. Insomma: una professione di servizio a beneficio di chi, stanco di subire le vicende esteriori o di reagirvi meccanicamente, intenda attivare un processo di consapevolezza. Nello statuto fondativo della nostra prima associazione professionale scegliemmo di tradurre la formula tedesca Philosophische Praxis con “consulenza filosofica”, espressione che si è poi diffusa (sia pur non capillarmente) nella letteratura e nei massmedia. Ma fu una scelta infelice perché ignara dell’imminente fioritura – o epidemia – di offerte di counseling (l’adozione dell’anglicismo è già di per sé significativo) psicologico, pedagogico, estetico, sentimentale, sportivo, commerciale, religioso e, purtroppo, anche filosofico. Infatti chi presta un servizio di counseling tende a dare “consigli” (non necessariamente avventati) sulla base della propria competenza: esattamente ciò che un servizio di “consulenza filosofica” non deve offrire. Il filosofo-consulente, infatti, non né un maestro né un direttore spirituale né un terapeuta: è un con-filosofante che accetta il rischio, ogni volta, di affrontare da zero (con le sole armi della ragione e della sinergia dialettica) quella problematica concreta che l’ospite (o consultante) gli pone sul tappeto. Superfluo aggiungere che questa professione ha stentato a decollare non solo in Italia, ma in tutte le decine di paesi dei cinque continenti in cui ha tentato di impiantarsi (Germania, patria d’origine, compresa). Infatti chi per la prima volta bussa alla porta di uno studio di consulenza filosofica si aspetta – per riprendere la celebre espressione del manifesto kantiano sull’Illuminismo – di poter pagare qualcuno che pensi per lui/per lei: se trova un filosofo che, invece, gli offre di pensare “con lui/lei” – e non “al posto di lui/lei” – resta, quasi sempre, deluso. Quei pochi che persistono, e ritornano anche due o più volte (nessuna “analisi interminabile”, ovviamente!), appartengono alla minoranza statistica di chi non ha paura della consapevolezza né dei prezzi - in termini di tempi di investimento intellettuale e soprattutto di energia interiore- che ogni ricerca della consapevolezza comporta. Sul piano economico, preferiamo tutti ricevere – o acquistare – pesce anziché imparare a pescare: non diversa è la situazione sul piano esistenziale (e non soltanto da quando il mercato è diventato modello culturale per quasi tutte le attività umane). Non è dunque un caso che i libri più tradotti e venduti sulla consulenza filosofica sono testi che ne banalizzano il senso sin dal titolo (Platone è meglio del Prozac o Le pillole di Aristotele) e persino romanzi di notevole livello letterario, come La cura Schopenhauer di Irvin D. Yalom, ne danno un’interpretazione tecnico-pragmatica. 
  Per concludere: ha ragione chi registra un bisogno diffuso di consapevolezza nella società dei ritmi vitali meccanizzati o chi lo nega? Se il bisogno è tale quando qualcuno lo avverte – ed è perfino disposto a pagare per soddisfarlo – hanno ragione (e, se si potesse dire, ragionissima ) i negatori. A livello di rilevazione statistica, socio-psicologica, il bisogno dominante riguarda oggetti, iniziative, proposte, merci, spettacoli… che giustifichino e supportino la nostra alienazione dalla consapevolezza di esseri mortali, limitati da ogni parte, irrimediabilmente imperfetti. Diverso il giudizio se lo sguardo penetra la cortina dell’epidermide e affonda sino a vedere quella povertà estrema – di cui ha parlato anche Heidegger – consistente nell’ignorare di essere povero e di non avvertirne il disagio: potremmo tradurre, nell’avere dei bisogni a un grado tale di gravità da non essere capaci di riconoscerli come bisogni. Se il bisogno, insomma, non è in generale solo quello che si rileva con le interviste demoscopiche e si misura con le tabelle matematiche, il bisogno di consapevolezza c’è. Oggi come ieri. E, oggi come ieri, chi prova a segnalarlo ai compagni di prigionia nella caverna platonica dev’essere a sua volta ‘consapevole’ che questa avventura difficilmente gli procurerà successo e popolarità.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com 



Mercoledì 08 Luglio,2020 Ore: 18:40
 
 
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