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www.ildialogo.org Il Cinquantesimo di ordinazione presbiterale di un prete-sposato.,di Perin Nadir Giuseppe

Il Cinquantesimo di ordinazione presbiterale di un prete-sposato.

di Perin Nadir Giuseppe

Forse, a qualcuno potrà sembrare strano che un prete-sposato ricordi con gioia e festeggi il suo cinquantesimo anno di “ordinazione presbiterale” ringraziando il Signore per il “grande dono” ricevuto !
Ebbene, quel prete-sposato sono proprio io e il giorno 19 marzo 2014 festeggerò in famiglia il cinquantesimo anniversario della mia ordinazione presbiterale, avvenuta a Milano il 19/03/1964.
Aprendo l’Album delle fotografie, mi sono soffermato a guardare quelle della mia Prima Messa. Ho rivisto i volti di tante persone care : mia madre, mio padre, i miei fratelli, di tanti parenti, amici e conoscenti, molti dei quali sono già tornati alla “ Casa del Padre”.
Nello stesso Album fotografico mi sono soffermato a guardare anche le fotografie riguardanti il giorno in cui ho celebrato il Sacramento del mio Matrimonio con Maria.
Era il 28 settembre del 1968. Mancano ancora quattro anni per festeggiare anche il cinquantesimo di matrimonio, se così piacerà al Signore!
Ho voluto ricordare queste due date (quella dell’ordinazione presbiterale e quella del matrimonio) su questo sito del “il dialogo”, frequentato da molte persone interessate o incuriosite all’argomento sui “preti sposati”, grazie all’amico carissimo Giovanni Sarubbi, perché l’ essere un prete-sposato, ha cambiato radicalmente la mia vita.
Non basterà l’eternità per cantare il nostro “grazie” riconoscente a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che - con infinito amore e misericordia –si è fatto nostro “compagno di viaggio”.
Non ardeva forse il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture? “ (Lc 24,32)
Spero che questa nostra “esperienza di Dio”, condivisa con voi, possa essere di aiuto, conforto e speranza ai presbiteri “in difficoltà”.
Essi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avessero riconosciuto nello spezzare il pane” ( Lc. 24,35).
Se Dio si è “comportato” così con me, perchè non dovrebbe amare come “figli carissimi” tanti altri preti in difficoltà e dare loro il coraggio e la serenità per discernere in coscienza la strada da seguire ?”.
Si sa che, quando un prete “lascia” per accedere a scelte diverse, soprattutto quando il lasciare è dovuto alla presenza, nella sua vita, di una donna che egli ama e dalla quale si sente amato e che condivide con lui i valori e le istanze del Vangelo, la sua decisione viene quasi sempre considerata come frutto di una sterile contestazione o di una crisi di maturità o di un occasionale “sbandamento”. Mai come frutto di maturazione della propria coscienza che gli indica la nuova strada da percorrere.
Invece, l’accettare l’invito di Dioa partire (ad uscire) dalla propria terra, dalla parentela, dalla casa paterna, verso la terra da LUI indicata” ( Gn 12,1), lasciando tutto, compresa la sicurezza economica e la tranquillità di un ruolo rispettato, o ad “abbandonare il padre e la madre” per unirsi alla propria sposa e diventare una sola carne” (Gn 2,24), in realtà non è sinonimo di defezione o di fuga dalle responsabilità e dall’impegno, ma è la risposta dell’uomo a Dio che chiama.
Non voi avete scelto Me, ma io ho scelto voi, perchè andiate e portiate frutto”.
Personalmente sono convinto che se la vita, nelle due modalità essenziali ( vita da celibe e vita da sposato) non fosse vissuta come risposta dell’uomo a Dio che chiama, diventerebbe solo un’avventura, spesso tragica, in un mondo diventato ormai una giungla, popolata da animali selvaggi ed egoisti, sempre in lotta tra loro, pronti a sbranarsi e nel quale sarebbe difficile “convivere” e “collaborare” per il “ben-essere” della “Comunità Umana”.
Oggi, più che mai la Comunità ecclesiale, fondata da Cristo, sente il bisogno di liberarsi dalle “catene” che l’hanno condizionata nel suo passato, per essere, invece, messaggio, profezia della speranza, casa per tutti e diventare Parola e Vangelo di vita per l’uomo d’oggi.
Lo so che è molto duro e doloroso uscire dalla “massa” ed ascoltare nel silenzio del proprio cuore, la voce suadente di Cristo che ci chiama ed annuncia, nello stesso tempo, chi siamo.
Lo so che è molto duro e doloroso, smettere di negare e di rimuovere quella parte di noi che sente il bisogno di verità, di bellezza, di intimità.
Tutto questo perché ci pare impossibile realizzare il nostro singolare destino, vivendo d’infinito nel finito, di eterno nel tempo.
Abbiamo bisogno di conoscere il “vero volto di Dio” e fare esperienza del suo infinito amore e misericordia per poter operare questa “pasqua quotidiana”.
Abbiamo bisogno di avere fiducia in Gesù di Nazareth che “venendo fra la sua gente, a quanti lo hanno accolto e credono nel suo nome, ha dato il potere di diventare figli di Dio” ( Gv 1,10-12).
Abbiamo bisogno di accogliere nel nostro cuore lo Spirito Santo - Amore del Padre e del Figlio - per dare significato sia alla nostra esistenza che all’altrui.
Lo dico, ogni giorno, a me stesso e lo suggerisco anche ai carissimi confratelli nel presbiterato, di non “smettere mai di cercare la verità dentro di noi – cominciando dall’amore - per essere delle persone libere al servizio dell’uomo”. Persone libere, soprattutto, dalla paura di osare, di essere se stessi, la paura di perdere, di mancare, la paura di dire e servire la verità, la paura di impegnarsi e di rischiare.
Se rimanete fedeli alla mia Parola – dice Gesù – potrete essere per davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv. 8,31-32) da tutti quei condizionamenti che vi impediscono di cingervi del grembiule per farvi servi agli altri nell’amore ( Gal. 5,13).
Sono più che mai convinto, infatti, che la vita di ogni persona, pur essendo piena di sorprese, resti sempre una pagina di storia che ognuno scrive personalmente e vive alla presenza di Dio. Per cui, ogni decisione presa davanti a LUI, nel silenzio della propria anima e con retta coscienza, più che un giudizio affrettato di condanna, meriti sempre rispetto, attenzione, benevolenza e misericordia da parte di tutti.
Io sono uno dei tanti preti che ha risposto “SI” alla chiamata di Dio alla vita matrimoniale, scegliendo con il sacramento del matrimonio, di vivere insieme alla mia sposa Maria, il dono della vita, secondo la proposta di Gesù, contenuta nel Vangelo. Per questo, però ho dovuto “lasciare” nel Tempio i paramenti sacri del “sacerdote-mediatore”, per rivestire gli umili panni del “prete-laico”.
Il Diritto Canonico mi ha proibito di “celebrare l’Eucaristia”; di predicare la “Parola di Dio” dal pulpito; mi ha proibito di “distribuire” i sacramenti. Ma, anche se spogliato di ogni” paramento sacro”, nessuno ha potuto impedirmi di essere nella comunità ecclesiale, “un segno credibile del Cristo risorto” e come “piccola chiesa domestica”, assieme a mia moglie e alle figlie, un “sacramento di amore” per ogni altro essere umano.
L’altare sul quale ho spezzato, ogni giorno, il “pane di vita”, non è stato l’altare di pietra collocato all’interno del Tempio, ma quello collocato nel cuore di ogni uomo, consacrato da Dio con la sua presenza.
Non è stato facile “preferire l’incertezza della tenda di Abramo”, alla “sicurezza del tempio” di Salomone e la prima sensazione che ho provato è stata quella di non avere più certezze.
Nel tempio, infatti, mi sentivo protetto, possessore della verità, maestro insindacabile... mi sentivo in compagnia di “gente per bene”, che forse si riteneva tale solo perchè andava in chiesa.
Nel Tempio primeggiava la mia voce che “predicava” la Parola di Dio ad una assemblea che spesso era disattenta e non ascoltava.
Fuori dal Tempio, sulla “strada della vita”, come prete-sposato ho dovuto, invece, “ascoltare” la Parola”.....quella proveniente dal cuore dell’uomo sofferente, abbandonato, emarginato.... Una Parola che spesso aveva il suono di un linguaggio provocatorio che mi poneva di fronte a delle situazioni nuove ed inattese, per affrontare le quali è stato necessario rivestirmi dell’umiltà dell’ascolto.
Ed ho ascoltato con tutta la persona. Ho ascoltato con l’udito, raccogliendo le parole che sono come dei ponti costruiti per unire le rive che mi separavano dall’altro e ho raccolto i silenzi, specialmente quelli che a volte gridavano con il loro scomodo fragore perché sapevano di solitudine, d’ingiustizia ed agonia di persone.
Non ho mai gridato dai tetti di essere un prete-sposato, allo scopo di suscitare scandalo o meraviglia nella comunità cristiana che dimostra, ancora oggi, di essere “impreparata alle novità del Vangelo”, perchè, per troppo tempo, è stata abituata a considerare il Vangelo come un “libro di morale” riguardante “il clero” e non come una “proposta di vita” rivolta a tutti.
Il ruolo che ho svolto nel contesto lavorativo mi ha messo in contatto con “gli ultimi”, gli “emarginati” della società: le persone anziane, gli ammalati, le persone con problemi a livello psichiatrico; i ragazzi/e, i giovani meno dotati; le persone con problemi di droga; i giovani disattati .....
Ed è stato in questo contesto lavorativo che sono cresciuto come uomo, come cristiano, come “prete di strada”, sposo e padre.
Sono stati questi amici, considerati dalla società produttiva come “nessuno” e con i quali ho vissuto 40 anni della mia vita lavorativa, che mi hanno dato la possibilità di conoscere il “vero volto di Dio”, rivelatoci dall’Uomo di Nazareth, Gesù. Mi hanno insegnato come “l’umiltà”( la kenosis del proprio io, affinchè l’altro ( il tu) possa “crescere”) sia il terreno ideale sul quale può germogliare una fede viva, una speranza indomita ed una autentica testimonianza dell’amore fraterno.
L’umiltà, infatti, dà al cristiano la giusta dimensione del suo essere umano, impastato di luci e di ombre, ma ugualmente creatura amata da Dio-Padre e per questo fratello dell’altro uomo.
L’umiltà mi ha insegnato a non mettermi mai al di sopra degli altri, ma soltanto al loro servizio, perchè tutto ciò che c’è di buono in me, come in ciascuno di noi, è soltanto frutto dello Spirito Santo che abita in noi. E’ Lui, infatti che raddrizza tutto ciò che c’è di storto in me; che lava ciò che è sporco; che innaffia e porta a nuova vita ciò che è arido.
“Noi siamo persone in transito su questa terra. Ma, in questo ruolo di passeggeri si realizza il nostro destino. E’ vero che spesso a causa del trascorrere degli anni, molti della società “per bene” e “produttiva” ci considerano come delle persone ormai “vecchie”. Invece, sono convinto che una persona diventa “vecchia”, solo, quando svegliandosi al mattino, trova il suo cuore “svuotato” di ogni progetto o sogno da realizzare.
E’ vero che la senescenza ci fa somigliare al mondo vegetale, alle foglie gialle portate via dal vento, ai fiori che appassiscono per rifiorire la prossima primavera. Ma nella prospettiva di una pagina di storia vissuta con amore a servizio dell’uomo “figlio di Dio”, essa ci fa partecipare all’eterna primavera di Dio.
Teniamoci, dunque, per mano gli uni e gli altri, uniti nell’amore e chiedo ai miei confratelli nel presbiterato e agli amici, una preghiera di ringraziamento al Padre, datore di ogni bene, per il mio cinquantesimo di ordinazione presbiterale.
Auguro a tutti voi e alle vostre famiglie ogni bene e tanta gioia e serenità del cuore.
P. Giuseppe dall’Abruzzo.



Giovedì 06 Marzo,2014 Ore: 18:10
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
AGOSTINO BONASSI MONTANASO LOMBARDO-LODI 01/4/2014 22.59
Titolo:AUGURI!
Carissimo,leggo sempre con molta attenzione i tuoi interventi,che spesso mi aiutano a far luce nelle mie scelte quotidiane di ex. Mi ritrovo pienamente là dove affermi che la nostra scelta presbiterale è continuata a fianco dell'umanità di chi abbiamo amato,ma troppo frequentemente si è frantumata di fronte a quella Chiesa che non sa più interpretare il pensiero del suo Signore.
Grazie per la tua viva speranza.
Un abbraccio di cuore:AUGURI VIVISSIMI!
Agostino(ago.bonas@libero.it)

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