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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org TRE IPOTESI PER UN SUICIDIO,di Giovanni Sarubbi

Le storie nel cassetto
TRE IPOTESI PER UN SUICIDIO

di Giovanni Sarubbi

Il 9 giugno del 1987 Stella avrebbe compiuto 24 anni, se una morte crudele non l’avesse rapita all’affetto dei familiari e degli amici. Una morte crudele ed inspiegabile, che ancora fa discutere, che pone dubbi e interrogativi, che subito sono seguiti alle prime apparenti certezze. Stella era stata trovata morta, ai piedi di un burrone, il 20 ottobre del 1986. Il suo vero nome era Sonsirie che, nel linguaggio degli indiani Sioux, significava “Stella del mattino”. Tutti però la chiamavano Stella, tranne il padre che continuava a chiamarla Son. Quel nome lo aveva voluto il padre, grande appassionato di film western. Era il nome della protagonista femminile di un film degli anni 30. Raccontava la storia dell’amore fra un bianco e una squaw sioux morta poi per salvarlo durante una guerra scoppiata fra “visi pallidi” ed indiani. Una storia, un nome, un sinistro presagio.
Perché era morta Stella? Chi o cosa l’aveva condannata? Un incidente, un gioco più grande di lei o una mentalità ottusa?
Nei mesi precedenti la morte di Stella, qualcuno l’aveva tempestava di telefonate piene di ingiurie e di minacce. Telefonate ricevute anche dai genitori che non sapevano spiegarsi tanta furia e livore: “Sua figlia è una puttana”, diceva continuamente una voce maschile, roca, dal timbro particolare, quando a rispondere erano la madre o il padre che non riuscivano però a dire nulla. Non fecero neppure alcuna denuncia alla polizia perché, dissero poi, non sarebbe servito a nulla.
Stella mi aveva confidato il perché di quelle telefonate. Mi chiamo Giorgio, sono un prete cattolico, ed ero amico e consigliere spirituale di Stella. Faccio l’insegnante di lettere in un liceo classico e Stella è stata mia alunna. Veniva spesso a trovarmi in parrocchia dove mi aiutava ad organizzare iniziative per i giovani. Dopo il diploma avevamo continuato a vederci ed io l’avevo aiutata ad approfondire gli studi, indirizzandola a qualche amico professore universitario. Di Stella mi aveva sempre colpito la sua vitalità, il suo spirito critico, l’acume della sua intelligenza. Era abituata a fare domande sempre pertinenti all’argomento, non divagava e capiva tutto quello che gli dicevo. Ma oltre allo studio Stella veniva a confidarsi con me per tutte le pene tipiche di una giovane ragazza meno che ventenne. L’avevo seguita per tutto il corso di studio e Stella aveva insistito perché fossi presente alla sua laurea in economia e commercio. Esame brillante, con voto altrettanto brillante, come tutti si attendevano da lei.
Era venuta a trovarmi agli inizi di settembre del 1986, un mese prima della sua morte. Faceva così oramai da molti anni alla fine delle vacanze di Agosto quando veniva a trovarmi per raccontarmi quello che le era successo durante le ferie, una sorta di confessione per ricominciare un nuovo anno di studio e lavoro. Mi aveva telefonato in mattinata, come faceva di solito, annunciando la sua visita. Nella sua voce, sempre squillante, notai qualcosa di strano. Venne nel pomeriggio, la feci entrare in sacrestia dove rimanemmo soli per circa un paio d’ore. Faceva ancora caldo e a quell’ora non vi era il via via che di solito caratterizza la mia parrocchia. La vidi preoccupata, diversa dal solito. Erano alcuni mesi che non la vedevo, da quando era stata assunta presso la più importante azienda elettronica esistente in paese. Azienda con un fatturato annuo di oltre 1000 miliardi, facente capo alla più importante impresa mondiale di elettronica. Chiameremo questa azienda con il nome convenzionale di CHIP.
Il paese, dove ancora vivo, è situato in una valle circondata da monti: la chiamano “la Silicon Valley 2”, perché in ogni casa c’è chi produce qualcosa legato al mondo dei computer: circuiti elettronici, software, o oltre diavolerie che mi hanno sempre procurato un vero e proprio senso di nausea al solo sentirli nominare.
Presso la CHIP si producevano circuiti elettronici speciali, all’avanguardia, usati per applicazioni militari. Il tipo di produzione era quindi rigorosamente top-secret. Per entrare ed uscire dalla fabbrica bisognava passare attraverso molti controlli. La stessa vita dei dipendenti, secondo Stella, era passata al setaccio molte volte all’anno, per impedire a chiunque di spifferare alcunché sull’attività che svolgeva in azienda..
Stella era stata assunta alcuni giorni dopo la sua laurea. Aveva svolto uno stage per la realizzazione della sua tesi di laurea presso una importante banca nazionale. Un dirigente di quella banca l’aveva raccomandata ad un amico, dirigente della CHIP, che cercava un giovane laureato in economia e commercio. Così due giorni dopo la laurea Stella era partita per l’America con destinazione Seattle nello stato di Washington. C’era rimasta una settimana, per fare test e prove, e alla fine era stata assunta. Queste cose me le raccontò Stella all’inizio del nostro colloquio, per rompere il ghiaccio.
“È stata un’esperienza bellissima” - disse Stella e gli occhi le luccicavano. Mi raccontò del lungo volo, della paura che aveva provato nel passare sul polo nord, di aver conosciuto un ragazzo inglese anch’egli in viaggio per Seattle e con cui aveva stabilito un rapporto di amicizia epistolare.
Subito dopo Stella entrò nel merito di quello che l’affliggeva.
“Don Giorgio - mi disse - ho ascoltato due alti dirigenti della CHIP parlare di me. Credo non si siano accorti della mia presenza. Uno dei due era il capo della CHIP e stava dicendo all’altro - che era l’amministratore delegato - di essere un imbecille ed un impotente per non essere riuscita a portarmi a letto. Mi trovavo nella stanza affianco, quella della segretaria. Ero sola perché la segretaria era uscita e udii tutto dall’interfono che era rimasto aperto forse per errore. Scappai via subito prima che la segretaria tornasse”. Mi disse il nome dei due che chiameremo rispettivamente Giuseppe, il capo, e Andrea l’amministratore delegato.
Le avevo detto mille volte di non usare il “Don” per rivolgersi a me: “L’unico che merita i titoli e nostro Signore”, le dicevo sempre, ma Lei non voleva sentire ragione. In quell’occasione però non riuscii a rimproverarla. Il mio cuore cominciò a battere più velocemente del solito.
Stella continuò nel suo racconto riempiendolo di particolari che man mano aumentavano la mia apprensione. Mi confermò che effettivamente Andrea l’aveva molestata a lungo: fiori, cioccolatini, di cui Stella era golosissima, inviti a cena sempre però rifiutati. Poi un giorno c’era stato un tentativo di baciarla in ufficio ma la reazione di Stella era stata ferma e decisa. Erano così iniziate le telefonate, via via più minacciose ed ingiuriose fino a quando un certo Marco si era offerto di proteggerla.
Marco era una specie di factotum all’interno della CHIP. Stella lo aveva conosciuto quasi subito perché lei si occupava di amministrazione, seguiva il bilancio della società, si occupava di nuovi investimenti e controllava le varie operazioni contabili. Marco possedeva un’altra società in paese che forniva alcuni componenti elettronici a quella dove lavorava Stella.
“Ha circa 43 anni, è un bell’uomo, ha un modo di parlare affascinante con una voce armoniosa, da attore di teatro”. Così me lo descrisse Stella che mi confidò di essersi innamorata di lui. Aggiunse anche di aver la sensazione che Marco lavorasse in realtà per il servizio segreto e questo lo rendeva ancora più affascinante. Non mi disse come faceva Marco a sapere delle telefonate e in che modo si fosse fatta convincere ad accettare la sua protezione.
La guardai in silenzio. Poi le chiesi il perché di tutta quella situazione.
“Ho scoperto che il presidente e l’amministratore delegato della CHIP rubano centinaia di milioni all’anno alla casa madre. Se chiamassi in America li farei arrestare tutti e due”.
La risposta mi lasciò sgomento. Ma Stella continuò parlandomi di furti di camion della CHIP, che capitavano con frequenza sospetta, e di fatture false a società altrettanto false.
“Forse - disse Stella - qualcuno si è accorto della mia scoperta e vuole farmela pagare”.
Un dubbio atroce mi assalì: quel Marco che si era offerto di proteggerla, faceva parte della combriccola di ladri che gestiva la CHIP? Il mio sesto senso mi diceva di si, soprattutto per quel sospetto di legame con i servizi segreti avanzato da Stella.
Proprio in quel momento il suo telefonino squillò. Dall’altro capo c’era proprio Marco. Parlarono alcuni minuti. Marco gli comunicò di aver ricevuto una telefonata della mamma di Stella sul suo telefonino e gli chiedeva di chiamarla per rassicurarla. Stella subito dopo chiamò la madre e gli raccontò di un falso contatto sul telefonino. “Sono da Don Giorgio - le disse - vengo a casa fra qualche ora, non ti preoccupare”.
Non potei non chiederle spiegazioni per quelle bugie. Mi disse che Marco, con l’intento di proteggerla, si era fatto dare il suo telefonino ed in cambio gliene aveva fornito un altro con un diverso numero telefonico. In tal modo, secondo Stella, le persone che telefonavano per minacciarla avrebbero desistito dalla loro azione sentendo una voce maschile rispondere. Non aveva detto nulla alla mamma, concluse, per non farla preoccupare. A preoccuparmi ero però io che mi ero trovato involontario testimone di qualcosa di cui non riuscivo a capire i contorni.
Un prete non dovrebbe affezionarsi mai a singole persone della propria parrocchia: tutti i fedeli dovrebbero essere trattati con eguale affettuoso distacco. Per Stella non era però così. Conoscevo il padre e la madre da quando si erano sposati e anzi io stesso avevo officiato il loro matrimonio. Io stesso avevo battezzato Stella. Avevo cercato di oppormi a quel nome “Sonsirie” che il padre voleva metterle.
- Non c’è nessun santo con quel nome, gli avevo detto, ma lui insitè e mi mostrò la figlia.
- Non è proprio una stella del mattino, mi chiese?
Come dire no di fronte ad un esserino bello come Stella?
Ero e sono tuttora, un prete scomodo rispetto alla gerarchia Cattolica. Cerco di non imporre mai la mia volontà e cerco sempre di interpretare elasticamente il Diritto Canonico. Ho sempre cercato di stare dalla parte della gente alla quale voglio dare innanzitutto serenità, perché credo in una Chiesa della gioia, anche se il cristianesimo nasce su un grande lutto, quale quello della crocifissione di Cristo.
Avevo visto crescere Stella, le avevo somministrato i vari sacramenti e poi l’avevo avuto come alunna alla scuola superiore. L’avevo ascoltata raccontarmi tutte le sue pene, le sue preoccupazioni a cui rispondevo sempre cercando di darle fiducia, di leggere innanzitutto in se stessa per trovare la soluzione giusta ad ogni questione. La consideravo quindi come una figlia.
Come fa un genitore, se pure virtuale quale io ero, a non preoccuparsi quando la propria figlia dice di essersi innamorato di un uomo di 20 anni più vecchio e per di più sposato e con figli? Si perché Marco era già sposato e aveva due figli, uno dei quali da li a poco avrebbe dovuto egli stesso sposarsi. Come può un uomo di oltre 40 anni innamorarsi di una ragazza di 23 anni? La domanda continuava a ronzarmi nella mente, mentre ascoltavo Stella che continuava a raccontarmi dei suoi rapporti con Marco.
Mi raccontò che era stato con lui in vacanza anche se nessuno lo aveva capito. La moglie di Marco era andata in vacanza da sola a Palma di Maiorca e loro erano stati insieme nel posto dove di solito Stella passava le vacanze con la famiglia. Mi disse che aveva cominciato a intrattenere rapporti economici con Marco e cercai di capirne di più. Mi parlò di operazioni finanziarie che io non conoscevo. Mi disse che la CHIP usava l’oro come materiale principale delle sue lavorazioni. Lei, insieme a Marco, aveva così iniziato a fare acquisti a termine di tale metallo alla borsa di Londra. Non capii gran che al momento. Qualche giorno dopo chiesi spiegazione ad un amico che mi descrisse l’acquisto di metalli a termine come un tipo di operazione finanziario ad alto rischio. Ma il racconto di Stella divenne ancora più preoccupante quando mi disse che, sempre insieme a Marco, stavano cercando di realizzare un’altra azienda per effettuate alcune lavorazioni che la CHIP non riusciva a fare. La realizzazione di quella azienda era a buon punto, tanto che stavano per ottenere la concessione di un terreno per la realizzazione di un capannone.
Era un’altra Stella quella che mi stava di fronte, lontana mille miglia da quella che io avevo conosciuto. Mi disse che da quando Marco si era preso cura di lei le cose andavano meglio. Era stata invitata anche ad una festa fatta da Giuseppe, capo della CHIP, per il suo sessantesimo compleanno. Mi parlò di una festa da capogiro, con regali favolosi. - Pensi, don Giorgio, che Marco gli ha regalato un’auto d’epoca del valore di cento cinquanta milioni -. In una circostanza diversa non avrei potuto che essere felice dell’attività della mia figlioccia e magari mi sarei limitato a raccomandarle prudenza o le avrei chiesto di aiutare i poveri della mia parrocchia dando loro lavoro o assistenza.
Il racconto di Stella mi fece però commettere l’errore di darle una soluzione ultimativa. Errore che a volte fanno i genitori quando vedono il proprio figlio in pericolo.
- Figlia Mia, Ma dove sei capitata? Lascia tutto e vieni via!
La frase mi uscì di botto, istintivamente. Non lo avevo mai fatto con Stella, perché era controproducente. Bisognava pigliarla per il suo verso, darle fiducia, altrimenti si chiudeva in se stessa e faceva di testa sua. Facevo così con tutti, ma con Stella ci avevo messo sempre più attenzione.
La preoccupazione era però tale che gli dissi immediatamente anche il mio pensiero su Marco. Non lo avessi mai fatto. Stella rimase sconvolta dall’ipotesi che Marco potesse far parte della combriccola che derubava la CHIP: semplicemente non gli era neppure passata per la mente. Si chiuse a riccio. Mi lascio quasi subito senza darmi il tempo di approfondire il mio pensiero. Riuscii solo a farmi promettere di raccontare tutto ai suoi genitori e di tenermi informato sugli sviluppi della situazione.
Nei giorni successivi la mia preoccupazione crebbe sempre di più. Avevo sognato Stella morta, come se dormisse in terra in mezzo ad un bosco. Cercai così di parlarle ma non potevo chiamarla sul nuovo telefonino di cui non ero riuscito a farmi dare il numero. Riuscii a sentirla dopo alcuni giorni e mi disse di non preoccuparmi.
- Tutto bene Don Giorgio - mi disse -, non si preoccupi è tutto sotto controllo.
Il vincolo di segretezza che lega il padre spirituale al proprio figlioccio, mi impediva di rivolgermi a chicchessia per manifestare le mie preoccupazioni. Non potevo andare dai genitori perché, nel caso Stella lo avesse saputo, avrei perso anche la più piccola possibilità di aiutarla e di essere informato sugli sviluppi della vicenda dall’unica fonte di cui potevo fidarmi. Non potevo andare alla polizia perché la CHIP dove lavorava Stella è una potenza economica e probabilmente ha infiltrati dappertutto. Quell’Andrea, che aveva cercato di molestare Stella, era noto per la sua militanza in un gruppo oltranzista di destra, sospettato di essere l’autore di numerosi episodi di razzismo. Quel gruppo di destra aveva anche allungato le mani sul palazzo di giustizia dove poteva contare su molti adepti, a cominciare dal procuratore capo.
Queste notizie mi erano state dette in confessione, da una persona che non conoscevo, proprio dopo un episodio di razzismo a cui egli aveva assistito. Anche questa persona aveva paura e, conoscendomi, aveva pensato di venire a raccontarmi tutto ma sotto il vincolo della confessione.
Non mi restava che pregare, sperando che le mie sensazioni fossero tutte sbagliate.
Parlai con Stella per l’ultima volta il due ottobre. La sua voce mi sembrò la solita, quella alla quale ero abituato. Sembrava serena.
- Fra poco tutto si sistema, mi disse.
Mi raccontò che sarebbe andata a passare il 4 ottobre al mare insieme a Marco. Era il giorno di S. Francesco e Marco era un suo fedele devoto. Così disse Stella e la cosa mi fece ripiombare nel pessimismo. Come è possibile proclamarsi devoti di S. Francesco e contemporaneamente insidiare una ragazza pur essendo sposato e con figli?
- Figlia mia pensa bene a quello che fai, non commettere errori di cui poi potresti pentirti.
Questo le dissi e mi resi conto che non l’avrei più rivista.
Il Sabato 18 ottobre, verso le 15, una telefonata mi trovò appisolato sul divano della mia camera in canonica. Avevo mangiato un pò troppo quel giorno ed il sonno mi aveva preso. Al telefono era la mamma di Stella.
- Scusate Don Giorgio, Stella è con voi? mi disse . La sua voce era preoccupata.
- No - le risposi - Che cosa è successo?
Mi disse che non riuscivano a trovare Stella.
- È da stamattina che è andata via con la sua auto e non è rientrata a casa per il pranzo. Ha lasciato a casa anche il suo telefonino e non riusciamo a rintracciarla.
Subito riattaccò senza darmi il tempo di capire che cosa fosse successo. Richiamai la sera e anche il giorno dopo, in mattinata, ma nessuno rispose a casa di Stella. Cominciai a preoccuparmi ma nessuno seppe dirmi niente.
Il Lunedì 20 verso le 10, mentre ero a scuola intento a fare lezione, il bidello venne a chiamarmi perché il preside voleva parlarmi urgentemente. Stavo parlando di Dante Alighieri e del canto quinto dell’Inferno nel quale si descrive il girone dei lussuriosi. Lasciai l’aula senza indugio e trovai il Preside sconvolto nella sua stanza.
- Don Giorgio Stella è morta , mi disse senza mezzi termini e tutto d’un fiato, quasi dovesse togliersi un peso dallo stomaco.
Il sogno che avevo fatto un mese prima si era avverato. Trattenni a stento un grido di dolore. Mi feci il segno della croce. Nella stanza c’erano anche altri insegnanti che avevano conosciuto Stella. Li invitai a pregare con me.
Volli recarmi sul posto dove l’avevano trovata. Man mano che mi avvicinavo rivedevo il mio sogno. La trovai come se dormisse in mezzo a un cespuglio. Tutt’intorno alberi di castagno da cui ogni tanto cadeva qualche frutto. Attorno al capo di Stella si era formata una corona di ricci. Il corpo già in putrefazione rendeva l’aria irrespirabile. Vicino al corpo alcuni infermieri con un sacco impermeabile aperto. Sarebbe servito a trasportare Stella. Più giù, sulla strada, un’ambulanza attendeva. Bisognava aspettare il giudice che però ancora non arrivava.
Invitai i presenti a pregare. C’erano i pompieri, molti poliziotti, alcuni intenti a fare fotografie e rilievi scientifici, amici di famiglia insieme al fratello di Stella che mi abbracciò piangendo disperatamente. Avevano tutti la mascherina e si tenevano a distanza dal corpo. Mi avvicinai per darle l’estrema unzione. Piansi mentre la benedicevo. Alle 12 giunse il giudice, guardò appena la scena, ascoltò il rapporto che gli fece un poliziotto e diede l’ordine di rimuovere il cadavere.
La presero con delicatezza e la infilarono nel sacco. Li vidi andare via verso l’obitorio dell’ospedale dove avrebbero fatto l’autopsia.
Nei giorni successivi non si parlò d’altro in paese. I giornali raccontarono impietosamente tutti i dettagli del ritrovamento del cadavere con quel gusto macabro che ha lo scopo di suscitare emozioni forti per vendere qualche copia in più. Per puro miracolo riuscii ad evitare la pubblicazione delle foto del corpo di Stella che erano finite ad un giornale il cui direttore era mio amico.
Venne però fuori la storia di Marco. Qualche giornale parlò di amore impossibile fra lui e Stella che per tale motivo si sarebbe suicidata. Nessuno parlò della CHIP, di quello che faceva Stella e dei suoi rapporti economici con Marco che negò qualsiasi legame sentimentale con Stella. Lo fece addirittura nel corso di una trasmissione televisiva.
- Chiedete alla mamma perché Stella si è suicidata, disse e la sua voce era così suadente che era difficile non credergli.
I responsabili della morte di Stella sarebbero così stati i genitori, contrari al loro “amore impossibile” che però Marco negava essere mai esistito.
Marco diceva la verità: lui non amava Stella, io lo sapevo. Lui, facendo leva sulle sue indubbie doti di affabulatore, voleva solo tenerla legata a se per impedirle di raccontare quello che aveva scoperto sui traffici della CHIP. Stella invece era cotta di lui. Glielo avevo letto negli occhi quando mi aveva detto che presto sarebbero andati a vivere insieme. Stavano cercando una casa e dovevano solo aspettare che il primo figlio di Marco si sposasse di li a pochi mesi. Quando era stata da me all’inizio di settembre, Stella mi aveva fatto vedere anche l’anello di fidanzamento, un grosso smeraldo circondato da una corona di brillanti.
- Non l’ho fatto vedere a nessuno - mi disse - solo a voi.
Nella mia vita sacerdotale ne avevo visto di tutti i colori e non ero abituato a scandalizzarmi di niente. Ero e sono molto tollerante sia con i separati che con i divorziati. Ma certo la storia di Stella era molto diversa da quelle di cui ero solito occuparmi.
Nei giorni successivi alla morte di Stella ascoltai parecchie persone senza dire alcunché. La polizia subito si orientò per il suicidio facendo filtrare la notizia sui giornali di essere in possesso di prove inoppugnabili. Mancava però quello che si trova sempre nei casi di suicidio: una lettera nella quale chi decide di farla finita spiega il perché del suo gesto. Stella, che pure scriveva molto, non aveva invece lasciato una sola riga.
I giornali raccontarono di un improbabile salto nel vuoto dall’alto della rupe che sovrastava il luogo dove Stella era stata trovata. La cosa era resa plausibile perché l’auto di Stella era stata ritrovata proprio li. Nessuno si preoccupò di accertare se qualcuno avesse udito un urlo, quello tipico di chi si lancia nel vuoto. Nessuno si preoccupò di eseguire una prova lanciando dalla rupe un manichino con le stesse dimensioni e peso di Stella per vedere dove esso sarebbe caduto.
Nessuno disse che nell’auto era stato ritrovato un piccolo tesoro, costituito da anelli, bracciali e oggetti vari che Stella teneva li perché non voleva farli vedere ai genitori, così mi aveva detto. Come fa un’auto, quasi nuova e con un piccolo tesoro al suo interno, a rimanere indisturbata, per 24 ore, in un luogo noto per essere frequentato da persone poco raccomandabili?
Il posto del ritrovamento è noto, infatti, per essere frequentato da persone di malaffare: drogati, prostitute ecc. Un’auto quasi nuova, lasciata li per 24 ore, non sarebbe passata inosservata. Sarebbe stata quanto meno aperta per verificarne il contenuto. Invece niente, tutto rimase dov’era e quando l’auto viene ritrovata, la Domenica 19 ottobre, su essa non viene effettuata alcuna ricerca di impronte digitali, nonostante sul posto fosse giunta un’auto della polizia.
Ai genitori venne detto, quasi subito, che nell’inchiesta sulla morte della figlia era coinvolta una nota famiglia mafiosa. La moglie di Marco, infatti, risulta essere la sorella di un mafioso.
- Questo però può non significare nulla - tenne a precisare il commissario che conduceva l’inchiesta.
La stessa notizia venne ripetuta, come una sorte di avvertimento, anche ad una coppia che, lo stesso giorno del ritrovamento di Stella, si era recata alla polizia per testimoniare di averla vista viva alle ore 12 del Sabato 18. Viva ed in compagnia di un uomo, proprio sulla rupe dove poi fu trovata l’auto. Cosa ci faceva Stella in quel posto e chi era in sua compagnia? Nessuno ha mai indagato su tale circostanza né sulla presenza o meno di un’altra auto vicino a quella di Stella. Nessuno si è mai fatto avanti per dire di essere stato con Stella in quel posto e a quell’ora. Cosa aveva da nascondere?
Nessuno si preoccupò di perquisire immediatamente la CHIP. Nessuno lo fece neppure nei mesi successivi. Nessuno dei dirigenti della CHIP venne interrogato per più di 5 minuti e tutti presero per buone le loro dichiarazioni che non furono sottoposte ad alcuna verifica. Nessuno venne ad interrogarmi, eppure era noto il mio legame con la famiglia di Stella.
La sofferenza dei familiari di Stella è stata ed è indescrivibile. La madre piange disperata alla notizia della morte della figlia. Sviene e rimane incosciente per quasi mezzora. Le impediscono di vedere la figlia morta. È come impazzita. Così anche il fratello che sembra anch’egli un cadavere ambulante. L’unico che non piange è il padre, ma i suoi occhi tradiscono l’immenso dolore di chi è stato colpito al cuore. Sul suo volto, di giorno in giorno, si dipinge una sorta di smorfia feroce di chi cerca vendetta, di chi vorrebbe farla pagare a chi gli ha ammazzato la figlia.
Avrebbe voluto vederla sposata. Avrebbe voluto portarla all’altare e avrebbe voluto piangere di gioia, come succede a tutti i padri il giorno del matrimonio della propria figlia. Dovette accontentarsi di far vestire di bianco quel che restava della figlia all’interno di una cassa bianca. Nessuno poté vederla ma essa doveva essere splendida, la più bella sposa che qualsiasi ragazzo per bene avrebbe desiderato.
Dopo alcuni mesi dalla morte il giudice sentenziò che si trattava di suicidio. Quella ragazza di 23 anni, ritrovata ai piedi di un burrone, era morta per sua autonoma scelta, lui non aveva dubbi. Era quello che tutti si aspettavano, fin dal primo momento. Ma è stato veramente così?
Giovanni Sarubbi
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale



Sabato 29 Marzo,2014 Ore: 16:53
 
 
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