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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org FIORI DI PESTE,di SEBASTIANO SAGLIMBENI

FIORI DI PESTE

di SEBASTIANO SAGLIMBENI

Protasi
Non peste tutte quelle deiezioni
cascate dalle bestie per le vie
sbilenche del paese. Nei canestri
venivano raccolte dalle donne
come alimento per le graminacee.
Al contrario, peste
la protervia di acefali terrieri
che noi superammo nel percorso
d’una ascesa diversa: ed alfabeti
fiorimmo lentamente con decoro.
Non decliniamo però la pestilenza
che frequente abbatteva i porcellini,
precaria economia dei contadini,
e li cani ci ficiru la festa. (1)
 
I
Un sentimento l’odio; e genera,
se oltre resiste, guerre. Sottrae
alla vita il piacere quotidiano
di un esistere quieto.
Allora la peste di Atene in armi
nella Sicilia; la sua armata distrutta,
due generali giustiziati
e, tra le feci, morenti i prigionieri,
dentro le latomie, le cave pietre
a Siracusa. Dice della peste
ateniese Tucidide e della guerra
del Peloponneso, che uccise,
per vent’anni i congiunti nemici.
Toccò, dopo, al cronista
un ventennio di esilio. Tema mai
concluso il suo luogo della morte.
 
II
Il sedici gennaio del 2008,
rileggo il De rerum natura
di Lucrezio. Come mi avvinghia
e mi dilania lo spirito verbale: il godimento
è breve per gli umani,
il tempo consuma le pietre.
La peste che il Poeta canta prese
le bestie; si recisero la verga
uomini con il ferro, nella speranza di vivere ancora. Il morbo
prima aveva invaso i genitali.
Vivebant ferro privati parte virili.
Su esanimi fanciulli corpi inanimati di genitori
avresti potuto talora vedere, e viceversa figli
esalare la vita su madri e padri. *
* Exanimis pueri super exanimata perentum
corpora nonnulumquam posses retroque videri
maribus et patribus natos super edere vitam.
 
III
Qui una volta per una infezione,
proveniente dal cielo, una stagione
orrenda ci sorprese; e fuoco a non finire,
che morte cagionò ad ogni bestia.
L’acqua, che non mondava,
i pascoli infettava.
Cade fumante sotto il greve aratro
il toro, sangue dalla bocca misto
alla schiuma, manda gli ultimi lamenti;
muore pure difesa dai rifugi tortuosi
la vipera; pessima l’aria agli stessi pennuti
che esanimi precipitano dai nembi.
E strage a caterva e cumuli di morti.
La peste, questa, del Norico
nel verso del Cantore mantovano.
 
IV
Non fu di Apollo una punizione,
ma una peste primordiale
che il cuore chiuse a Marco Aurelio,
a genti per tutto l’Impero
romano. Lo attesta
Ammiano Marcellino.
Nel tempo che il volgare si raffina
e scorre lento da noi il Medioevo,
una brigata di giovani moderni,
emergente la pese in Firenze,
scioglie una varietà di grandi temi.
Era il 1348: femmine ardenti,
campagne deserte, nobili abituri
vuoti, squallide bare, la vita abbrutimento
e godereccia. La pietà di Boccaccio
moralista, il suo racconto del contagio,
la scena dei due porci che si infettano
e zufolando muoiano, metafora
di ieri e di oggi.
Morte nera a Messina un anno prima.
Le dodici galee genovesi
ripassarono il mare, verso l’alto,
all’ urlo della gente già infetta.
Ai remi semimorti i marinai.
 
V
Scendeva dalla soglia d’ uno
di quegli usci la madre di Cecilia,
come la falce, la peste viaggiava
sui carri; algidi e cupi i monatti;
la scienza allo studio del morbo...
Caddero uniti carità
e soprusi. Nel tempo la Città,
di evirati cantori allettatrice, (2)
dedicò una strada al Ripamonti,
inteso dal Manzoni.
Sicuramente la soglia ridiscese
quella lombarda più orbata
del suo sangue...
Poterono tuttavia scampati
finalmente unirsi quei ragazzi,
i due vili meccanici.
 
VI
Le guerre come pesti nell’Italia
aperta, spezzata e unita. Non doloravano
i giovani uccisi sull’Isonzo
e a Caporetto; le madri nelle case
doloravano. E c’era pure l’ordine di morte
ai disertori mangiati dalla rogna, denutriti.
Ne caddero al motto blasfemo:
“Dio e la patria ti maledica!”,
mentre algido e lustro nutrito
il generale Luigi Cadorna, carnefice....
“Monte Grappa, tu sei la mia patria...”.
E poi il morbo, chiamato “ la Spagnola”.
 
VII
Il grido delle rondini più flebile
e i fiori arrivavano aperti
nella città: non goduti, coprivano
i petali i marciapiedi polverosi.
Niente feste dell’acqua e della carne,
la gioia andava in fuga
e il vento che levatosi soffiava
sulla città appestata.
Quando passò, gridi e gridi di allegria
per la città. Ma la folla ignorava
che il bacillo della peste
non muore né mai scompare,
può a lungo sonnecchiare
dentro le proprie cose nelle case.
E qui la peste di Orano,
che leggemmo, che era la barbarie
germanica in Francia, combattuta
dal genio di Camus.
 
VIII
Nulla salus bello. La guerra, una peste,
che non era passata, restava
in agguato, ma la gente, andava
ai campi, sognando la spiga,
la luce dell’ulivo, l’allegria della vite.
E chi la vide non corruttibile
del corpo, ma dell’anima poi che contagiò
per prima le donne, la porta aperta
ad ogni male,(3) ma non si aprirono
ai tedeschi le vere donne. Solo le prostitute.
Fu nel Quaranta quella sorta di peste
morale nella Napoli babelica.
Ma tu non conosci il respiro dei giovani
con mutile le arti e forati i polmoni,
complici il gelo e la fame in Russia.
E gli uomini-carbone, i protoantropi
nerastri di Nagasaki e Hiroshima.
 
IX
In vero: dopo, l’uomo si rialzò,
corse incontro all’opaco profitto.
La mia anima
non si nutre di edifici,
non riceve salute dalle fabbriche
neppure tristezza, insorgeva
cantando Pablo Neruda.
Le pesti dell’utile scienza,
mentre si resta in più zone del globo
saziati di mosche.
 
X
Divitias cogere... E divorò le teste
il profitto, dilagò l’ignominia.
Ora qui più si profila
lo spettro della fame.
Remote estati: more di rovo
strappavano i ragazzi;
nel refrigerio d’ autunno, le donne
erbe mangerecce. Quel nutrimento
della terra sana..... Ora appestata.
 
Epilogo
Brucia, appesta il rifiuto industriale
laddove due millenni fa vagava
il Mantovano e virgo si additava.
Il monte solamente fumigava.
Napoli, ora più muori cantando,
con la tabe alle porte,
remote Ischia e Capri.
........................................................
Fanciulli oltre i trent’anni,
nell’agio, con la mente a pezzi
buia; io, quasi a otto lustri doppi,
vivo e mi inabisso in alto
ove finisce la crepata Esperia.
Non dovevo salpare dalle acque
ioniche, ove, sopra l’Agrò,
ebbi la tana
Arcana/ineffabile poesia un tempo
il ronzio di api e il volteggiare
di rondini basso. Non poco
mi deprime la loro trista fine.
Almeno io potessi cantare
la favola di Aristeo e la lucciola
errante appo le siepi. (4)
Invece sarò ancora per cantare
la tabe della fame. E qui
chiudo nel maggio del 2008, proprio di maggio questa
impura aria. (5)
 
(1) Un verso nel dialetto liminese di Alfio Casablanca
(2) Da Dei Sepolcri di U. Foscolo
(3) Da La pelle di C. Malaparte
(4) Da Canti di G. Leopardi
(5) Da Le ceneri di Gramsci di .P. P. Pasolini
 
Questi testi, scritti anni fa, fanno parte della silloge poetica SUAVIS DOMINA edita nel 2012 con l’introduzione di Mario Geymonat. Vengono, riprodotti, ora che imperversa un’ennesima peste sul pianeta terra, dal Dialogo di Monteforte Irpino, che da anni con passione e ricchezza di testi dirige il giornalista Giovanni Sarubbi.



Lunedì 24 Febbraio,2020 Ore: 22:09
 
 
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