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www.ildialogo.org Rimanere nomadi in cerca del senso,di ALESSANDRO ESPOSITO

Rimanere nomadi in cerca del senso

di ALESSANDRO ESPOSITO

Da: Micromega

aespositoIn risposta al mio ultimo intervento su questo blog, dedicato ad una riflessione sulla sofferenza del giusto che prendeva le mosse da un brano del libro di Giobbe, lo stimato lettore Michele T. si domanda, a metà tra la meraviglia ed il compiacimento: «Come gli è venuto in mente di soffermarsi tanto “spudoratamente” sulle Scritture in un blog targato MicroMega?». Lo stesso interrogativo mi è stato rivolto, a più riprese, da conoscenti, lettrici e lettori: ecco perché intendo soffermarmici, cercando di indagare le ragioni che lo sostanziano e lo generano.

Chi si sorprende di cotanta meraviglia, in verità, sono io: perché mai MicroMega dovrebbe rappresentare uno spazio restio ad accogliere la riflessione ed il dibattito relativo alla domanda di senso, anche quand’essa emerga dall’esercizio, sempre perfettibile, dell’interpretazione biblica?

Gli stessi commenti delle lettrici e dei lettori smentiscono, se ve ne fosse bisogno, quello che non esito a definire un pregiudizio, peraltro, come capita sovente, tutto italiano. Le scritture ebraico-cristiane, difatti, rappresentano un patrimonio culturale e spirituale che, come tale, appartiene all’umanità e che invece le distinte tradizioni ecclesiastiche, specie quella del cattolicesimo istituzionale, hanno preteso di trasformare in monopolio sterile e ripetitivo della dogmatica.

Chi in realtà ha finito per estromettere la riflessione laica e, per ciò stesso, la libertà di ricerca e di espressione in ambito esegetico e teologico, sono state proprio le chiese. Tale atteggiamento ha prodotto un progressivo arroccamento dell’interpretazione biblica su letture tradizionali, svolte rigorosamente e, non di rado, ossessivamente, intra moenia, con tutte le dinamiche asfittiche che, inevitabilmente, ne conseguono. La riflessione ecclesiastica, difatti, si dimostra sovente rigida, prigioniera di schemi che la determinano prima ancora che essa prenda avvio come esercizio di libertà e di immaginazione creativa nell’interpretazione dei testi biblici: questi ultimi, in quanto testi narrativi, rappresentano lo spazio di quell’apertura infinita in cui consiste l’ermeneutica e non il luogo della fissità entro cui reperire significati codificati ed immutabili. Chi, in verità, ha sancito l’estromissione del pensiero teologico dall’universo culturale e dal dibattito intellettuale sono state le chiese, con la loro pretesa veritativa uniformante.

Ecco perché ritengo che uno spazio come quello offerto da questa rivista possa costituire il luogo concreto in seno al quale un dialogo autentico ed intellettualmente onesto, fuori degli schemi tradizionali di appartenenza, possa aver luogo e maturare, nei contenuti così come nel linguaggio. La sterile contrapposizione tra credenti e non credenti, difatti, è figlia di uno schema semplificativo, creato dall’integralismo cristiano e mutuato, poi, da un laicismo comprensibilmente esasperato. Il terreno più interessante, invece, è rappresentato dalle “zone di confine”, quelle entro cui, inevitabilmente, si svolge, fluttuante, tutta la nostra esistenza, che altro non è se non un processo costante e inesauribile di trasformazione.

A cambiarci, però, non può che essere il confronto che, per rivelarsi realmente tale, esige la rinuncia alla verità come possesso e come affermazione univoca e per ciò stesso violenta e intransigente. Verità, al contrario, è apertura, incontro, processo, ulteriorità; significa riconoscere e vivere quell’«etica del viandante» descritta con estrema efficacia dal filosofo Umberto Galimberti, nella quale «si succedono le esperienze del mondo, che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle […] perché […] il nomade sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia»[1].

Ecco: una volta ancora, sulla follia del totalitarismo onnicomprensivo che caratterizza l’impostazione tradizionale della fede ecclesiastica, mi ha aperto gli occhi chi in una chiesa non si riconosce. Da lui, come da tante e tanti che si muovono al di là dei perimetri ristretti dei templi entro cui sovente il dibattito sul senso viene arbitrariamente confinato, voglio continuare ad apprendere e a lasciarmi trasformare. Questo è ciò che mi spinge a scrivere (anche) di libera interpretazione delle scritture ebraico-cristiane su questa rivista, nelle cui pagine riscontro un respiro ed un’apertura di cui i contesti ecclesiastici, quasi sempre, difettano.

Alessandro Esposito – pastore valdese

(23 aprile 2013)

[1]Tratto da: Umberto Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano, edizione Universale Economica, 2008, cit. pag. 431.




Venerdì 26 Aprile,2013 Ore: 17:43
 
 
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