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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org  SINODO DELL’AMAZZONIA: “Kairos per tutta la Chiesa e il mondo”,a cura di Carlo Castellini

 SINODO DELL’AMAZZONIA: “Kairos per tutta la Chiesa e il mondo”

Mauro Castagnaro – Mattia Prayer Galletti c/o Comboniani (BS) – 14 novembre 2019 P. Girolamo Miante


a cura di Carlo Castellini

(trascrizione registrazioni a cura di Gabriele Smussi)


INTRODUZIONE ALL'INCONTRO DI QUESTA SERA.
Questa sera l'incontro per i GIOVEDI' DELLA MISSIONE avrà per tema:”SINODO DELL'AMAZZONIA:KAIRO'S PER TUTTA LA CHIESA E IL MONDO”, COMUNITA' CRISTIANE DI FRONTE AL MONDO”.
PADRE GIROLAMO MIANTE, ha presentato i relatori ospiti e fatto gli onori di casa.
ROBERTO FERRANTI, Responsabile del settore Mondialità della Diocesi di Brescia. Moderatore dell'incontro di questa sera.
CHIE' MAURO CASTAGNARO?
E' giornalista specializzato su tematiche che toccano l'America Latina; e' uno dei Redattori di MISSIONE OGGI, dei padri Saveriani il cui direttore è Padre MARIO MENIN. “Io non sono andato a fare il giornalista al Sinodo dell'Amazzonia: sono andato a fare un'altra cosa. Insieme ad un gruppo di Teologi e Teologhe latino americane, noi abbiamo lavorato prima del Sinodo (in marzo sono stato in Colombia, in luglio sono stato in Brasile e poi al Sinodo, sostanzialmente per fare da consulenti ad alcuni Padri Sinodali. Vorrei ricordare una persona come p. DARIO BOSSI, che ha avuto un ruolo importante com padre sinodale nel Sinodo dell'Amazzonia.
CHI E' MATTIA PRAYER GALLETTI?
(LEAD TECHNICAL SPECIALISTA PRESSO I F A D).
Io sono di Parma, sono debitore di padre Mario Menini. Il mio cammino è iniZiato con MISSIONE OGGI. Rivolgo un pensiero anche a Eugenio Lenadri che se n'è andato alcuni giorni fa. Mi sono interessato di sviluppo,, di coOperazione, ho studiato, ho frequentato dei master e poi da 30 anni lavoro in questa organizzazione che è una delle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite.Attualmente sono responsabile dell'area dei popoli degli indigeni e per questo sono stato inviato al Sinodo per parlare in un seminari di fronte al CARD. BATTISTERI.

 

 SINODO DELL’AMAZZONIA: “Kairos per tutta la Chiesa e il mondo”
Mauro Castagnaro – Mattia Prayer Galletti
c/o Comboniani (BS) – 14 novembre 2019
P. Girolamo Miante
Se volete accomodarvi, così cominciamo. Benvenuti, buonasera, a questo primo incontro dei Giovedì della Missione, edizione 2019-2020. Abbiamo dato questo titolo, che ci accompagnerà da questa sera fino a maggio, “Comunità cristiane di fronte al mondo”, per una nuova presenza missionaria anche a Brescia. E questa sera il primo tema riguarda il “Sinodo dell’Amazzonia”. Ne abbiamo tutti sentito parlare, si è svolto durante il mese di ottobre, e, come sottotitolo “kairos per tutta la Chiesa e il mondo”. Senza perdere tempo, lascio la parola a don Roberto, che modera l’incontro di questa sera e che ci presenterà i relatori. Don Roberto è responsabile del settore mondialità della Diocesi di Brescia. Credo che avremo anche qualche altra occasione di incontrarlo. Allora grazie di essere qui, essere con noi, ed a te la parola.
Don Roberto Ferranti (direttore Area pastorale per la Mondialità della Diocesi di Brescia)
Grazie P. Girolamo e buona serata a tutti. Il mio compito è molto semplice, perché i racconti, quelli veri, li faranno Mauro e Mattia, che poi si presenteranno, perché è inutile che vi racconti la loro vita, quando anch’io l’ho letta. Per cui sarà a loro presentarsi e raccontarvi perché questa sera sono qui a raccontarci qualche cosa che è vivo, che appartiene al loro percorso di vita ed a quello che hanno vissuto anche in relazione a questa esperienza, che è il Sinodo dell’Amazzonia. Il Sinodo dell’Amazzonia è un po’ al centro della nostra riflessione questa sera. Io mi impegno solo brevemente ad introdurre questa serata, a darvi valore rispetto al nostro parlare di queste cose a Brescia, la nostra città, a partire da quella che è l’esperienza di ciascuno di noi. Anzitutto, solo un punto di partenza, che anche se l’abbiamo concluso credo che valga la pena riascoltarlo, questo mese missionario straordinario voluto da Papa Francesco, che all’inizio di questo mese straordinario di ottobre aveva detto che desiderava, aveva il desiderio che questo tempo fosse uno spazio in cui ricevere una scossa per essere attivi nel fare il bene.
Ecco, credo che anche questo racconto di quello che è successo al Sinodo possa pe noi essere un pochettino una piccola scossa per tornare ad essere attivi nel bene che siamo chiamati a compiere. Partiamo brevissimamente dal titolo di questa serata, che trovate nella locandina che vi ho portato questa sera: “Sinodo dell’Amazzonia: Kairos per tutta la Chiesa e il mondo”. Una brevissima spiegazione di questo titolo ci aiuta forse ad ascoltare quelli che sono i loro racconti. Il kairos” è una parola dal greco che ci aiuta a tradurre il termine tempo. Ci sono quattro modi di dire tempo in greco. Tre modi di parlare del tempo, parlano del tempo specificando però il suo aspetto quantitativo, quanto è grande, lungo, corto. Invece il termine “kairos” parla del tempo insistendo sulla qualità, il “kairos” è un tempo opportuno, un tempo che fa nascere qualche cosa, è un tempo che finalmente è pieno, che fa germogliare qualche cosa. Il “kairos” c ‘è anche nel Vangelo, perché quando all’inizio del Vangelo Marco dice che il tempo è compiuto, usa la parola “kairos”. È il momento giusto, è il momento adatto.
Ecco, e poi il “kairos” c’è in tanti altri aspetti, il “kairos” nella storia, il “kairos” nella filosofia, nella astrologia, nella retorica, nella medicina, è il momento del passaggio, della cura da mettere nel guarire, nello star bene. C’è un “kairos” nella politica, un tempo opportuno per fare delle scelte che cambiano la società. Nel campo militare, il momento giusto per sferrare l’attacco. Nella navigazione, il momento giusto per sfruttare tutte le risorse che il mare ha per arrivare in quella direzione. Il “kairos” è il tempo opportuno, il tempo giusto, il momento favorevole. Se questo è il “kairos”, perché questo Sinodo dell’Amazzonia può essere stato per noi, per la Chiesa, per il mondo intero, un “kairos”, un tempo opportuno, il momento giusto? In che senso può essere stato tutto questo? Non è che ne abbiamo sentito parlare sempre così bene di questo Sinodo, poi lui che fa il giornalista di lavoro un pochettino proverà a condividere con noi come è stato il racconto di questo Sinodo. Di questa esperienza così particolare, perché noi possiamo, dobbiamo dire che è stato il momento giusto? Per che cosa?
Lasciando a loro un pochettino di più il racconto vivo di quello che il Sinodo è stato e può diventare, io vorrei fermarmi al primo passo del Sinodo, che è stata la preparazione di inizio, che lasciava intravvedere quali potevano essere le scelte opportune che questa esperienza di Chiesa poteva farci fare. Lo dico con quattro brevissime frasi con le quali credo si possa leggere, perché fin dall’inizio questa esperienza doveva essere una riflessione che non doveva essere limitata ad un luogo particolare, ma doveva avere questo desiderio e questa forza di protendersi verso tutta la Chiesa ed anche verso il futuro di tutto il Pianeta. Il Sinodo poteva essere un “kairos”, un tempo opportuno, perché in un tempo ed in uno spazio come il nostro dove il mondo lo incontriamo anche stando a casa nostra, l’Amazzonia ci insegna (come dice il documento preparatorio) che il buon vivere esiste solo quando si vive in comunione con gli altri, con il mondo, con gli esseri circostanti e con il Creatore.
Il Sinodo poteva essere fin dall’inizio un “kairos”, un tempo opportuno, perché attraverso l’esperienza della missione evangelizzatrice, ed in modo particolare di quella della Chiesa che abita l’Amazzonia, ci ricorda la necessità che il Vangelo deve tradursi in un’esperienza anche sociale, cioè che genera dei comportamenti. E infine il Sinodo poteva essere un “kairos”, un tempo opportuno, perché metteva la Chiesa (attraverso l’esperienza dei popoli che vivono ed abitano l’Amazzonia) a ricordare che la propria identità si assapora mettendosi in relazione con le realtà dei territori in cui si vive, per accrescere la propria spiritualità ponendosi in ascolto della saggezza dei popoli che la compongono. In altre parole, si recupera la propria identità accettando l’esperienza bella del confronto con il diverso. Ecco, questo era l’inizio, il primo passo che ha portato verso il Sinodo. Quando è stato scritto il titolo, il Sinodo non era ancora finito. Oggi proviamo a riflettere se questi desideri possono davvero non tanto essersi concretizzati, ma tra l’altro aver aperto delle strade per concretizzarsi.
Davvero questa esperienza di Chiesa può aver segnato un tempo opportuno, adeguato anche per noi per fare delle scelte, per trovare una strada verso cui, su cui camminare e dirigersi? Ci lasciamo così accompagnare dalla loro esperienza, che ci permetterà di andare su alcuni aspetti particolari. Da una parte il Sinodo in sé, perché Mauro è giornalista, redattore di Missione Oggi, ha partecipato al Sinodo (non tanto nei lavori nell’aula, ma per il lavoro comunicativo) in quanto giornalista accreditato di Missione Oggi presso la sala stampa, per cui ci porta direttamente a quello che è stato vissuto in quelle settimane. E invece Mattia, a partire dalla sua esperienza, del suo lavoro (lavorando per un’agenzia delle Nazioni Unite che finanzia progetti finalizzati alla lotta alla povertà nelle zone rurali) ha una attenzione particolare per una caratteristica di cui il Sinodo ha parlato, che è l’identità di questi popoli che abitano determinate situazioni particolari. Lasciamo a loro di accompagnarci dentro l’esperienza del Sinodo e di quello che il Sinodo ha parlato, provando a cogliere il perché tutto questo segna un tempo opportuno, adeguato, anche per noi, per fare delle scelte e prendere delle decisioni.
Mauro Castagnaro (giornalista specialista di America Latina, redattore di Missione Oggi)
Grazie a tutti. Ci siamo messi d’accordo, io e Mattia, di parlare venti minuti a testa, in modo da lasciare spazio alle vostre domande, che probabilmente sono più utili. Ci tengo a precisare una cosa. Io non sono andato a fare il giornalista al Sinodo dell’Amazzonia, io sono andato a fare un’altra cosa. Cioè, insieme ad un gruppo di teologi e teologhe latino-americane, noi abbiamo lavorato prima del Sinodo (perché io sono stato in Colombia in marzo, in Brasile in luglio) e poi al Sinodo, sostanzialmente per fare da consulenti ad alcuni Padri Sinodali. In questo io ho avuto occasione di lavorare abbastanza con una persona che voglio ricordare qui (perché siamo in una casa comboniana) che ha avuto un ruolo molto importante nel Sinodo, che è P. Dario Bossi. Dario ha veramente fatto un lavoro molto importante. Lui era un Padre Sinodale, quindi era all’interno dell’aula (io non sono entrato neanche nell’aula), ed ha fatto un lavoro molto importante ed anche molto paziente nella preparazione dei documenti. Ma prima, per esempio, quando eravamo insieme a Brasilia, per preparare gli interventi di circa 25 vescovi brasiliani.
Quindi io ho fatto questo lavoro, non ho fatto tanto il giornalista. È vero, ero accreditato, andato alle conferenze stampa, ma non ho scritto praticamente nulla. Adesso uscirà una cosa su Missione Oggi, naturalmente, ma ho preferito fare un altro lavoro. Cosa mi interessa dirvi? Questo è stato un Sinodo inedito, perché nella storia della Chiesa ci sono stati molti Sinodi (Sinodi locali, di Chiese particolari, Sinodi nazionali, Sinodi continentali), ma non c’era mai stato un Sinodo che avesse come ambito di riferimento un bioma, cioè uno spazio, un grande territorio caratterizzato (diciamo così) da un ecosistema prevalente e comune. Questa è l’Amazzonia, Amazzonia vuol dire otto milioni circa di chilometri quadrati (e quindi 28 volte l’Italia) di territorio, diviso in nove Stati, di cui 2/3 appartengono al Brasile, ma ci sono poi Bolivia, Colombia, Perù, Ecuador, Venezuela e le tre Guayane (Suriname, Guayana e Guayana Francese). Quindi un territorio con all’interno anche un Paese che non è indipendente e che però è caratterizzato da una serie, da una configurazione della flora, dell’ecosistema, della fauna, che lo rende in qualche modo unitario.
Questa è indubbiamente una proiezione della sensibilità di papa Francesco, cioè non ci sarebbe stato il Sinodo Panamazzonico se non ci fosse stato papa Francesco e non ci fosse stata la “Laudato si’”. Questa è, secondo me, la prima cosa molto importante da ricordare, cioè il guardare alla Chiesa ed alle Chiese locali non più in un’ottica che riflette gli Stati nazionali o riflette delle divisioni amministrative, o riflette una divisione fisica (come sono i continenti), ma una divisione, diciamo un ecosistema. Cosa voleva dire questo concretamente? Voleva dire che convocati a questo Sinodo erano prima di tutto i 106 vescovi delle circoscrizioni, giurisdizioni ecclesiastiche, che sono in Amazzonia. Quindi non tutti i vescovi del Brasile, ma solo i 56 vescovi (poi fra qualcuno c’è qualche ausiliare, ma insomma …), una sessantina di vescovi di diocesi, prelature apostoliche o vicariati apostolici del Brasile che sono nel territorio amazzonico. E così per gli altri Paesi.
Seconda questione. In questo momento noi siamo in una fase un po’ intermedia, perché il Sinodo si è svolto (nella sua fase assembleare diciamo culminante), però il documento finale (che raccoglie sostanzialmente tutta la discussione, la riflessione sinodale) è pubblico, ma non è un documento (diciamo) definitivo, magisteriale, perché il Papa ha deciso di pubblicare una Esortazione Post-Sinodale, ha promesso che sarà pubblicata entro fine anno. Questo di per sé non era oggi obbligatorio, perché l’enciclica “Episcopalis Communio”, che è il terzo documento importante (ma anche quello meno conosciuto del papato, del pontificato di papa Francesco, dopo la “Evangeli Gaudium” e la “Laudato si’”) stabilisce che il Sinodo dei Vescovi mantiene sì un ruolo consultivo, ma il Papa può decidere di riconoscersi nel testo votato dai Vescovi (che votano il testo a maggioranza di 2/3) e semplicemente di controfirmarlo. E questo diventa in qualche modo magistero della Chiesa. In questo caso il Papa ha deciso di fare una Esortazione post-sinodale, quindi il testo è importante, ma non è ancora un testo definitivo.
Quindi secondo me è importante di cercare sì di esaminare il testo (io dirò due o tre cose veloci su quello), ma secondo me è più importante cogliere quello che potremmo dire il pre-testo (cioè quello che viene prima) e il con-testo (cioè il contesto in cui si è elaborato questo testo). Cosa è importante ricordare della parte di preparazione? Per me due cose, fondamentalmente. La prima, l’intuizione del Papa che due anni fa dice: facciamo un Sinodo della Chiesa cattolica (quindi di questo bioma) e il Sinodo si dovrà occupare di nuovi cammini per la Chiesa e per l’ecologia integrale. Non ci interessano i vecchi cammini, non abbiamo convocato un Sinodo per ridire che abbiamo sempre fatto le cose bene e che continueremo a farle uguali a prima. Non l’abbiamo convocato per questo. Secondo. Quindi la domanda è: come la Chiesa dell’Amazzonia può essere, può cambiare, può convertirsi?
Il documento finale è articolato sulla base di quattro conversioni. Come può cambiare, per essere una Chiesa più capace di evangelizzare in quel territorio, in questo momento storico. E l’altro dice: nuovi cammini della Chiesa per l’ecologia integrale. Questo termine, che è importante nella visione di papa Francesco (e che è il termine che attraversa la “Laudato si’”) non è però un termine così scontato, diciamo così a cui siamo abituati. Noi siamo abituati ad usare il termine ecologia, ma ecologia integrale? Allora c’è una ecologia parziale? Beh, in qualche modo il Papa dice di sì. Che cos’è l’ecologia integrale? È un paradigma socio-culturale che vuole tenere assieme: un modo di produrre, di fare economia, che sia sostenibile; un modo di vivere socialmente che sia equo; un modo di relazionarsi culturalmente che sia rispettoso della pluralità delle tradizioni. In qualche modo, esattamente l’opposto di quello che è il modello dominante, in Amazzonia (ma non solo), quello che potremmo definire un “capitalismo estrattivista”, che distrugge la natura, aumenta le diseguaglianze sociali, omogeneizza o omologa le culture, in qualche caso le annichilisce puramente e semplicemente.
Il secondo elemento della fase precedente all’Assemblea è la consultazione che è stata fatta della gente. Cioè il Papa ha detto: io voglio che la base, in particolare le comunità indigene, sia interpellata. E per farlo non è sufficiente usare i canali tradizionali, che ci sono sempre quando ci sono dei Sinodi della Chiesa universale. Che cosa si fa? Lo si dice al Vescovo, il Vescovo (se va bene) convoca il Consiglio Pastorale Diocesano, ne discutono una volta, mandano a Roma un rapporto e poi, sulla base di questo, il Vescovo partecipa al Sinodo, o, nel peggiore dei casi, chiama il Consiglio Episcopale, due o tre discutono e poi comunicano. No, egli dice, io voglio la consultazione della base. E per fare questo, accanto al canale tradizionale, incarica una struttura che è nata nel 2014 e che si chiama REPAM (Rete Ecclesiale Panamazzonica) di fare una serie di incontri, assemblee, forum, colloqui di gruppo. Questo ha portato (nel giro di un anno e mezzo) a consultare direttamente circa 100.000 persone. Io ho visto i report di ciascuna assemblea ed in tutte queste assemblee si vedeva che cosa chiedeva la gente, …
Questo ha dato, a coloro che sono andati al Sinodo, un duplice elemento. Una grande autorevolezza, perché questi Vescovi parlavano, ma sapevano che avevano dietro la loro gente. Per carità, non tutti, ma insomma … In Amazzonia sono 33 milioni di abitanti, di questi circa 2,5-3 milioni sono popoli originari (quasi 400 diversi, quindi una diversità estrema), però 100.000 su 33 milioni non è una cosa proprio così irrilevante. Quindi una grande forza, questi Vescovi quando parlavano non parlavano solo come dei singoli (cioè in rappresentanza della Chiesa locale che gli deriva dal loro ruolo), ma anche sulla base di questa consultazione. E dall’altro una grande responsabilità. Diversi di questi Vescovi li ho sentiti dire: noi non dobbiamo uscire da qui in un modo che tradisca la nostra gente. La parola tradire è una parola che ho sentito da più di un Vescovo.
Questo è stato uno degli elementi (e vengo già al contesto) dell’andamento del Sinodo, cioè i Vescovi amazzonici, per la stragrande maggioranza, hanno parlato con una autorevolezza e con una libertà garantita anche dal Papa, che ha detto: qui non ci sono temi tabù, qui si parla di tutto. Un Vescovo italiano che lavora in Amazzonia, un salesiano, ha detto nel suo intervento che lui era convinto che fosse necessario ordinare donne preti. Tenete conto che fino a cinque anni fa (ho scritto un libro su questa cosa) se un Vescovo avesse detto una cosa del genere, sarebbe stato immediatamente rimosso. Cosa successa ad un Vescovo australiano, che aveva una Diocesi grande come la Germania, e che poteva contare su meno di venti preti (lui compreso), che ad un certo punto ha detto ai suoi preti: cosa facciamo? Quello di cui si discute in giro è fare preti degli uomini sposati, ordinare le donne, oppure (questo è tipico dell’Australia) chiedere a pastori di Chiese che sono a noi molto vicine (luterani, anglicani, Chiese unite) di celebrare la Messa, di poter celebrare l’Eucarestia. Semplicemente per aver detto questo, quindi senza aver preso nessuna decisione, è stato rimosso.
Quindi questa libertà, questa autorevolezza con cui questi Vescovi hanno parlato (vado verso la fine) ed il Papa, che ha avuto questo ruolo costante di presenza, di sprono. Ha continuato a dire: andate alle radici dei problemi, andate in fondo, non rimanete su cose scontate. E parlando come un Padre sinodale come gli altri. Ma ci sono stati anche tre attori (diciamo così) un po’ imprevisti, che hanno marcato molto il Sinodo. Prima di tutto gli indigeni, circa 15 auditori/auditrici, che nei loro interventi (spesso i nostri Sinodi sono un po’ autoreferenziali, parliamo di noi), hanno portato il Sinodo in uno spazio, hanno portato la carne viva dei problemi dell’Amazzonia e delle vittime di una terra che (come dice il Papa stesso) è una terra in disputa, una terra oggetto di conflitti.
Secondo attore, 35 donne che hanno fatto un lavoro impressionante (e come donne sto parlando di religiose e di laiche, laiche bianche - possiamo dire - e laiche indigene), che con i loro interventi hanno sostanzialmente dimostrato alla Chiesa universale (appena lo vuole vedere) che il tema del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica e del loro spazio nella struttura ecclesiastica è un tema non più eludibile. Facciamo ridere oggi il mondo se continuiamo a proporci come una Chiesa monosessuale. Terza presenza, coloro che erano fuori dal Sinodo. Molta gente venuta dall’Amazzonia (ma venuta anche da altre parti del mondo) che hanno organizzato circa 130 eventi. Anche qui un comboniano, fratel Soffientini, ha avuto un ruolo molto importante coordinando tutto questo lavoro. Sono stati fatti anche con altri gruppi missionari, ONG, con vari soggetti di congregazioni religiose, questi 130 eventi, che sono andati da processioni, veglie di preghiera, incontri di approfondimento, tavole rotonde sui problemi dell’Amazzonia.
Un lavoro senz’altro molto importante, soprattutto nei momenti celebrativi, la celebrazione d’inizio. Avete visto forse il filmato del momento in cui il Papa si sposta dalla tomba di Pietro in S. Pietro all’aula sinodale, andando dietro a questa canoa con la rete, con liberi indigeni, una cosa veramente … E come dicono là, “El Papa parecía feliz”, il Papa era contento di questa cosa. Bene, questi tre soggetti hanno creato un clima di grande comunione. Anche con coloro che non erano d’accordo su alcune cose che sono state decise. Si sono ascoltati, c’è stato un grande ascolto reciproco. Questo ce l’hanno detto tutti, lo ha detto per esempio un Vescovo bresciano, il Vescovo di Castanhal, mons. Carlo Verzelletti, che nella conferenza stampa ha raccontato che lui stesso aveva cambiato alcune idee, ascoltando e discutendo. Questo ha creato effettivamente una situazione molto sinodale, effettivamente sinodale.
Due o tre cose sul documento finale che vi dà un po’ l’idea (e poi passo la parola a Mattia). Il testo dice sostanzialmente che la Chiesa in Amazzonia vuole fare quattro conversioni. Una conversione pastorale, cioè l’idea è una Chiesa che esce (o Chiesa in uscita o una Chiesa missionaria) e si confronta con gli altri, con i diversi, e lo fa con un atteggiamento di dialogo. Non c’è una visione pessimista, una visione da cittadella assediata. No, c’è una visione che riconosce il valore della diversità e dialoga con queste persone. Una conversione culturale, che vuol dire da una parte una Chiesa che esprime alleanza con i popoli indigeni. Questi popoli indigeni hanno chiesto molto: noi vogliamo una Chiesa più presente ed alleata con noi, con le nostre lotte, con la nostra terra, per l’identità, la cultura. E anche una Chiesa che va nella direzione di una Chiesa, una o più Chiese autoctone. Cosa vuol dire? Se voi vedete (qui ci sono un po’ di missionari e quindi se lo sono studiati) “Ad Gentes” 16, si parla di Chiese autoctone, cioè di Chiese che hanno una loro liturgia, una loro teologia, dei loro ministeri, … Chiese che sì sono in comunione con la Chiesa universale, ma che sono autenticamente Chiese particolari, non sono la riproduzione della Chiesa romana in loco, sono qualcosa d’altro.
Una conversione ecologica, cioè lo sforzo di contribuire perché si vada verso un nuovo modello (io ho detto prima un nuovo paradigma) socio-culturale, quello dell’ecologia integrale, visto come l’unica possibilità di sopravvivenza per l’Amazzonia, che è un bioma ricchissimo ma estremamente fragile. Si dice che oggi è stato deforestato il 17% dell’Amazzonia e che se si arriva al 25% si innescherà un processo irreversibile di savanizzazione di quella terra, pare. E una conversione sinodale, cioè di andare verso una Chiesa che sia effettivamente popolo di Dio, non solo dichiaratamente. Cosa vuol dire effettivamente? Che lo sia nella sua organizzazione e nelle sue strutture. E questo allora vuol dire una Chiesa tutta ministeriale, per cui per esempio si parla nel documento della richiesta (farà un po’ sorridere) di aprire il lettorato e l’accolitato come ministeri istituiti anche alle donne.
Si parla di riconoscere un ministero delle donne dirigenti di comunità, che in realtà è un po’ complicato dal punto di vista teologico, ma, se volete, ci torniamo. Di istituire un ministero di cura della casa comune, di lavoro per l’ambiente. Ma anche di accoglienza di migranti nelle città, persone che abbiano un ministero istituito per questo. Quindi siano in quel momento non rappresentanti di se stessi, ma rappresentanti della Chiesa, anche nel rapporto con le istituzioni. E poi anche il discorso di poter conferire ordinazione presbiterale ad uomini sposati. Anche qui è stato fatto un pandemonio su questa cosa (e concludo su questo), come se su questa cosa sta o cade la Chiesa cattolica, come se la Chiesa cattolica non fosse fatta da 21 Chiese diverse, 19 delle quali (certo, minoritarie quantitativamente) hanno già clero uxorato. Tutte le Chiese di rito greco, Chiese orientali (maroniti, armeni, rumeni, …) ce l’hanno, e queste sono Chiese in totale comunione con Roma. Questo è un po’ (io ho già sforato di cinque minuti, per cui mi fermo, mi scuso anche con Mattia) per darvi un’idea di che cosa è stato il Sinodo Panamazzonico.
Don Roberto Ferranti
Dentro quella che è stata questa esperienza, credo che adesso Mattia ci aiuterà ad entrare in modo particolare in uno di questi attori di cui abbiamo adesso sentito parlare, i popoli indigeni, a partire da quella che è la sua esperienza, la sua sensibilità ed anche il suo lavoro.
Mattia Prayer Galletti (Lead Technical Specialist presso IFAD)
Grazie mille, grazie a tutti, buonasera. Prima di tutto vorrei ringraziare per avermi invitato qua, è un grande piacere, mi sento molto in debito con P. Mario e con tutti i missionari saveriani, perché in realtà il mio cammino è iniziato con Missione Oggi. Io sono di Parma (forse si capisce dall’accento), ed un pensiero anche ad Eugenio, Eugenio Melandri che se n’è andato pochi giorni fa. Grazie a Missione Oggi ho iniziato ad occuparmi di sviluppo, di cooperazione, ho studiato, ho fatto dei master, sono andato a fare degli studi fuori, e poi da 30 anni lavoro in questa organizzazione, che è una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite. Si chiama IFAD (“Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo”). Noi operiamo come istituzione finanziaria. Attualmente sono responsabile dell’area dei popoli indigeni e per questo sono stato invitato al Sinodo a parlare in un seminario, di fronte al Segretario del Sinodo, il card. Battisteri, a fare un intervento proprio centralizzato sulla nostra esperienza, che cercherò anche di riassumervi un pochettino. Il titolo del seminario era “Kairos, il momento giusto”, molto pertinente in effetti, soprattutto pertinente per i popoli indigeni. Mauro vi ha già dato alcune cifre.
Nell’area dell’Amazzonia abbiamo più o meno 2,5 milioni di persone, appartenenti a 400-500 differenti popoli indigeni. Nel mondo i popoli indigeni rappresentano il 5% della popolazione mondiale, pari a circa 370 milioni, ma questo 5% della popolazione mondiale è custode dell’80% della biodiversità del mondo. I popoli indigeni operano su un territorio molto vasto. Essendo solo 2,5 milioni, però coprono una vasta parte dell’Amazzonia. Ci sono studi che dicono cose che non dovrebbero sorprendere nessuno: nelle zone dove abitano i popoli indigeni non c’è deforestazione. Il motivo è molto semplice, perché vivono in completa armonia ed interdipendenza con la natura, hanno delle conoscenze che molti settori della società non indigena (locale e non locale) hanno completamente dimenticato.
Noi operiamo in tutte le zone del mondo, come organizzazione, e attualmente pensiamo di raggiungere sui dieci milioni di popoli indigeni, popoli indigeni in tutto il mondo, ed in queste operazioni noi pensiamo di avere ricevuto molto più di quello che abbiamo dato. Tra le varie lezioni che abbiamo ricevuto dai popoli indigeni voglio enunciarvene qualcuna, ponendole non in termini di lezioni in quanto tali, ma ponendole in termini di sfide, perché sono sfide, sono interrogazioni che vengono fatte a noi. Partirei dalla prima, che è la sfida economica. Penso che noi possiamo dire ed essere consapevoli (chi più, chi meno) che stiamo vivendo modelli di vita che non sono sostenibili. Sono stili di vita che sono basati su un modello diciamo economico (come già diceva Mauro), dove c’è un consumismo molto spietato, una economia trainata da una domanda drogata, domanda drogata grazie a modi in maniera artificiale, grazie alla economia del debito, ai bisogni superflui, alle obsolescenze programmate.
Tutto questo serve a pompare l’economia, però si va verso un’economia dove i bisogni sono sempre più individuali, dove la società è atomizzata, dove spesso nei contesti urbani noi facciamo anche fatica a parlare con il nostro vicino di casa. Quindi, diciamo, questa è una economia che non è sostenibile, che è capace di saccheggiare le risorse naturali, soprattutto nelle zone come l’Amazzonia. Non è rispettosa della dignità dell’uomo, ancor meno rispettosa degli anziati, capace di distruggere la bellezza della vita che è data dalla sua diversità. E allora, in questo contesto, questo modello di sviluppo che produce danni, esternalità sociali ed ambientali (dove ci sono pochi che si prendono molto, e molti che si prendono troppo poco, e, come dice papa Francesco, dove non è più l’economia al servizio dell’uomo bensì l’uomo al servizio dell’economia), i popoli indigeni hanno qualcosa da dirci.
Non è un caso che i popoli indigeni (soprattutto nelle zone come l’Amazzonia) sono visti come un ostacolo a questo modello economico. I popoli indigeni (non è solo Bolsonaro in Brasile, c’è anche Colombia, c’è Ecuador, c’è Bolivia, che sono all’ordine del giorno) vengono mirati come un ostacolo, un ostacolo per interventi economici di grande scala: settore minerario, settore del legname, grandi costruzioni di dighe, bacini idroelettrici. E qui riguarda anche un po’ la mia organizzazione (che si occupa di sviluppo agricolo e rurale), investimenti in grande scala di monoculture o di allevamenti intensivi. Però, quello che vorrei anche dire, è che i popoli indigeni sono visti come ostacolo non solo perché cercano di difendere il territorio dove loro vivono, ma perché possono dimostrare di avere modelli di vita che sono basati su principi totalmente diversi (che sono i principi della condivisione, della proprietà collettiva, del dono, del rifiuto degli sprechi) e di una responsabilità collettiva (una responsabilità comune) che è in aperto conflitto con il modello dominante. È per questo che i popoli indigeni danno fastidio.
E nel momento in cui la Chiesa si è aperta in questa idea del Sinodo, ma ancora prima con l’enciclica “Laudato si’”, i popoli indigeni che lavorano con noi (e vi posso garantire che con noi lavorano popoli indigeni, delle leadership, delle persone che hanno una capacità intellettuale ed una visione anche globale dei problemi terribili e non sono neanche credenti) venuti a Roma hanno parlato dell’alleanza di cui parlava Mauro e mi hanno detto che la cosa più importante per loro era di sapere di essere ascoltati e poter ritornare nelle loro comunità e dire queste cose. Comunque questa è la prima sfida. La seconda sfida è la sfida ambientale, e quella è forse ancora più ovvia. Chi sono nel mondo meglio dei popoli indigeni come custodi del creato? Vi ho già dato il dato sulla biodiversità. Parlando della casa comune (che è un concetto base nell’enciclica “Laudato si’”), chi è il miglior alleato nella protezione della casa comune? Per questo i popoli indigeni hanno mantenuto questa relazione stretta con l’ambiente, che vivono in maniera armonica e simbiotica, e soprattutto riescono a vedere le interconnessioni. La interdipendenza è la cosa principale ed è anche per questo motivo (siccome dipendono da queste risorse) che percepiscono meglio di chiunque altro il cambiamento climatico.
Del cambiamento climatico a volte parla qualche negazionista (e purtroppo hanno tanto potere questi negazionisti), però i popoli indigeni ci dicono che il cambiamento climatico non solo sta avvenendo, ma sta accelerando, e sta accelerando anche nelle zone magari più impensabili del pianeta (tipo il Polo Nord). Non solo si occupano della natura, della biodiversità, ma spesso vivono negli ecosistemi più fragili ed è per questo che le sfide sono maggiori. Quindi si occupano loro della fertilità dei suoli, si occupano loro della protezione delle foreste. E poi c’è anche da dire che nella cosmogonia indigena, la natura ha un fortissimo elemento di spiritualità, e questa è una cosa importantissima. È incredibile vedere come in tanti luoghi sacri di comunità indigene che vivono nei posti più lontani del pianeta ci sono degli elementi comuni. Io ne ho visitati più di uno di questi luoghi sacri, spesso hanno delle piante sontuose, attorno alle quali si riuniscono, e sono sempre sentimenti, sensazioni molto forti di solennità e di rispetto per la vita che ci è data.
Questa è una parte importantissima ed ogni tanto bisogna anche chiedersi come mai noi abbiamo perso questo contatto con la natura. Probabilmente qui delle spiegazioni ci sono. Spesso si ritorna indietro, nel momento in cui si è evoluto il pensiero scientifico, partendo da Cartesio, dove l’uomo ha cominciato a pensare di essere il “dominus”, di dominare e poter manipolare la natura. È interessante vedere come alcuni Stati (tipo Ecuador e Bolivia) hanno introdotto, nelle loro Costituzioni, il concetto di natura come soggetto giuridico, e che quindi la natura ha il diritto di essere protetta. Ovviamente (sappiamo tutti) che un conto è la legislazione, un conto è poterla fare rispettare. Anche questa è un’importante lezione, un ‘importante sfida su cui dobbiamo riflettere.
La terza sfida è la sfida culturale. Abbiamo parlato della diversità dei popoli indigeni, quest’anno le Nazioni Unite l’hanno indicato come l’anno delle lingue indigene. In tutto il mondo abbiamo 7.000 lingue parlate. Il 5% della popolazione mondiale, che è composto da popoli indigeni, ne parla 5.000, la metà delle quali è parlata da comunità che sono dalle 10.000 persone in giù, e la metà di queste (quindi 1.200 lingue) sono parlate da comunità di un massimo di mille persone. Non è solo il numero quantitativo, è il fatto che queste comunità nelle loro lingue hanno sviluppato un vocabolario incredibile, proprio collegato alla natura. Un piccolo esempio è quello che viene dagli Inuit (che abitano nell’Artico) che al posto della parola neve utilizzano dodici parole, perché ci sono dodici tipi di neve che loro riescono ad osservare. Questa è una ricchezza infinita. Il problema è che quando sparisce una lingua, sparisce una cultura, e se sparisce una cultura sparisce un popolo. Però il problema ancora più grande è quando spariscono, spariscono per sempre, non riusciamo a ritirarli indietro.
Quindi le culture dei popoli indigeni (qui c’è la sfida culturale) sono decisamente chiave per la gestione delle risorse del pianeta, per l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che dà l’accento sugli Obiettivi di Sostenibilità, però è importante anche il riconoscimento di queste culture. Questa è una cosa che non sempre noi riusciamo a fare, però nel momento in cui riusciamo a farlo, anche i risultati dei nostri programmi aumentano di molte volte il loro impatto. Quello che bisogna fare è cercare di mettere in dialogo queste culture indigene rispetto al pensiero scientifico occidentale, che ovviamente ha la sua valenza. Il problema è che per obiettivi diversi è importante fare leva su culture diverse. Se noi vogliamo andare sulla Luna, abbiamo bisogno della scienza. Se noi vogliamo proteggere la biodiversità, ecco forse che lì dobbiamo cercare di sfruttare tutto. Secondo me (e non solo secondo me) c’è bisogno di fare una battaglia culturale, ribaltando il concetto che le culture indigene (poiché arcaiche, poiché considerate arretrate ed inutili) sono da buttar via. In realtà, non c’è niente di più moderno delle culture indigene, per il semplice fatto che sono le culture che si preoccupano di lasciare in eredità alle generazioni future, sono quelle che guardano in avanti. E quindi sono loro che si preoccupano di proteggere il mondo in cui viviamo.
Poi diciamo che la quarta, ma non ultima per importanza (è la gestione del tempo che mi è stato dato, poi confido di ritornare su ognuna di queste cose grazie alle vostre domande), è la sfida politica, perché i problemi bene o male li conosciamo ed in parte anche le soluzioni le conosciamo, però quello che manca è la volontà politica. Quello che i popoli indigeni ci chiedono di affrontare sono proprio alcuni principi cardine delle nostre società. Fino a quando non arriveremo a comprendere l’importanza di tutelare i diritti della natura, così come i diritti dei più deboli, ed i diritti delle future generazioni, la semplice consapevolezza dei problemi non basterà a trovare una soluzione duratura ed efficace. E una questione chiave è il riconoscimento delle responsabilità collettive rispetto ai beni comuni. E bisogna soprattutto riconoscere questi beni comuni. Per esempio, pensate un po’, come si fa a non affermare che la regione amazzonica non sia un bene comune? Come si può negare che non sia il polmone del pianeta, il polmone della casa comune?
L’Amazzonia è il polmone più grande del pianeta, questo lo sappiamo. Ma al momento basta avere una concessione governativa, assieme all’utilizzo delle forze dell’ordine, per poterne fare quello che si vuole di questo bene comune. E poi, pensiamo, si può applicare il principio di proprietà privata a delle foreste? Si può applicare un principio economico? Fino a quando le regole e la contabilità nazionale dimostrano che tagliare una foresta dà ricchezza ed invece preservare la foresta non la dà, non entra nel Prodotto Interno Lordo, l’economia continuerà a funzionare nella maniera sbagliata. Però una cosa che ha fatto molta impressione nell’intervento che ho fatto al Sinodo, è quando ho fatto un esempio molto personale. Un mese fa ero in California (insegno anche all’Università di Berkeley) e con la mia famiglia siamo andati a trovare il generale Sherman. E chi è questo generale Sherman? Non è un militare (io sono antimilitarista, sono obiettore di coscienza ed ho conosciuto Missione Oggi grazie alla mia obiezione di coscienza), il generale Sherman è una sequoia gigante, che ha 2.700 anni di vita. Di fronte a questa sequoia uno si sente piccolo e la solennità di questa sequoia è pensare che questa sequoia possa diventare parte di una transazione, di una deforestazione, è una cosa incredibile.
Comunque, una volta che dobbiamo riconoscere i beni comuni, dobbiamo porci questa domanda: come facciamo a riconoscere i beni comuni se a monte non riusciamo a riconoscerci, prima di tutto, come una sola umanità, come una sola comunità di destino, avendo degli elementi comuni (ne parlavamo prima a cena), dell’importanza di avere un comune senso di appartenenza, dove qualunque cosa accada nel pianeta ci riguarda? E quindi sappiamo di essere in questo concetto, nel concetto dell’antropogene, che oramai la sopravvivenza del pianeta dipende da noi ed è in crisi a causa di quello che noi facciamo e che quindi bisogna veramente agire. E nell’agire entra la politica. Quindi in due minuti cerchiamo di dire qualcosa in conclusione.
Come conclusione, primo, la comunità mondiale ha bisogno dei popoli indigeni. Sono minoranze numeriche, ma sono quelli che ci possono indicare la via da perseguire per riuscire a vivere in un modo dove le relazioni comunitarie hanno un ruolo, dove ci sono principi come la solidarietà, il rispetto per la natura, la connessione con tutti gli elementi della vita: suoli, la “Pacha Mama” (la Terra Madre – in lingua quechua ndr), l’acqua, la fauna, la flora, che sono tra l’altro tutti modelli culturali di questo concetto di ecologia integrale che ci ha portato il Santo Padre con la “Laudato si’”. E poi, come conclusione, direi che parlare dell’Amazzonia ci deve far riflettere e portare l’attenzione sulla grande questione del rapporto tra uomo ed ambiente. E posso anche dire che il nostro compito (anche come organizzazione internazionale) è quello innanzi tutto di dare visibilità alle lotte che ogni giorno fanno i popoli indigeni, fanno per la tutela del loro ambiente, per la tutela dei loro territori. Ma lo dobbiamo fare perché queste lotte sono anche a nome nostro. E dobbiamo anche sostenerli nel riconoscimento e nella difesa dei loro diritti. Se noi riusciamo a fare questa parte (penso che ognuno di noi ha sempre un ruolo da fare), ha senso il nostro ruolo, dà senso alla nostra esistenza e magari ci permette di riuscire a migliorare un pochino le cose. Per il momento mi fermo qua. Grazie!
Don Roberto Ferranti
Grazie! Questi due spaccati aiutano a parlare di questa esperienza che è stata il Sinodo dell’Amazzonia, che comunque anche da queste riflessioni ci lascia almeno intuire che non è qualcosa che è legato solo a qualche cosa che è lontano da noi, ma qualcosa che atterra molto vicino a noi. L’idea è stata di contenere il più possibile questa prima parte per dare la possibilità di raccogliere magari qualche altra suggestione, dalla curiosità ad alcune riflessioni che magari anche noi ci siamo fatti su questi temi a partire da quello che abbiamo sentito. Vedere, ascoltare e gustare della loro sensibilità e preparazione per raccogliere anche qualche risposta, qualche provocazione. Mettiamo il microfono a disposizione per permettere a tutti di sentire, con grande libertà.
Domande e Risposte
D. (P. Mario - comboniano) Ringrazio per le vostre presentazioni e siamo qui per parlare del Sinodo. Però noi siamo anche colpiti dall’avversione al Sinodo ed al Papa. Allora la mia domanda è: è solo una reazione di carattere dottrinale, oppure nasconde degli interessi? È l’interesse nascosto, gli interessi economici? E se li nasconde, chiedo come possono i popoli indigeni minacciare questi interessi?
Don Roberto Ferranti
Proviamo magari a raccogliere qualche altro intervento, se c’è.
I. (Missionario comboniano) Più che discussioni, io sono stato in Amazzonia, in Rondonia, e la deforestazione dell’Amazzonia praticamente è cominciata negli anni ’60. È stato il governo, il governo militare, che ha detto a degli industriali che erano degli altri Stati: “andate in Amazzonia, distruggete e bruciate”. Quando io sono arrivato a Porto Velho la prima volta (con un piccolo aereo, un Piper, quelli da 16 posti, fabbricato in Brasile da Embraer) siamo partiti ad un certo punto l’ultimo tratto, 500 Km, foresta, foresta … Ad un certo punto è apparsa fuori dalla giungla Porto Velho. Dodici anni dopo, il tratto del Ji-Parana che era al centro della Rondonia più o meno (per andare a Porto Velho, nel ’60 era pura foresta) più di metà della foresta era stata bruciata. Nel mese di giugno e luglio tagliavano, tiravano fuori il legname pregiato e nel mese di agosto si bruciava, perché poi in agosto-inizio settembre venivano le piogge.
A mezzogiorno a metà di agosto il sole era una stella rossa e c’era pochissima gente, pochissimi indios che giravano. In poco tempo sono arrivate moltissime persone, che venivano da tutto il resto del Brasile ed il primo giorno che per esempio sono arrivato a Ouro Preto, ho detto Messa la sera, una ragazzina mi ha detto: Padre, tu mi hai battezzato là, nello stato di Espirito Santo, sulla costa. Erano venuti da tutte le parti del Brasile. Il Governo dava un pezzo di terra, apriva un po’ le piste … Il terreno che il Governo dava era 500metri di fronte per due Km di polvere e diceva: tagliate, bruciate … Un altro piccolo episodio. Hanno scelto un Vescovo che era superiore in seminario saveriano. Quando è arrivato a Ji-Parana, davanti alla situazione che era di ingiustizia, di questi fazendeiros che opprimevano la gente, io ho letto il salmo di deprecazione, di maledizione contro questa gente. Ero irrequieto, non mi sentivo più … perché era troppa l’ingiustizia che c’era …
Un giorno abbiamo fatto le nostre riunioni, perché praticamente chi ha evangelizzato la Rondonia sono stati i comboniani. P. Bruno ha conosciuto P. Furlanetto. P. Furlanetto è colui che ha stimolato i comboniani ad andare in Rondonia. In tutte le riunioni con il Vescovo noi abbiamo detto: Eccellenza, alle volte noi facciamo delle cose che sembrano un po’ fuori dai parametri comuni. Se noi Le domandiamo se ci dà il permesso? E lui ci ha risposto: se voi in riunioni decidete che è una cosa importante da fare per il bene del popolo, fatelo e non domandatemi, perché io dovrei dirvi di no.
D. Ecco, chiedo, questo Sinodo ha creato delle perplessità e continuerà a crearle. Però fra queste volevo chiedere un chiarimento su quando ha citato le Chiese vicine alla Chiesa cattolica, le Chiese protestanti. Come è possibile che anche loro possano celebrare l’Eucarestia che non hanno la successione apostolica?
D. Ecco, vorrei chiedere, l’interlocutore del Sinodo. Il Sinodo ha parlato a chi? Alla Chiesa? Alla società civile? Al potere politico? Quale è stato l’interlocutore? Perché io vorrei sapere, queste sfide a chi sono rivolte? Quale è la coscienza presente in questo Sinodo? Ha parlato a quale coscienza? Alla coscienza politica? Religiosa? Cristiana? Quale è stato l’interlocutore?
D. (Gabriele Smussi) Prima si è parlato di “kairos” e volevo ricordare che “Kairos” è il titolo di un documento del 1985 (un esempio della teologia di liberazione nel Sudafrica sotto l’Apartheid sottoscritto da quasi tutte le Chiese presenti nel Paese), nel quale il termine “kairos” è usato per denotare il “tempo designato”, il ”tempo cruciale” in cui il documento viene letto. Io volevo chiedere alcune cose. Una prima cosa relativamente alla presenza dei non credenti. Mi riferisco ad alcune considerazioni di un articolo di Alberto Melloni (La Repubblica, 8.10.2019), il quale per esempio parlava di Carlin Petrini, la cui presenza è stata voluta direttamente dal Papa nell’ambito del Sinodo. In secondo luogo mi chiedevo, di fronte alle proteste giovanili, Melloni insiste sul fatto che esse insistono sul grido della terra, ma non su quello del povero, che spesso viene dimenticato. Nell’ultimo passaggio si è toccato l’aspetto politico. Mi chiedevo: quale è il rapporto del Sinodo rispetto all’amministrazione Trump ed in modo particolare quali sono le sfide che possono essere lanciate alla Chiesa statunitense? Grazie!
D. Io credo che il Sinodo dell’Amazzonia sia una grande utopia, un’utopia però benefica, nel senso che fa camminare la gente e dà alla gente degli ideali. Credo anche che sia una profezia tipica di un Papa che è profetico. Un’utopia può manifestare dei diritti, una profezia può essere inascoltata. È una espressione generica, ma credo che, dopo queste affermazioni, bisogna fare in modo che le idee diventino commissioni di lavoro, e le commissioni di lavoro hanno la capacità di avanzare delle risposte, con un valore consultivo ma anche legislativo. Altrimenti noi facciamo discorsi come la teologia tradizionale, secondo me.
La seconda cosa. Abbiamo parlato di possibile ordinazione di “viri probati” che possono diventare sacerdoti. In Italia e nel mondo sembra che abbiamo circa 10.000 sacerdoti che sono usciti dagli ordini religiosi, e che potrebbero essere benissimo richiamati dentro per rispondere alle nostre necessità. Pavia ha 23 parrocchie senza parroco, il Brasile penso che ne abbia molte di più. E quindi è inutile che chiediamo che mandino operai nella nostra messe, se poi non ci accorgiamo che gli operai ci sono già. L’ultima cosa, in Sudafrica mi sembra che mons. Fritz Lobinger (vescovo emerito di Aliwal in Sudafrica – ndr) abbia scritto dove avanza delle chiare proposte in cui dei preti diocesani possono essere accompagnati da preti sposati. Mi sembra una buona idea. In Sudafrica potrebbe andare bene, però si potrebbe anche sviluppare. Chiedo il vostro parere. Grazie!
Mauro Castagnaro
Allora, da cosa deriva l’avversione al Sinodo? Sicuramente ci sono Governi che possono aver guardato con una certa diffidenza la discussione sinodale. In particolare (è abbastanza noto) il Governo brasiliano aveva chiesto di essere rappresentato al Sinodo, perché rivendica il fatto di non internazionalizzare la questione amazzonica. Però io credo che questa cosa, a mia impressione, ha avuto una abbastanza scarsa influenza. La questione più significativa, secondo me, è la opposizione che c’è dentro la Chiesa. Vediamo se riesco a dirlo in un modo che non offenda nessuno, ma che sia anche abbastanza chiaro. C’è tutto un settore della Chiesa che ha una sua visione della Chiesa, che proietta l’idea della sua esperienza di Chiesa come se fosse universale. C’è una difficoltà a guardare avanti per timore di tradire il passato. In realtà, il risultato è quello di rischiare di fare della Chiesa una specie di museo.
I musei sono belli, sono importanti, ma la vocazione della Chiesa non è quella di essere un museo, è quella di parlare e di essere rilevante per le persone oggi. Se queste sfide, se questi problemi non li affrontiamo, non è che avremo chissà quali conseguenze negative. Se va bene, saremo irrilevanti ed essere irrilevanti non vuol dire avere poteri, vuol dire essere insignificanti. Sono questioni che ci riguardano. Se voi vedete, prendete i sondaggi, le inchieste di opinione, su cosa pensa un cattolico italiano ed un non cattolico italiano su cinquanta temi che scegliete voi (dall’economia alla bioetica, …), il risultato quale è? Che pensano esattamente la stessa cosa. Cioè sostanzialmente l’essere cristiani od il non essere cristiani è irrilevante. Ed è evidente che se una cosa è irrilevante, è sana risposta quella di farne a meno.
Non dico che sia solo questo, intendiamoci, però il problema di fondo che abbiamo davanti (secondo me) soprattutto in Europa, è che noi facciamo molta fatica a presentare alle persone una fede che sia rilevante per la loro vita, cioè che faccia la differenza. Ma se non fa la differenza, è logico che la gente ne faccia a meno, cioè è sensato. Allora, io credo che il problema sia in qualche modo la difficoltà ad accettare di misurarsi con i cambiamenti. È un po’ la parabola dei talenti. Non è che quello che seppellisce il talento era cattivo. Non era cattivo, aveva paura. Questo è il problema di fondo che si oppone ai tentativi di cambiare alcune cose. È la paura, questo è il problema, non è la cattiveria. Ma se non ci si libera dalla paura si finisce come quello che alla fine il talento lo restituisce: io te l’ho dato come me l’hai dato, quello che ho ricevuto te lo restituisco uguale, più fedele di così … Questa è la prima cosa.
Poi forse io non mi sono espresso bene sulla questione della possibilità che i Pastori celebrino la Messa, perché quella era una situazione specifica dell’Australia, non è un tema che è emerso in Amazzonia questo, anche se (siccome nel 2020, ad ottobre, comincerà un Concilio plenario della Chiesa australiana) sarà utile tenere conto di questo. Dopodiché, intanto vorrei dire che la questione della successione apostolica non è esattamente, ugualmente compresa nella Chiesa cattolica e nelle Chiese protestanti, perché anche le Chiese protestanti rivendicano una successione apostolica. Ma il problema è che la successione non è una successione diciamo fisica, perché poi alcuni dicono che bisognerebbe davvero andare a vedere se non ci sono Padri (soprattutto nella Chiesa primitiva) in cui questa successione fisica si è interrotta. Ma il tema è che per esempio quando parliamo degli anglicani è diverso quando ragioniamo sulla loro concezione del ministero, e quindi della successione apostolica, rispetto a Chiese congregazioniste (come sarebbero certe Chiese pentecostali). Ci sono Chiese nel mondo protestante che sono Chiese episcopali, cioè hanno l’episcopato anche se non secondo la visione cattolica come lo intendiamo noi, ed altre invece che non lo hanno. Quindi il tema poi è complicato.
La questione di chi è stato l’interlocutore del Sinodo. Io credo che l’interlocutore del Sinodo prima di tutto sia stata la Chiesa. Siamo noi gli interlocutori del Sinodo, la Chiesa cattolica, un miliardo e duecento milioni di persone che si dicono cattolici nel mondo. Poi certo, c’è un messaggio anche ai popoli indigeni, si dice: guardate, noi vogliamo stare con voi. C’è un messaggio alle autorità politiche: bisogna cambiare alcune cose. Ma prima di tutto la mia impressione, per rispondere a questa domanda, gli interlocutori siamo noi, si parla a noi. La questione del rapporto con il movimento di Greta, “Frydays for future”. Il Papa ne parla sempre in maniera molto positiva ed anche al Sinodo ha detto che questa cosa è importante. Però qualcuno dice che non hanno il livello di coscienza che abbiamo noi, sono troppo sul versante ambientalista e poco sul versante dei poveri. Tutto vero, ma stiamo parlando di una roba che intanto noi non facciamo (o facciamo molto poco).
Loro ci provano, con l’età che hanno, quindi diamogli tempo. Io vedo sinceramente solo cose positive in questa cosa ed il fatto che ci sia un attacco un po’ cattivo nei confronti di questa ragazzina, francamente lo trovo un segno che questa qui sta veramente facendo qualcosa di straordinario. Una ragazzina autistica. Io ho una amica che ha due figli autistici, dirle che questa ragazzina fa queste cose e dice queste cose è una cosa straordinaria, è una cosa che gonfia il cuore. La questione delle proposte concrete, che bisogna arrivare a delle proposte concrete. Qualcosa c’è nel documento, per esempio si dice che la Chiesa amazzonica deve creare un osservatorio che monitori i progetti legati alla distruzione dell’ambiente. Il documento dice: La Chiesa deve appoggiare e cominciare essa stessa dalle sue strutture a disinvestire i propri soldi (e quindi appoggiare le campagne di disinvestimento) dalle compagnie minerarie. Ci sono delle cose concrete. Certo, molte poi vanno specificate, ma molte ci sono già, non è che bisogna inventare qualsiasi cosa.
L’ultima cosa su ordinare i “viri probati”. Ci sono già i preti sposati, che tra l’altro non sono 10.000, sono 100.000 nel mondo, sono il 20% di tutto il clero della Chiesa cattolica di rito latino. 400.000, diciamo, sono in servizio ed altri 100.000 no. Sì, alcune Conferenze Episcopali hanno in varie fasi chiesto questo. Non è venuta molto fuori al Sinodo questa cosa, devo dire. In alcune consultazioni della base è venuto fuori. In Amazzonia il livello di coinvolgimento nella pastorale di preti che sono stati costretti ad abbandonare il presbiterato perché si sono sposati è molto più elevato. Sì, ci sono leader di comunità che magari non celebrano l’Eucarestia, però sono professori universitari in Università cattoliche, perché su questo i Vescovi si sono resi conto che … Ed hanno anche resistito in certe fasi alle pressioni di Roma, che per esempio aveva chiesto di allontanare, che nelle Università cattoliche non ci dovevano essere persone che erano state presbitere. Però è un tema che sicuramente … Il tema dei ministeri è un tema in Amazzonia, ma non solo in Amazzonia. L’anno venturo avremo tre Chiese locali (Germania, Svizzera e Australia) che avranno dei processi sinodali (magari non lo chiameranno Sinodo, però …) in cui questo tema dei ministeri sarà uno dei temi fondamentali ed il tema del ministero delle donne sarà probabilmente il tema. Vuoi dire qualcosa tu, Mattia?
Mattia Prayer
Beh, intanto quello che dico io ha un taglio diverso, ha un taglio diciamo più laico. Come organizzazioni internazionali, secondo me, abbiamo tre sfide al momento nel mondo. Una è il cambiamento climatico, l’altra è la perdita della biodiversità (e sono dei drammi veri, che impatteranno soprattutto le generazioni future) ed il terzo è quello dell’aumento veloce delle diseguaglianze nel mondo, dove gli interessi che vengono protetti sono gli interessi di pochi. OXFAM ogni anno viene fuori con i suoi rapporti, dove il numero dei ricchissimi che controllano il 50% della ricchezza mondiale diminuisce sempre di più (parliamo di dieci persone che hanno …). Di fronte a queste sfide, avere un Pontificato così profetico, che non si preoccupa di parlare solo all’interno della Chiesa, ma si preoccupa di parlare al mondo, è importantissimo. L’enciclica “Laudato si’” non è un’enciclica per la Chiesa, è un’enciclica per il mondo, è una cosa straordinaria.
È ovvio che c’è chi pensa che invece il compito sia magari di guardarsi dentro, ma il mondo attorno a noi cambia ad una velocità tale che anche le nostre organizzazioni (che non sono la Chiesa) si pongono il problema di quanto noi dobbiamo cambiare per seguire i cambiamenti del mondo. Il fatto che se ne occupino le generazioni che verranno poi impattate, le generazioni di Greta, questa è una benedizione. Meno male che iniziano ad alzare la voce, meno male. La preoccupazione principale era che questo non avveniva, che questa fosse una generazione un po’ anestetizzata. I problemi, i movimenti degli anni ’60, ’68 e tutto quanto sono venuti fuori in un contesto che, rispetto alle problematiche di adesso, era molto più agevole. Meno male che adesso alzano la voce!
Non solo, il problema delle diseguaglianze (adesso parlo come economista). Siamo a livello di ineguaglianze pari al pre-crisi del ’29, che poi ha scatenato una crisi globale, però c’è una differenza. Allora le ineguaglianze erano in un mondo economico dove i bisogni ancora non erano saturi, dove c’era davvero il problema di aumentare la produzione. Ora abbiamo di tutto e di più, soprattutto a livello alimentare noi abbiamo più del 30% della produzione mondiale che viene sprecata. Questi sono scandali ed è qui che l’azione politica manca, è qui che bisogna fare un intervento multilaterale, è qui che non abbiamo le istituzione di governance mondiale. Sono problematiche incredibili ed un Pontefice che riesce ad avere questa visione è una benedizione. E il fatto che lui inviti persone come Petrini (ma non solo, come Jeffrey Sachs, come altri, che non si dichiarano credenti, e tutto questo è pubblico, fra l’altro, non è che viene nascosto), anche questa è una grandezza. Sono d’accordo con la descrizione che chi è profetico spesso è inascoltato, ma anche qui (uscendo fuori dal campo della Chiesa), semplicemente ricordo una bellissima frase di Gandhi. E Gandhi diceva, a proposito delle sue lotte:
Quando inizio una lotta, vengo inascoltato. Poi dopo un po’ vengo ridicolizzato, poi dopo un po’ vengo combattuto, però alla fine ho dimostrato che posso vincere”.
Speriamo che sia la stessa cosa con il grande papa Francesco.
I. (P. Toffari) È stato bello ed anche stimolante, spero di vivere ancora qualche anno per imparare qualcosa. Però ho un paio di problemini, li butto là come sacerdote, come uomo che ha vissuto con gli italiani emigrati. Lancio alcune provocazioni. Premessa, ma è ovvio che si attacchi il Sinodo. Quello che avete detto voi, Lei ha detto che stiamo vivendo una vita impossibile, il che significa che dobbiamo cambiare. Quelli che riteniamo bisogni sono indotti e questo non va bene, va detto ai cittadini italiani, ai fedeli. Quindi la profezia fa parte del gioco. Ma io credo che l’accusa che ci fanno, unica da tenere presente, è di non dimenticarci la dimensione escatologica. Cioè mentre noi costruiamo questo, non perseguiamo soltanto la civiltà umana, ma cerchiamo di costruire quello che sarà il Regno dei cieli, là dove c’è la comunione totale con Dio e con tutti. Questo elemento escatologico continua a sparire, cioè sicuramente è sottointeso (se poi leggiamo profondamente il Papa, il Papa è esplicito), ma sicuramente anche noi nel modo di esprimerci tante volte … Mi viene da dire che non mi viene voglia di prendere la tessera di un partito, credo di poter costruire questo Regno all’interno di quella connessione nostra con il mondo, che non solo non è finita, ma non finirà. Questo è un punto che io trovo sempre sotto le linee.
La seconda cosa, prendiamo atto tranquillamente. C’è una pagine di un ‘intervista che Prado ha fatto a Papa Francesco (che potete trovare in Internet) secondo il quale esiste una teologia dei ministeri, esiste una teologia dell’Africa, esiste una teologia della liberazione. Esistono teologie varie. Io credo che l’unità non ci faccia diventare tutti di una stessa teologia. L’unità va fatta, ma non si può neanche prendere il modello diciamo ortodosso ed applicarlo tout court, perché loro dicono: noi ci incontriamo quando ci chiamate voi. Non si incontrano tra loro. Prendere atto di questo vorrebbe dire anche semplicemente dateci anche credito di un nuovo discernimento, dove il Papa insiste molto. Perché prendiamo un po’ i preti sposati, perché questi sacerdoti sono usciti? Io ho dei confratelli che metterei come parroco subito. Ne ho altri per i quali probabilmente direi: ringraziamo il Signore che hanno trovato qualcuno, la loro strada. Discernimento vorrebbe dire anche qui andare … Se non ho letto male il documento, si parlava di “viri probati”, di diaconi, in modo che abbiano già fatto un’esperienza. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che promuovo diacono quando ha fatto tre-quattro anni di esperienza, so chi sono, sono “viri probati”, diventano preti. Quindi è intelligenza.
Poi, a questo punto l’immigrazione, questo grido che continua a farci il Papa (accogliere, integrare, …) ci riguarda. Io devo chiedere all’industria che dia posti di lavoro e che quindi aumenti la produzione per poter accogliere questa gente, non posso chiederlo solo alla Chiesa. L’immigrazione, che viene vista come una necessità, se è una fuga dalla guerra bisogna rispondere con i diritti (non volevo far politica e non la faccio). Ma il punto fondamentale è questo. Ho capito che chi viene dalla guerra, dalla persecuzione, dalle botte, per carità, ponti d’oro … Ma la cosiddetta emigrazione economica dove va? Non va certo in Amazzonia, a meno che gli si dia la terra, diventa proprietà privata e fanno quello che vogliono. Va a cercare i posti, va in Germania, va in Svizzera, dove siamo andati anche noi. Va in Brasile. Noi siamo andati, ma quando? Nel 1987! Ma cosa ci davano? Noi li abbiam seguiti … L’emigrazione viene vista come la promozione di una società del genere. Bisogna un po’ far saltare tutte queste cose qua. Il fatto di dire, per esempio, aiutiamoli là dove sono, ma non con lo slogan di chi vuole tenere la sua ricchezza e ti aiuta là. Si deve porsi allora un sistema diverso. Quindi io mi trovo in questo momento, questa sera, non saprei più dirvi cosa dire dell’emigrazione. Per carità, sono sempre là a casa mia … Però credo che questi problemi qui si dovrebbero analizzare … Io sono un po’ ignorante, però …
Mauro Castagnaro
C’erano forse ancora delle domande. Ne raccogliamo due … Questo della riflessione escatologica, partiamo da lì. Noi stiamo arrivando alla fine dell’anno liturgico, in cui leggiamo esattamente le letture che riguardano un po’ i tempi ultimi. Mi viene da dire questo. Domenica abbiamo letto: io sono il Dio dei viventi, non il Dio dei morti … Che cosa possiamo fare noi di diverso che occuparci di rendere questo mondo più decente e quindi costruire, cominciare a costruire quello che è possibile qui del regno? Che cosa possiamo fare oltre a questo? Cioè, la dimensione escatologica è semplicemente una sorta di afflato spirituale, è una sorta di consapevolezza del limite, è una sorta di visione del fatto che non tutto dipende da noi? Anche questo elemento, io credo che noi dobbiamo trovare il modo di dirlo in una maniera che sia intellegibile per noi. Io credo che semplicemente dire: noi occupiamoci semplicemente dell’attualità, però teniamoci sempre aperti che c’è un oltre … Benissimo, si può fare, non fa problema, ma perché non cambia rispetto a quello che facciamo concretamente …
I. (P. Toffari) Il difficile è l’integrarsi, i nemici di quelli che arrivano adesso sono gli immigrati regolari. Il problema dell’escatologia, secondo me, è di stare attenti ai problemi reali, quando poi questa gente l’avrà in mano questa Terra, questa è l’escatologia che porta a vivere adesso quello che vivremo …
Mauro Castagnaro
Per carità, la dimensione di limitatezza o di limite dell’uomo, certo, sono d’accordo. Però io credo che l’elemento fondamentale della dimensione escatologica sia certamente di cogliere il limite, ma mi viene da dire: mi preoccupo di più dell’oggi, che di quello che sarà dopo, che non dipende un granché da me. Comunque questa è una discussione che va molto oltre l’Amazzonia. Seconda questione. Io sono molto d’accordo sul fatto che noi dobbiamo abituarci, molto più che in passato, a riconoscere la contestualità delle nostre elaborazioni teologiche, nel senso che di fatto è sempre stato così, perché non a caso ci sono quattro Vangeli e non ce n’è uno solo. Perché si tratta di ridire alcune cose a comunità che hanno culture diverse, esperienze diverse, problemi diversi … Quindi se la teologia non vuole essere pura speculazione, nel senso di puro discorso astratto (e quindi alla fine essere irrilevante, o meglio un meccanismo che nelle mani del potere, in questo caso religioso, costringe), allora l’unica possibilità per interloquire è quella di leggere la presenza di Dio nei diversi contesti che ci sono, con le diverse culture, con le realtà sociali e con il momento storico in cui ci si trova.
La terza questione, quella del progetto economico, la lascio a Mattia, mi piacerebbe rispondere, ma mi sembra giusto. Però volevo dire questa cosa. È vero, il Sinodo dice di ordinare presbiteri dei diaconi sposati. Secondo me questa cosa in Amazzonia non c’è, cioè l’esperienza dell’Amazzonia è molto più simile a quello che citava Lobinger. Non so chi citava Lobinger prima. Io, tra l’altro, sono quello che ha spinto perché si traducesse in Italia il libro di Lobinger (che tra l’altro non è neanche l’ultimo), però qual è la situazione? Questo discorso varrebbe molto per esempio in un contesto come quello della zona Maya (cioè della zona Messico Centroamericana) dove ci sono diaconi, diaconi indigeni permanenti, a cui manca solo l’ordinazione presbiterale per poter celebrare la Messa. Hanno già quel ruolo, di fatto, nelle loro comunità che è questo.
Nelle comunità amazzoniche la figura del diacono è molto meno diffusa, ma ci sono leader (come anche in Africa, per esempio), leader che sono laici, sono catechisti, sono animatori (hanno diversi nomi) che sono già pronti, fanno già quello che …, hanno già anni di esperienza. Secondo me l’idea di fargli fare anche un passaggio di diaconato, quindi in qualche modo ricondurli ad una formazione accademica (seppur pensata in loco) e poi a quel punto ordinarli è una operazione di trasposizione in Amazzonia di esperienze che ci sono in altre parti dell’America Latina. Io credo che lì la strada sia molto più quella di ordinare uomini probati, laici, che fino ad ieri erano laici …
D. (P. Toffari) Chiederei di capire cosa intendi tu per prete e cosa intende poi la Chiesa della tua diversità. Se non arriva quel discernimento, prendiamo uno di prima ed uno di dopo, ci son visioni diverse. Questo prete che deve nascere in Amazzonia che caratteristiche deve avere? Perché questo lo risolvono in qualche modo.
Mauro Castagnaro
Certo, su questo c’è già una discussione avviata, ci sono già teologi che hanno ragionato su questo …
D. (P. Toffari) La confessione auricolare ed il problema del celibato è abbastanza complesso. Tu non lo vedi, ma te lo dico io. Io sono il primo già a predicarlo, a dire che è più importante l’Eucarestia del celibato, punto e a capo. Ma finché rimane il prete direttore spirituale, amico, … vorrei vedere se tu stai con una persona un’ora cosa dice tua moglie. Voglio dire, attenzione che ci sono dei risvolti. Cosa deve fare questo prete? Giustamente, va ammesso il reclamo, il discernimento (su cui insiste papa Francesco) di queste cose. La Chiesa che vuoi tu, e che penso anch’io, determina il suo pastore …
Mattia Payer
Sulla questione dell’immigrazione, dell’integrazione, del bisogno di avere un lavoro e sul fatto che i primi ad essere contro gli immigrati sono quelli che si sono appena regolarizzati, queste sono questioni che viviamo tutti noi tutti giorni e sentiamo tutta la retorica possibile ed immaginabile. Direi che anche in questo caso, vedendo il problema un po’ dall’alto (quindi prendendo la prospettiva dell’elicottero) e vedere che il problema in realtà ha delle radici comuni forse può aiutare. Questo senza voler insegnare niente a nessuno, per carità. Il discorso è che siamo in una situazione dove il mercato del lavoro, il problema è la presenza del lavoro. Tra l’altro, in un’ottica di un immediato futuro con l’arrivo dell’intelligenza artificiale (abbiamo già la robotica, abbiamo già tutto quanto) cambierà ulteriormente.
Però siamo in una situazione di saturazione dei bisogni. Lo sappiamo, tutti abbiamo una macchina, tutti abbiamo dieci televisori, quarantacinque telefonini e tutto quanto, arriva Natale e di nuovo siamo a pensare: ma che cosa posso regalare che già non ha? È giusto? Siamo nella stessa situazione? Il discorso di nuovo è una vera sfida, così come la sfida del cambiamento climatico e della biodiversità. Sono sfide enormi, però se c’è una soluzione è una soluzione di politica, di pensare come redistribuire la ricchezza. Il nemico non è il tuo vicino di casa, quello che ha ancora meno tutele di te. Il nemico è chi concentra tutta la ricchezza. E come fare per far leva su queste cose? Se uno crede nell’impegno politico, nella democrazia, nel fatto che alla fine gli interessi dei molti prevarranno sugli interessi di pochi, di sicuro la prima cosa è la consapevolezza dei problemi ed evitare di cadere in queste retoriche, evitare di essere vittime di questa fabbrica della paura, evitare di mettersi gli uni contro gli altri. Questo è il punto di partenza, ma è ovvio che la sfida è grossa. Non penso di dover aggiungere altro.
P. Girolamo Miante
Il tempo passa. Grazie di cuore a don Roberto, a Mauro, a Mattia, per questa panoramica del Sinodo ma anche di realtà che ci sfidano oggi, che riguardano non solo una parte del mondo ma tutti noi. Tre cose che vi ricordo. La prima, c’è una mostra, “Il grido dell’Amazzonia”, il discorso continua, presso i Saveriani, a S. Cristo, dal 28 di novembre fino al 29 di marzo. Quindi c’è tempo per poter visitare questa mostra. Il secondo appuntamento dei Giovedì della Missione, 12 dicembre, “Modalità e strumenti per una nuova presenza missionaria della Chiesa in Italia”. Due esperienze, don Giusto Della Valle (un prete della Diocesi di Como), parroco di Rebbio. La sua canonica è aperta a tutti, migranti, richiedenti asilo, ed ascolteremo la sua testimonianza. E poi P. Daniele Boschetti, comboniano, che fa parte dell’equipe a Castel Volturno, Castel Volturno ritorna spesso anche alla Televisione. Domani a Brescia si inaugura la terza edizione del Festival della Pace e sul tavolo trovate dei dépliant con tutto il programma da domani fino al 30 di novembre. Ci sono un sacco di proposte, di iniziative … Grazie ed arrivederci alla prossima puntata.
(trascrizione registrazioni a cura di Gabriele Smussi)



Domenica 22 Dicembre,2019 Ore: 19:48
 
 
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La chiesa di Papa Francesco

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