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www.ildialogo.org shemà e man hu, due alleati contro il covid-19,di Alessandro Manfridi

shemà e man hu, due alleati contro il covid-19

di Alessandro Manfridi

20 marzo 2020
“Historia magistra vitæ” (Cicerone, De Oratore, II, 9, 36).
La celeberrima affermazione ciceroniana è valida in ogni tempo ed è una massima che, pur se tanto spesso disattesa, ci invita a recuperare nella memoria degli avvenimenti che la storia ci narra chiavi di lettura utili per affrontare le situazioni che di volta in volta si presentano nelle nostre società.
Pur riconoscendo nella teorizzazione del pensiero debole (1) che le certezze della filosofia razionalistica positiva e i dogmatismi legati alle indicazioni delle religioni si confrontano con una stagione che li mette in discussione, ritengo che la lectio magistralis della storia possa essere affiancata dalle iniezioni di sapienza di quel patrimonio storico-religioso che appartiene alle nostre culture e tradizioni.
Proviamo dunque ad interrogarci sul messaggio che alcuni passi biblici possono dare oggi, alla luce di questa pandemia del COVID-19 che si sta drammaticamente espandendo a livello mondiale.
Già detto che è importante evitare qualsiasi tentazione millenarista (2) e che è altrettanto importante che ognuno, dai capi di governo ad ogni cittadino, si assuma le proprie responsabilità in ordine al contrasto del virus (3), partiamo con l’analizzare una scena celeberrima, quella del dialogo tra Dio e il trickster Satana nel libro di Giobbe (cfr. Gb 1,1-2,10).
Il libro di Giobbe è la risposta della sapienza ebraica alla sconcertante domanda di sempre: “Se Dio è buono e onnipotente, da dove vengono la sofferenza, la malattia, il dolore e la morte?” Perché, dato lo “scandalo” (per il credente) nel dover registrare queste realtà, l’alternativa non lascia scampo: o egli non è buono oppure non è onnipotente. Verrebbero qui a mancare, ad ogni modo, delle caratteristiche che sono, per definizione – almeno la seconda – peculiari della divinità.
Nella rappresentazione dei dialoghi tra Dio e il trickster è evidente che i testi suggeriscono una soluzione: Dio non sarebbe l’autore degli eventi nefasti ma li permetterebbe. Si noti bene: chi “mette alla prova” l’uomo non è Dio ma, nel racconto, il trickster Satana; si potrebbe dire che Dio “scommette”, “fa il tifo” per l’uomo.
Dunque le indicazioni che ci vengono da questo racconto biblico sono incredibilmente attuali: il COVID-19 non è una “punizione divina” e men che meno una dimostrazione di potenza del “principe di questo mondo” (cfr. Gv 14,30) al quale, ad ogni modo, secondo la lettera del brano biblico, non è permesso vantare un potere sulla vita e sulla morte (cfr. Gb 2,6).
Quale che sia l’origine del virus e quali che siano, come detto, le molteplici responsabilità che ne stanno permettendo la trasmissione, quello che conta è sapere che “il fine” di questa – come di qualsiasi altra – prova (e come suggerito dagli “spettatori degli eventi”: Dio e il trickster Satana) sia quello di testare le reazioni e le azioni dell’uomo (ribadendo che, nel testo biblico, lo scopo non è quello “di tentare” ma di “tifare” per l’uomo, perché venga a capo anche delle situazioni più difficili e drammatiche).
Altro passo, fondamentale per quell’attitudine alla memoria che in tempi recenti si è concretizzata a livello locale, nazionale o internazionale, con l’istituzione di specifiche giornate commemorative dedicate a molteplici realtà (4) è quello dello “Shemà Israel”(5) che per il popolo ebraico e nondimeno per ogni attento fruitore del messaggio biblico, costituisce indicazione pedagogica motivazionale per una lettura degli eventi che generi speranza e certezza di sviluppi risolutivi.
Il testo biblico, presente nel libro del Deuteronomio con la preghiera/professione di fede (cfr. Dt 6, 4-9) è la precisa risposta della memoria a un periodo di grande prova quale quello dell’esodo mosaico.
Il popolo di Israele, liberato dalla schiavitù in Egitto attraverso la missione di Mosè, è condotto verso la “Terra promessa” ma dovrà attendere quaranta anni prima di giungervi.
Dunque, con la morte progressiva di tutti i protagonisti della liberazione (solo Mosè vedrà la Terra Promessa da lontano e solo Giosuè e Cur vi entreranno tra quelli che erano usciti dall’Egitto quarant’anni prima) le generazioni dei figli e dei nipoti del popolo ebraico soffre di una esperienza, quella dell’esodo nel deserto, della quale non vede una fine e della quale si chiede il senso.
Ecco allora che a chi vive l’angoscia della prova, la fatica del percorso, l’incertezza sui tempi del tragitto, lo smarrimento , l’ignoranza e l’incapacità di vedere la luce in fondo al tunnel viene incontro l’invito allo “Shemà”, all’ascolto, alla memoria di quel che è stato e dunque di quel che sarà (cfr. Dt 6, 20-25).
Siamo nella prova? Non ci capiamo niente? Ci domandiamo quando finirà?
Il credente israelita e cristiano ricevono con lo Shemà un motivo di consolazione e di speranza, la memoria di quel che Dio ha compiuto, della liberazione che ha operato e dunque il senso delle promesse che non potranno non realizzarsi.
Ma anche colui che si accosta al testo biblico pur senza l’ascolto della fede può trarne preziosi suggerimenti: ogni volta che l’essere umano vive una esperienza di esodo, di passaggio, un itinerario faticoso, doloroso, a volte drammatico, deve comprendere da dove viene e dove va. Il fare memoria di quello che eravamo (non solo “nostalgia del giardino dell’Eden”ma soprattutto consapevolezza della nostra dignità e della nostra chiamata a costruire la città degli uomini) ci aiuta a fondare quello che dobbiamo essere.
Lo slogan: “andrà tutto bene” non è semplice iniezione di speranza difronte ad eventi che paiono precipitare. Dobbiamo riempirlo di tutto ciò che può dare un senso al momento presente: come l’invito allo “Shemà”, all’ascolto; come l’affermazione “Historia magistra vitæ”; così “andrà tutto bene”perché non è la prima volta né sarà l’ultima che riusciremo ad uscire dalle prove più faticose dopo averle subite.
L’ultimo passo che voglio proporvi e che mi ha sempre colpito, riguarda la stessa fatica esodale che vede il popolo di Israele in cammino verso la “Terra Promessa” e che viene ricordata anche durante il cammino che la liturgia cristiana propone durante i quaranta giorni preparatori alla Pasqua.
È l’episodio della “Man hu” (= “Manna”).
Il popolo d’Israele mormorava contro Mosè per il tempo trascorso nel deserto, rimpiangendo la carne e il pane mangiati in Egitto negli anni della schiavitù.
In risposta alle mormorazioni, Mosè trasmette le istruzioni ricevute da Dio che “invia dal Cielo” un dono, la sera la carne con le quaglie, la mattina uno strato granuloso simile al seme di coriandolo, che gli israeliti si chiedono cosa fosse (“Man hu: che cos’è?”) da qui il nome “Manna”: è un pane di cui si sazieranno gratuitamente, senza coltivarlo ma solo raccogliendolo per mangiarlo, per quarant’anni, fino all’ingresso nel paese di Canaan (Cfr. Es 16, 1-36).
Qual’è il passaggio davvero interessante dell’episodio?
Nelle istruzioni che ricevono, gli israeliti vengono invitati a raccogliere ogni giorno il fabbisogno corrispondente a ciascun componente di ogni famiglia, secondo ciò che potesse consumare per alimentarsi senza farne avanzare per il giorno seguente. L’eccezione sarebbe stato il sesto giorno, durante il quale essi avrebbero dovuto raccogliere una razione doppia, per rispettare il riposo del settimo giorno, sacro a Dio, lo Shabbat.
Alcuni israeliti però non rispettavano le indicazioni, raccogliendo maggior quantità di manna rispetto al proprio fabbisogno; quando questa avanzava, il giorno dopo i presenti constatavano che la stessa era divenuta immangiabile, perché vi si erano generati dei vermi ed era imputridita. Questo però non avveniva il settimo giorno!
Lezione davvero notevole, che trova un parallelo nella petizione evangelica del Padre Nostro: “dacci il nostro pane quotidiano”( cfr. Mt 6,11; Lc 11,3).
Dio pare porre una domanda ai suoi interlocutori ed al tempo stesso indicare una strada: “Ti fidi di me? Si? Ebbene: io ti darò da mangiare tutti i giorni”.
Tutti i giorni. Ma giorno per giorno.
Chi si accaparra il doppio delle razioni, pensando solo per sé, non ne gioverà. E non si sarà fidato.
In tempo di prova, di incertezze, di fobie e di tentazioni egoistiche, questo passo assume una attualità innegabile.
Non c’è bisogno di accaparrarsi tutto e subito, di svuotare i banchi dei supermercati, di non lasciare nulla a chi viene dopo di noi. Danneggeremmo altri. E noi stessi non ne gioveremmo. Non solo perché ci sarà sempre qualcuno che arriva prima di noi e ci sottrae ciò che serve a tutti e va condiviso. Ma soprattutto perché non impareremmo la lezione del pane “quotidiano” che la petizione del “Padre Nostro” ci pone in maniera così illuminante.
Una sola preghiera i vangeli ci dicono abbia insegnato Gesù di Nazareth.
Perché non ci ha invitato a pregare dicendo: “Padre, dacci il nostro pane mensile (così come lo stipendio, così come le scadenze)” o: “Padre, dacci il nostro pane annuale (così come i bilanci, così come le dichiarazioni dei redditi).
Per due motivi, principalmente.
Il primo è, appunto, psicologico, morale e diremmo in questo contesto odierno, “solidaristico”.
Se io bramo nell’attendere il pane “mensile” o quello “annuale” rischio di disancorarmi dalla dimensione “quotidiana”. E dunque da quella, effettivamente “reale”. Perché la vita si vive giorno per giorno, solo così arrivando a contare anche le nostre settimane, i nostri mesi e i nostri anni.
Naturalmente la dimensione quotidiana della ricezione del pane mi insegna a condividerlo con gli altri, piuttosto che accaparrarlo egoisticamente solo per me. E in effetti, questa è una lezione che risale a duemilacinquecento anni fa, data appunto della redazione del libro del Deuteronomio con il suo racconto della manna.
Il secondo motivo è molto più semplicemente quello relativo alla efficacia delle immagini utilizzate dal maestro di Nazareth, che nella preziosa proposta delle parabole, ad esempio, utilizza spesso richiami alla vita lavorativa quotidiana e artigiana. Il pane richiesto nella petizione, pur se potremmo interpretarlo in maniera più estesa come figura (“dacci il nostro pane quotidiano” = “aiutaci a procurarci tutto ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno, sia a livello materiale come a livello non materiale”) è di per sé, nell’elemento del pane, una realtà che va procurata giorno per giorno. Duemila anni fa non esistevano i frigoriferi elettrodomestici. Dunque, per chi ascolta, è ovvio che non si può richiedere una scorta di pane per una settimana o più. D’altronde anche noi oggi diremmo che il pane di ieri “è vecchio”.
(1) G. Vattimo e P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2010.
(2) https://www.glistatigenerali.com/salute-e-benessere_societa-societa/coronavirus-apocalisse/
(3) https://www.glistatigenerali.com/costumi-sociali_psicologia/il-signore-chiam…presidente-trump/
(4) https://www.un.org/en/sections/observances/international-days/
(5) 02/02/2016 · SHEMÀ ISRAEL (Marco Frisina) https://www.youtube.com/watch?v=rq7iuX-Y_k4



Sabato 28 Marzo,2020 Ore: 19:53
 
 
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