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www.ildialogo.org «Prima gli ultimi»: sempre e comunque.,di dott. Michele Mesci

«Prima gli ultimi»: sempre e comunque.

di dott. Michele Mesci

Sono un medico, il pensiero sia aperto all’accoglienza
Strepitano e minimizzano sul problema umanitario. A scanso di equivoci: non si tratta di un’emergenza politica, bensì di dramma sociale.
Attribuire alla violenza verbale (e non solo) una motivazione legata al presunto disagio è imperdonabile errore di valutazione e di prospettiva. In primis, poiché il «popolo» italiano e, più in generale, quello europeo hanno attraversato ferite ben più profonde delle attuali: in termini economici, di occupazione, di stabilità e addirittura di sopravvivenza. Se fu intollerabile l’accondiscendenza ai regimi del secolo scorso, partoriti dal ventre malato del malcontento e dell’umiliazione, oggi – senza timore di laudatio temporis acti – appare indecoroso appellarsi al disagio di massa e risultano pertanto irricevibili le giustificazioni come: «la gente è stanca», «i governi precedenti hanno portato a tutto questo», «lasciamo spazio al cambiamento».  I nostri nonni furono fatti prigionieri in Africa o morirono in Russia, in ogni caso non diedero segno di sé per decenni e spesso lo fecero con l’etichetta del «disperso»; conobbero Auschwitz e la guerra civile; da traditi, uccisi, annientati seppero ricostruire una società più giusta, vivibile e produttiva, alle cui basi posero l’imperativo del «mai più».
Tutto sommato sono un medico che vive nelle comodità, non uno degli eroi che ogni giorno salvano chi è sbarcato in condizioni di fortuna. Non posso fare altro che esprimere la mia vicinanza, allenare il mio pensiero alla solidarietà.
La professione che svolgo, una delle tante possibili, mi dà il privilegio di un esclusivo punto di osservazione: quello della sofferenza e del timore per la propria salute. E vi assicuro che si tratta di un palcoscenico che comporta, oltre al costante impegno fisico e intellettuale, anche la continua necessità di introspezione nella valutazione e nel giudizio.
Accanto a situazioni di indicibile fragilità: di anziani soli, abbandonati a condizioni igienico-abitative e affettive disumane; di dolore cieco, per la malattia di un giovane o per un destino che spesso sembra accanirsi con sadismo nelle vicende familiari; di dolente poesia, per gli esempi insperati di amore e di dedizione che possono comparire, come angeli salvifici, nel tessuto di storie orrorose; ebbene, accanto a tutto ciò sono sempre più frequenti, impreviste, scioccanti, le scene di feroce isteria da parte di un’utenza del tutto disabituata alle regole della convivenza civile e dell’educazione. Le grida scomposte del «tutto, subito e gratis», quasi sempre accompagnate dalla rivendicazione violenta di chi sostiene di pagare le tasse e accusa lo Stato di privilegiare i nullafacenti disperati che sbarcano dai gommoni, sono all’ordine del giorno in ogni Pronto Soccorso e in ogni reparto.  Persino nelle regioni, come la mia, dove il sistema sanitario funziona, per efficienza, efficacia e corretta tempistica, spesso come in nessuna altra parte al mondo, grazie a decenni di buona politica e di buona amministrazione.
Non voglio esser tacciato di faziosità o di partigianeria – non sono mai stato iscritto ad alcun partito, né voglio afferire ad alcuno schieramento -, né di semplificazione o caratterizzazione. Però, concedo il limite della mia esperienza personale, è spesso nei cosiddetti stranieri che ritrovi l’immagine dell’Italia della ricostruzione, di un’epoca di cui stenti a riconoscere le tracce. Negli occhi, diversi e lontani, di chi ti avvicina col timore di non saper esprimersi con la dizione corretta. Di chi conserva il pudore del proprio disagio e della propria esclusione, conscio spesso di essere oggetto di discriminazione e di odio mediaticamente programmato. Di chi, al termine della prestazione sanitaria offerta, ritorna con tutta la famiglia, la moglie col vestito più colorato e una schiera di bambini, per dimostrarti la sua riconoscenza. Di chi ti parla solo con grandi sorrisi, congiungendo il palmo delle mani, sgranando gli occhi arrossati in un bagno di sudore.
«Prima gli italiani» è la bestemmia più empia che si possa levare al cielo, e per un operatore sanitario soprattutto. È storia relativamente recente l’invito di un precedente esecutivo (ma, chissà perché, secondo alcuni, in Italia hanno governato i comunisti ininterrottamente per settant’anni) a denunciare i clandestini che ricorressero alle strutture di cura. La mia regione, allora, fu una delle poche a ricordarsi dell’imperativo etico del medico e sostanzialmente ad invitare, con tanto di cartelli esposti, all’obiezione di coscienza. Tutti noi esponemmo la targhetta «io non denuncio, curo» e, grazie a Dio, l’infame direttiva abortì sul nascere.
«Prima gli italiani», sia ben chiaro a tutte le famiglie perbene che vanno a messa la domenica, che elargiscono beneficienza, che difendono i valori tradizionali, è una bestemmia ancor peggiore per chi (io non ho mai voluto essere tra quelli) si dichiari pubblicamente cristiano.
La divinità cui fece riferimento il Cristo nella sua predicazione è, per propria natura, l’«eternamente altro», non nel noto senso di inconoscibilità di una dimensione suprema, ma in quello, paradossale, del conoscibilissimo prossimo. Tanto più quando quest’ultimo è diverso, difficile, problematico, sconosciuto. Non si è realmente in grado di comprendere il cristianesimo, se non si accetta la radicale discontinuità evangelica rispetto alle tradizionali visioni teologico-religiose della storia umana.
Il Dio di Gesù è il παράκλητος, da cui l’intraducibile italiano «paraclito», ovverosia «colui, ciò che accorre in soccorso»; che non attende iniziative ma si affretta, per natura, alla propria azione salvifica. C’è un solo modo per non vederlo, non riconoscerlo e non assaporarne l’infinita potenza creativa: seppellirlo nel sistema di regole di una società e della religione, imparare a memoria un catechismo di comandamenti e di distinguo liturgico-legislativi. Farne una bandiera da sventolare ai comizi elettorali.
Una vignetta che gira sui social descrive una parrocchia con l’insegna: «vietato l’ingresso a chi non fa peccato». È proprio così: se il peccato non è l’infrazione di una regola, ma l’imboccare un sentiero sbagliato come l’etimo del termine greco insegna, Dio ha senso solo come colui, ciò che scende dall’empireo fasullo delle proiezioni umane per farsi il pellegrino, il migrante che prende per mano e riconduce alla pienezza della vita.
Dio non attende pentimenti, sensi di colpa, conversioni da parte dell’essenza della sua creazione. È, egli stesso, anticipatore di un perdono illimitato, che insegna agli uomini la gratuità dell’amore e del dono. È dunque per imitazione, per riconoscenza, per volontà di perpetuare la salvezza che il bene finisce col diffondersi. Mai per adesione a un programma di valori. Mai per introspezione sull'altare dell'egocentrismo.
«Facciamo» Dio, dunque, costruiamolo ogni giorno nelle nostre abitazioni, nella nostra vita quotidiana, nel semplice atteggiamento di accoglienza e di apertura, anche solo mentale, a tutto ciò che è inusuale e straniero.
Ribadisco: i numeri danno torto ai diffusori di odio, a chi usa la paura per il proprio consenso e per distogliere la pubblica attenzione dall’incapacità (o impossibilità oggettiva) di risolvere i problemi della gente. Non c’è nessuna emergenza migratoria nel nostro paese, ma c’è un’emergenza dei cristi migranti. Tutti noi – sarebbe ipocrita negarlo – percepiamo spesso la microcriminalità nelle nostre città, ma quest’ultima, pur odiosa e pericolosa, è in diminuzione e non in aumento. Ed è un problema che va ben oltre la presenza degli extracomunitari: che spesso può contemplare quest'ultima, certo, ma che non si esaurisce con essa.
È tempo che siano i laici ad esortare le conferenze dei vescovi ad una presa di posizione, in nome del vero messaggio del vangelo. È tempo per tutti di abbassare i toni, di smetterla di giocare a chi la spara più grossa nel politicamente scorretto, così tanto di moda da non suscitare più vergogna o imbarazzo. È tempo che la politica comprenda che cavalcare la pancia degli elettori ha condotto, storicamente, alle tragedie più innominabili dell’umanità. Che il populismo è solo sciatteria intellettuale e archetipo di ogni nazionalismo omicida.
È tempo di tornare ad essere seri, di riprendere ad essere uomini e donne degni di questo nome.
«Prima gli ultimi»: sempre e comunque.



Venerdì 20 Luglio,2018 Ore: 08:19
 
 
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