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www.ildialogo.org QUELLE SERATE DI ESTATE AL PAESE DI LIMINA,di Sebastiano Saglimbeni

QUELLE SERATE DI ESTATE AL PAESE DI LIMINA

di Sebastiano Saglimbeni

Mentre esala l’estate se ne vanno…
Il paese si vuota, langue a sera
nel vento che vezzeggia la fontana
desueta, non più con donne in nero
in attesa di attingere dell’acqua.
Non se ne va Maria che nel silenzio
delle case ri/fatte netta ai vecchi
gli intimi e così sceglie un bene
di un esistere in luogo del nefasto.
 
Sono trascorsi un paio di lustri da quando ho composto questi versi dal titolo “Si vuota il paese”. Avevo compiuto in un’estate asfittica un ennesimo ritorno nella salubre comunità collinare di Limina. Qui, ogni anno, alla fine di agosto, rimangono gli abitanti attempati ed un gruppo di scolari delle Elementari e delle Medie inferiori. Chi ritorna per un po’ di giorni nella comunità dagli Stati Uniti, dal Venezuela, dall’Australia, dalla Germania e dal nord Italia mentre riparte non può non rimpiangere quelle serate di estate di riposo, di benefica brezza al tramonto e di ricordi. Amari quelli dei compaesani ritornati da tanto lontano e che si erano indebitati per potere emigrare dopo la brutta peste dell’ultimo conflitto mondiale. Non dimenticano di essersi nutriti di fave tarlate, di fichi secchi, pere secche, castagne, luppoli ed erbe strappate nelle campagne e lavate ai ruscelli.
Una sera inoltrata con le carezze della pura frescura, due donne sessantenni, ritornate con i loro mariti al paese da Caracas, vollero intonare dietro la chiesetta di San Filippo d’Agira, al suono di un organetto, una “canzuna” che aveva composto un poeta analfabeta strumentale nel dialetto di Limina, con tanto di rima ed armonia.
Amico, poeta scaligero Giorgio, che qualche volta mi magnifichi la storia della Trinacria qui di seguito la trascrivo in dialetto con traduzione nella nostra lingua. Ti fa forse pensare alla lingua poetica della scuola siciliana che fu per un po’ di anni la lingua letteraria della nazione, anche dopo la fine di quella potenza sveva.
 
L’ùltima sira, palummedda manza,
ca mi senti cantari nta sta via;
mi nni vàiu pi tanta luntananza
e lu paisi non sàcciu unn’ia;
lu ma cori di lacrimi s’avanza,
sintennu ca m’hà spartiri di tia.
Mentri ca campu, mi spettu spiranza
e, sa moru, ricòrditi di mia.
L’ultima sera, palomba graziosa,
che mi senti cantare in questa via;
io me ne vado in tanta lontananza
e ignoro dove il paese si trovi;
il mio cuore di lacrime s’ingrossa,
sapendo che da te debbo staccarmi.
Mentre che vivo, nutro una speranza
e, s’io morrò, tu mi ricorderai.
 
Il canto accorato delle due donne dice di un innamorato. Che canta per l’ultima volta nella via di una donna desiderata, paragonata ad una palomba graziosa. Il suo cuore si gonfia di lacrime in quanto ha deciso di salpare verso terre lontane, a lui ignote. Mentre sarà in vita non perderà la speranza e, se morirà, lei dovrà ricordarlo. Le partenze, le partenze dalla povera comunità. Raccontavano al paese alcuni vecchi la storia di quest’uomo, un valoroso zappatore e mietitore, che partiva per tanto lontano e facevano, fra l’altro, sapere che non era mai più voluto ritornato al paese.
Io non sono più stato un fruitore di quelle soavi serate di estate al mio paese. Non ho, conseguentemente, più sentito quegli armoniosi canti popolari, composti da contadini analfabeti o che appena sapevano leggere e scrivere. Complice la vecchiaia e un brutto male che da anni mi vessa, sebbene riesca ad addolcirlo, forte di volontà di amare, di leggere e provare a vergare parole illudenti, ma che recano, amico, quiete o pace interiore, una sorta di un’altra vita. Quelle serate di estate al paese posso ricordarle, come se le rivivessi. Una volta, dopo cena, con quattro miei compagni del ginnasio siamo rimasti sino al canto del gallo seduti all’inizio della lunga via dedicata, dopo la guerra e la nascita della democrazia in Italia, al giovane partigiano Medaglia d’oro Antonino Siligato. Fra l’altro, mentre assorbivamo la granita a limone, ho passato in rassegna quelle terre che ci avevano sfamato, produttrici di uva, granturco, frumento, orzo, olive, mandorle, nocciole, fave, piselli, fichi, pere ed erbe. Quelle terre, chi ne aveva di più, chi ne aveva di meno, chi non ne aveva affatto, le ho ricordate giacenti in uno stato pietoso di abbandono, invase da rovi ed erbacce, senza la bellezza degli alberi di ciliegi, fichi, castagni, peri, mandorli, noccioli, olivi, e limoni. Gli abitanti, vecchi, rimasti al paese vivono discretamente da pensionati nelle loro case ricostruite. Non solo le terre, le campagne dei nostri avi ho potuto ricordare con i loro nomi e le loro lontananze, ma le strade del paese nel tempo della dittatura fascista un letamaio, con le scrofe che, fatte uscire dalle casupole, passeggiavano indisturbate. Poi rese belle le strade ma con non poche abitazioni deserte. E saranno deserte di estate, complice questa peste distruttrice del genere umano e la volontà dei pochi giovani di andare via in cerca di pane.
Quelle serate di estate, quelle serate di estate al paese. Che tanti di noi, definiti dai cittadini messinesi “viddani”, abbiamo goduto diventati maestri elementari, professori di lettere, di chimica, medici ed avvocati.



Martedì 23 Marzo,2021 Ore: 17:33
 
 
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Poesia

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