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www.ildialogo.org  L'AMORE AL TEMPO DI MULLER (E DI PAPA FRANCESCO): "LA FORZA DELLA GRAZIA" DI COSTANTINO! L'intervento del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sull'indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti - con note ,a c, di Federico La Sala

CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST") E CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno (nemmeno Papa Francesco) ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
 L'AMORE AL TEMPO DI MULLER (E DI PAPA FRANCESCO): "LA FORZA DELLA GRAZIA" DI COSTANTINO! L'intervento del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sull'indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti - con note 

a c, di Federico La Sala

NOTE DI PREMESSA:   

LA "LUMEN FIDEI" DI RATZINGER E LA "LAMPEDUSA" DI FRANCESCO: LA REGIA E LO SPETTACOLO DI UNA SOLA FEDE. Una domanda

​CIVILTA’ DELL’AMORE E VOLONTA’ DI GUERRA. DOPO GIOVANNI PAOLO II, IL VATICANO SOPRA TUTTO E CONTRO TUTTI. Il "peccato originale" e la "mala fede" antropo-teo-logica di Papa Ratzinger.

COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). (fls)

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La forza della grazia

di Gerhard Ludwig Müller (L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2013)

 

Dopo l’annuncio di un sinodo straordinario che si terrà nell’ottobre del 2014 sulla pastorale della famiglia, si sono succeduti interventi diversi, in particolare circa la questione dei fedeli divorziati risposati. Per approfondire con serenità il tema, che è sempre più urgente, dell’accompagnamento pastorale di questi fedeli in coerenza con la dottrina cattolica, pubblichiamo un ampio contributo dell’arcivescovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

 

Lo studio della problematica dei fedeli che hanno contratto un nuovo legame civile dopo un divorzio non è nuovo ed è sempre stato condotto con grande serietà dalla Chiesa con l’intento di aiutare le persone coinvolte, dal momento che il matrimonio è un sacramento che raggiunge in maniera particolarmente profonda la realtà personale, sociale e storica dell’uomo. Dato il crescente numero di persone coinvolte nei Paesi di antica tradizione cristiana si tratta di un problema pastorale di vasta portata.

Oggi i credenti si chiedono molto seriamente: non può la Chiesa consentire, a determinate condizioni, l’accesso ai sacramenti per i fedeli divorziati risposati? Rispetto a tale questione la Chiesa ha le mani legate per sempre? I teologi hanno davvero considerato tutte le implicazioni e le conseguenze in merito a questa materia?

Tali questioni devono essere trattate in conformità con la dottrina cattolica sul matrimonio. Una pastorale pienamente responsabile presuppone una teologia che si abbandoni a Dio che si rivela "prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa" (concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Dei verbum, n. 5). Per rendere comprensibile l’autentico insegnamento della Chiesa dobbiamo procedere a partire dalla Parola di Dio che è contenuta nella Sacra Scrittura, illustrata nella Tradizione della Chiesa e interpretata in maniera vincolante dal Magistero.

La testimonianza della Scrittura

Non è scevro di problematicità il fatto di porre immediatamente la nostra questione nell’ambito dell’Antico Testamento, in quanto il matrimonio non era ancora considerato allora come un sacramento. La Parola di Dio nell’Antico Testamento è tuttavia significativa rispetto a ciò anche per noi, dal momento che Gesù si colloca in questa tradizione e argomenta a partire da essa.

Nel Decalogo si trova il comandamento "Non commettere adulterio" (Esodo, 20, 14), ma altrove il divorzio è considerato possibile. Secondo Deuteronomio, 24, 1-4, Mosè stabilisce che un uomo può rilasciare alla moglie un libello di ripudio e la può mandar via dalla sua casa se questa non trova più grazia ai suoi occhi. In conseguenza di ciò, l’uomo e la donna possono risposarsi.

Accanto alla concessione del divorzio, tuttavia, nell’Antico Testamento si trova anche un certo disagio verso questa prassi. Come l’ideale della monogamia, così anche l’ideale della indissolubilità viene compreso nel confronto che i profeti istituiscono tra l’alleanza di Jahwè con Israele e il legame matrimoniale. Il profeta Malachia esprime con chiarezza tutto ciò: "Nessuno tradisca la donna della sua giovinezza (...) la donna legata a te da un patto" (Malachia, 2, 14-15).

Furono soprattutto le controversie con i farisei a dare a Gesù l’occasione di occuparsi del tema. Egli prese espressamente le distanze dalla prassi veterotestamentaria del divorzio, che Mosè aveva permesso a causa della "durezza del cuore" degli uomini, e rinviò invece alla volontà originaria di Dio: "Ma all’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola (...) Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto" (Marco, 10, 5-9; cfr. Matteo, 19, 4-9; Luca, 16, 18). La Chiesa cattolica, nel suo insegnamento e nella sua prassi, si è costantemente riferita alle parole di Gesù sulla indissolubilità del matrimonio. Il patto che unisce intimamente e reciprocamente i due coniugi è istituito da Dio stesso. Si tratta quindi di una realtà che viene da Dio e non è più nella disponibilità degli uomini.

Oggi, alcuni esegeti affermano che questi detti del Signore avrebbero riscontrato già nei tempi apostolici una certa flessibilità nell’applicazione: e precisamente, nel caso della pornèia (fornicazione, cfr. Matteo, 5, 32; 19, 9) e nel caso della separazione tra un partner cristiano e uno non cristiano (cfr. 1 Corinzi, 7, 12-15). Le clausole sulla fornicazione sono state oggetto di controversa discussione fin da subito in campo esegetico. Molti sono convinti che non si tratti di eccezioni rispetto all’indissolubilità del matrimonio, ma piuttosto di legami matrimoniali invalidi. In ogni caso, la Chiesa non può basare la sua dottrina e la sua prassi su ipotesi esegetiche controverse.

Essa si deve attenere al chiaro insegnamento di Cristo. Paolo stabilisce che il divieto di divorzio è un’espressa volontà di Cristo: "Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi rimanga senza sposarsi o si riconcili col marito - e il marito non ripudi la moglie" (1 Corinzi, 7, 10-11). Allo stesso tempo, basandosi sulla propria autorità, Paolo concede che un non cristiano possa separarsi dal suo partner diventato cristiano. In questo caso il cristiano non è più "soggetto a schiavitù", non è più costretto cioè a rimanere non-sposato (1 Corinzi, 7, 12-16).

A partire da questa posizione, la Chiesa ha riconosciuto che solo il matrimonio tra un uomo e una donna battezzati è sacramento in senso proprio e solo per questi vale l’indissolubilità incondizionata. Il matrimonio dei non battezzati è infatti ordinato all’indissolubilità, ma può comunque essere sciolto in determinate circostanze - a causa di un maggior bene (privilegium Paulinum). Non si tratta dunque di una eccezione al detto del Signore: l’indissolubilità del matrimonio sacramentale, del matrimonio nell’ambito del mistero di Cristo, rimane.

Di grande significato per il fondamento biblico della comprensione sacramentale del matrimonio è la Lettera agli Efesini, in cui si afferma: "Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (5, 25). E un po’ oltre l’Apostolo scrive: "Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una carne sola. Questo è un grande mistero; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa" (5, 31-32). Il matrimonio cristiano è un segno efficace dell’alleanza di Cristo e della Chiesa. Il matrimonio tra battezzati è un sacramento perché contrassegna e media la grazia di questo patto.

La testimonianza della Tradizione della Chiesa

I Padri della Chiesa e i concili costituiscono successivamente una importante testimonianza per lo sviluppo della posizione ecclesiastica. Secondo i Padri le istruzioni bibliche sono vincolanti. Essi ricusano le leggi civili sul divorzio ritenendole incompatibili con la richiesta di Gesù. La Chiesa dei Padri, in obbedienza al Vangelo, ha respinto il divorzio e il secondo matrimonio; rispetto a tale questione la testimonianza dei Padri è inequivocabile. Nell’epoca patristica i credenti separati che si erano risposati civilmente non venivano riammessi ai sacramenti nemmeno dopo un periodo di penitenza. Alcuni testi patristici lasciano intendere che gli abusi non venivano sempre rigorosamente respinti e che a volte sono state cercate soluzioni pastorali per rarissimi casi limite.

Più tardi e in alcune zone, soprattutto a causa della crescente interdipendenza tra Chiesa e Stato, si pervenne a più grandi compromessi. In oriente questo sviluppo ha proseguito il suo corso e ha portato, soprattutto dopo la separazione dalla cattedra di Pietro, a una prassi sempre più liberale. Oggi nelle Chiese ortodosse esiste una varietà di cause per il divorzio, che sono solitamente giustificate con riferimento alla oikonomìa, la clemenza pastorale per i singoli casi difficili, e aprono la strada a un secondo o terzo matrimonio con carattere penitenziale. Questa prassi non è coerente con la volontà di Dio, chiaramente espressa dalle parole di Gesù sulla indissolubilità del matrimonio, e ciò rappresenta certamente una questione ecumenica da non sottovalutare.

In occidente, la riforma gregoriana ha contrastato le tendenze di liberalizzazione e ha riproposto l’originaria concezione delle Scritture e dei Padri. La Chiesa cattolica ha difeso l’assoluta indissolubilità del matrimonio anche a costo di grandi sacrifici e sofferenze. Lo scisma della "Chiesa di Inghilterra", separatasi dal successore di Pietro, è avvenuto non a causa di differenze dottrinali, ma perché il Papa, in obbedienza alla parola di Gesù, non poteva assecondare la richiesta del re Enrico VIII circa lo scioglimento del suo matrimonio.

Il concilio di Trento ha confermato la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale e ha chiarito che essa corrisponde all’insegnamento del Vangelo (cfr. Denzinger-Hünermann, 1807). Talvolta si sostiene che la Chiesa abbia di fatto tollerato la pratica orientale, ma ciò non corrisponde al vero. I canonisti hanno sempre parlato di una prassi abusiva, e vi sono testimonianze circa alcuni gruppi di cristiani ortodossi che, divenuti cattolici, dovettero firmare una confessione di fede in cui si faceva esplicito riferimento alla impossibilità della celebrazione di seconde o terze nozze.

Il concilio Vaticano II ha riproposto una dottrina teologicamente e spiritualmente profonda del matrimonio nella costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, esponendo con chiarezza anche il principio della sua indissolubilità. Il matrimonio è inteso come una completa comunione corporale e spirituale di vita e di amore tra uomo e donna, che si donano e si accolgono l’un l’altro in quanto persone. Attraverso l’atto personale e libero del reciproco consenso viene fondata per diritto divino un’istituzione stabile, ordinata al bene dei coniugi e della prole, e non dipendente dall’arbitrio dell’uomo: "Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l’indissolubile unità" (n. 48).

Per mezzo del sacramento Dio concede ai coniugi una grazia speciale: "Infatti, come un tempo Dio ha preso l’iniziativa di un’alleanza di amore e fedeltà con il suo popolo così ora il salvatore degli uomini e sposo della Chiesa viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa, così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione" (ibidem).

Mediante il sacramento l’indissolubilità del matrimonio racchiude un nuovo, più profondo significato: essa diventa l’immagine dell’amore di Dio per il suo popolo e della fedeltà irrevocabile di Cristo alla sua Chiesa. È possibile comprendere e vivere il matrimonio come sacramento solo nell’ambito del mistero di Cristo. Se si secolarizza il matrimonio o se lo si considera come realtà puramente naturale rimane come impedito l’accesso alla sua sacramentalità. Il matrimonio sacramentale appartiene all’ordine della grazia e viene inserito nella definitiva comunione di amore di Cristo con la sua Chiesa. I cristiani sono chiamati a vivere il loro matrimonio nell’orizzonte escatologico della venuta del regno di Dio in Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato.

La testimonianza del Magistero in epoca recente

Con il testo tutt’oggi fondamentale dell’esortazione apostolica Familiaris consortio, pubblicata da Giovanni Paolo II il 22 novembre 1981 dopo il Sinodo dei vescovi sulla famiglia cristiana nel mondo contemporaneo, è stato espressamente confermato l’insegnamento dogmatico della Chiesa sul matrimonio. Dal punto di vista pastorale l’esortazione post-sinodale si è occupata anche della cura dei fedeli risposati con rito civile, ma che sono ancora vincolati da un matrimonio valido per la Chiesa. Il Papa ha dimostrato un’alta misura di premura e di attenzione.

Al n. 84 ("I divorziati risposati") vengono esposti i seguenti principi: 
-  1. I pastori in cura d’anime sono obbligati per amore della verità "a ben discernere le diverse situazioni". Non è possibile valutare tutto e tutti allo stesso modo. 
-  2. I pastori e le comunità sono tenuti ad aiutare "con sollecita carità" i fedeli interessati; anch’essi infatti appartengono alla Chiesa, hanno il diritto alla cura pastorale e devono poter partecipare alla vita della Chiesa. 
-  3. L’ammissione all’eucaristia non può tuttavia essere loro concessa. In relazione a questo viene addotto un duplice motivo: a) "il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia"; b) "se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio". Una riconciliazione mediante il sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo sulla base del pentimento rispetto a quanto accaduto, e sulla disponibilità "a una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio". Ciò comporta, in concreto, che quando la nuova unione non può essere sciolta per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - entrambi i partner "assumono l’impegno di vivere in piena continenza".

-  4. Per motivi teologico-sacramentali, e non per una costrizione legalistica, al clero è espressamente fatto divieto, fintanto che sussiste la validità del primo matrimonio, di porre in atto "cerimonie di qualsiasi genere" a favore dei divorziati che si risposano civilmente.

La Lettera della Congregazione per la dottrina della fede circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 ha confermato che la prassi della Chiesa su questo tema "non può essere modificata in base alle differenti situazioni" (n. 5). Si chiarisce, inoltre, che i credenti interessati non devono accostarsi alla santa Comunione sulla base del loro giudizio di coscienza: "Qualora egli lo giudicasse possibile, i pastori e i confessori (...) hanno il grave dovere di ammonirlo che tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa" (n. 6). In caso di dubbi circa la validità di un matrimonio fallito, questi devono essere verificati dagli organi giudiziari competenti in materia matrimoniale (cfr. n. 9). Rimane di fondamentale importanza fare "con sollecita carità tutto quanto può fortificare nell’amore di Cristo e della Chiesa i fedeli che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. Solo così sarà possibile per loro accogliere pienamente il messaggio del matrimonio cristiano e sopportare nella fede la sofferenza della loro situazione. Nell’azione pastorale si dovrà compiere ogni sforzo perché venga compreso bene che non si tratta di nessuna discriminazione, ma soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo che ci ha ridato e nuovamente affidato l’indissolubilità del matrimonio come dono del Creatore" (n. 10).

Nell’esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis del 22 febbraio 2007 Benedetto XVI riprende e rilancia il lavoro del precedente sinodo dei vescovi sull’eucaristia. Egli giunge a parlare della situazione dei fedeli divorziati risposati al n. 29, ove non esita a definirla "un problema pastorale spinoso e complesso". Benedetto XVI ribadisce "la prassi della Chiesa, fondata sulla Sacra Scrittura (cfr. Marco, 10, 2-12), di non ammettere ai Sacramenti i divorziati risposati", ma scongiura addirittura i pastori a dedicare "speciale attenzione" nei confronti delle persone interessate "nel desiderio che coltivino, per quanto possibile, uno stile cristiano di vita attraverso la partecipazione alla santa messa, pur senza ricevere la comunione, l’ascolto della Parola di Dio, l’adorazione eucaristica, la preghiera, la partecipazione alla vita comunitaria, il dialogo confidente con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, la dedizione alla carità vissuta, le opere di penitenza, l’impegno educativo verso i figli". Viene ribadito che, in caso di dubbi circa la validità della comunione di vita matrimoniale che si è interrotta, questi devono essere esaminati attentamente dai tribunali competenti in materia matrimoniale.

La mentalità contemporanea si pone piuttosto in contrasto con la comprensione cristiana del matrimonio, specialmente rispetto alla sua indissolubilità e all’apertura alla vita. Poiché molti cristiani sono influenzati da tale contesto culturale, i matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato, perché è mancante la volontà di sposarsi secondo il senso della dottrina matrimoniale cattolica e anche l’appartenenza a un contesto vitale di fede è molto ridotta. Pertanto, una verifica della validità del matrimonio è importante e può portare a una soluzione dei problemi.

Laddove non è possibile riscontrare una nullità del matrimonio, è possibile l’assoluzione e la comunione eucaristica se si segue l’approvata prassi ecclesiale che stabilisce di vivere insieme "come amici, come fratello e sorella". Le benedizioni di legami irregolari sono "da evitare in ogni caso (...) perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del matrimonio". La benedizione (bene-dictio: approvazione da parte di Dio) di un rapporto che si contrappone alla volontà divina è da ritenersi una contraddizione in sé.

Nell’omelia pronunciata a Milano il 3 giugno 2012, in occasione del settimo Incontro mondiale delle famiglie, Benedetto XVI è tornato a parlare di questo doloroso problema: "Una parola vorrei dedicarla anche ai fedeli che, pur condividendo gli insegnamenti della Chiesa sulla famiglia, sono segnati da esperienze dolorose di fallimento e di separazione. Sappiate che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. Vi incoraggio a rimanere uniti alle vostre comunità, mentre auspico che le diocesi realizzino adeguate iniziative di accoglienza e vicinanza".

L’ultimo sinodo dei vescovi sul tema "La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana" (7-28 ottobre 2012) si è nuovamente occupato della situazione dei fedeli che, in seguito al fallimento della comunione di vita matrimoniale - non il fallimento del matrimonio, che sussiste in quanto sacramento - hanno iniziato una nuova unione e convivono senza il vincolo sacramentale del matrimonio. Nel messaggio finale i Padri sinodali si sono rivolti con queste parole ai fedeli coinvolti: "A tutti costoro vogliamo dire che l’amore del Signore non abbandona nessuno, che anche la Chiesa li ama ed è casa accogliente per tutti, che essi rimangono membra della Chiesa anche se non possono ricevere l’assoluzione sacramentale e l’eucaristia. Le comunità cattoliche siano accoglienti verso quanti vivono in tali situazioni e sostengano cammini di conversione e di riconciliazione".

Considerazioni antropologiche e teologico-sacramentali

La dottrina sulla indissolubilità del matrimonio incontra spesso incomprensione in un ambiente secolarizzato. Laddove si sono smarrite le ragioni fondamentali della fede cristiana, una mera appartenenza convenzionale alla Chiesa non è più in grado di guidare a scelte di vita importanti e di offrire alcun supporto nelle crisi dello stato matrimoniale - come anche del sacerdozio e della vita consacrata. Molti si chiedono: come posso io legarmi per tutta la vita a una sola donna / a un solo uomo? Chi può dirmi come sarà tra dieci, venti, trenta, quaranta anni di matrimonio? È poi effettivamente possibile un legame definitivo con una sola persona? Le molte esperienze di comunione matrimoniale che oggi si spezzano rafforzano lo scetticismo dei giovani nei confronti delle decisioni definitive della vita.

D’altra parte, l’ideale della fedeltà tra un uomo e una donna, fondato sull’ordine della creazione, non ha perso alcunché del suo fascino, come evidenziano le recenti inchieste tra i giovani. La maggior parte di loro aspira a una relazione stabile e duratura, in quanto ciò corrisponderebbe anche alla natura spirituale e morale dell’uomo. Inoltre va ricordato il valore antropologico del matrimonio indissolubile: esso sottrae i coniugi dall’arbitrio e dalla tirannia dei sentimenti e degli stati d’animo; li aiuta ad affrontare le difficoltà personali e a superare le esperienze dolorose; protegge soprattutto i figli, che patiscono la maggior sofferenza dalla rottura dei matrimoni.

L’amore è qualcosa più del sentimento e dell’istinto; nella sua essenza è dedizione. Nell’amore coniugale due persone si dicono l’un l’altro consapevolmente e volontariamente: solo te - e te per sempre. La parola del Signore: "Quello che Dio ha congiunto..." corrisponde alla promessa della coppia: "Io accolgo te come mio sposo (...) ti accolgo come mia sposa (...) Voglio amarti e onorarti finché vivo, fino a quando la morte non ci separi". Il sacerdote benedice il patto che i coniugi hanno stipulato tra loro davanti a Dio. Chiunque avesse dei dubbi sul fatto che il vincolo matrimoniale abbia qualità ontologica, può lasciarsi istruire dalla Parola di Dio: "In principio Dio creò l’uomo e la donna. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne" (Matteo, 19, 4-6).

Per i cristiani vale il fatto che il matrimonio dei battezzati, incorporati nel Corpo di Cristo, ha un carattere sacramentale e rappresenta, quindi, una realtà soprannaturale. Uno dei più gravi problemi pastorali consiste nel fatto che molti, oggi, giudicano il matrimonio esclusivamente secondo criteri mondani e pragmatici. Chi pensa secondo lo "spirito del mondo" (1 Corinzi, 2, 12) non può comprendere la sacramentalità del matrimonio. Alla crescente mancanza di comprensione circa la santità del matrimonio, la Chiesa non può rispondere con un adeguamento pragmatico a ciò che appare inevitabile, ma solo con la fiducia nello "Spirito di Dio, perché possiamo conoscere ciò che Dio ci ha donato" (1 Corinzi, 2, 12). Il matrimonio sacramentale è una testimonianza della potenza della grazia che trasforma l’uomo e prepara tutta la Chiesa per la città santa, la nuova Gerusalemme, la Chiesa stessa, pronta "come una sposa adorna per il suo sposo" (Apocalisse, 21, 2).

Il Vangelo della santità del matrimonio va annunciato con audacia profetica. Un profeta tiepido cerca nell’adeguamento allo spirito dei tempi la sua propria salvezza, ma non la salvezza del mondo in Gesù Cristo. La fedeltà alle promesse del matrimonio è un segno profetico della salvezza che Dio dona al mondo: "chi può capire, capisca" (Matteo, 19, 12). L’amore coniugale viene purificato, rafforzato e accresciuto dalla grazia sacramentale: "Questo amore, ratificato da un impegno mutuo e soprattutto consacrato da un sacramento di Cristo, resta indissolubilmente fedele nella prospera e cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito; di conseguenza esclude ogni adulterio e ogni divorzio" (Gaudium et spes, n. 49). Gli sposi dunque, partecipando in forza del sacramento del matrimonio all’amore definitivo e irrevocabile di Dio, possono in ragione di ciò essere testimoni dell’amore fedele di Dio, nutrendo costantemente il loro amore attraverso una vita di fede e di carità.

Certo, ci sono situazioni - ogni pastore lo sa - in cui la convivenza matrimoniale diventa praticamente impossibile a causa di gravi motivi, come ad esempio in caso di violenza fisica o psichica. In queste dolorose situazioni la Chiesa ha sempre permesso che i coniugi si potessero separare e non vivessero più insieme. Va precisato, tuttavia, che il vincolo coniugale di un matrimonio validamente celebrato rimane stabile davanti a Dio e le singole parti non sono libere di contrarre un nuovo matrimonio finché l’altro coniuge è in vita. I pastori e le comunità cristiane si devono perciò adoperare nel promuovere in ogni modo la riconciliazione anche in questi casi oppure, quando ciò non è possibile, nell’aiutare le persone coinvolte ad affrontare nella fede la propria difficile situazione.

Annotazioni teologico-morali

Sempre più spesso viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si basa su un concetto problematico di "coscienza", è già stato respinto nella lettera della Congregazione del 1994. Certo, in ogni celebrazione della messa i fedeli sono tenuti a verificare nella loro coscienza se è possibile ricevere la comunione, possibilità a cui l’esistenza di un peccato grave non confessato sempre si oppone. Essi hanno pertanto l’obbligo di formare la propria coscienza e di tendere alla verità; a tal fine possono ascoltare nell’obbedienza il magistero della Chiesa, che li aiuta "a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa" (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, n. 64).

Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è incorporato, è tenuta a decidere. "Se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione non può essere considerata lecita in alcun caso, per il fatto che la recezione dei Sacramenti non si può basare su ragioni interiori. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma" (cardinale Joseph Ratzinger, La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità, "L’Osservatore Romano", 30 novembre 2011, pagine 4-5).

Anche la dottrina dell’epichèia, secondo la quale una legge vale sì in termini generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può essere applicata in questo caso, perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, che non è dunque nella disponibilità autoritativa della Chiesa. Questa ha, tuttavia, il pieno potere - sulla linea del privilegio paolino - di chiarire quali condizioni devono essere soddisfatte prima che un matrimonio possa definirsi indissolubile secondo il senso attribuitogli da Gesù. Su questa base, la Chiesa ha stabilito gli impedimenti al matrimonio che sono motivo di nullità matrimoniale e ha messo a punto una dettagliata procedura processuale.

Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perchétutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene. Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia.

Gesù ha incontrato la donna adultera con grande compassione, ma le ha anche detto: "Va’, e non peccare più" (Giovanni, 8, 11). La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre celeste.

La cura pastorale

Anche se, per l’intima natura dei sacramenti, l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è possibile, a favore di questi fedeli si devono rivolgere ancora di più gli sforzi pastorali, per quanto questi debbano rimanere in dipendenza dalle norme derivanti dalla Rivelazione e dalla dottrina della Chiesa. Il percorso indicato dalla Chiesa per le persone direttamente interessate non è semplice, ma queste devono sapere e sentire che la Chiesa accompagna il loro cammino come una comunità di guarigione e di salvezza. Con il loro impegno a comprendere la prassi ecclesiale e a non accostarsi alla comunione, i partner si pongono a loro modo quali testimoni della indissolubilità del matrimonio.

La cura per i divorziati risposati non dovrebbe certamente ridursi alla questione della recezione dell’eucaristia. Si tratta di una pastorale globale che cerca di soddisfare il più possibile le esigenze delle diverse situazioni. È importante ricordare, in proposito, che oltre alla comunione sacramentale ci sono altri modi di entrare in comunione con Dio.

L’unione con Dio si raggiunge quando ci si rivolge a lui nella fede, nella speranza e nella carità, nel pentimento e nella preghiera. Dio può donare la sua vicinanza e la sua salvezza alle persone attraverso diverse strade, anche se esse si trovano a vivere in situazioni contraddittorie. Come rimarcano costantemente i recenti documenti del Magistero, i pastori e le comunità cristiane sono chiamate ad accogliere con apertura e cordialità le persone che vivono in situazioni irregolari, per essere loro accanto con empatia, con l’aiuto fattivo e per far loro sentire l’amore del Buon Pastore. Una cura pastorale fondata sulla verità e sull’amore troverà sempre e nuovamente in questo campo le strade da percorrere e le forme più giuste.



Sabato 26 Ottobre,2013 Ore: 12:34
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 26/10/2013 19.54
Titolo:Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere...
Matrimonio: una riflessione da aprire, non da chiudere (2)
di Christian Albini


in “Sperare per tutti” (http://sperarepertutti.typepad.com) del 24 ottobre 2013 *







3. L'essenziale del matrimonio


Parlare di matrimonio in termini eminentemente dottrinali o giuridici non ne coglie in pieno la
verità. Quando leggo o ascolto certi discorsi che vengono da uomini di chiesa mi viene da scuotere
la testa. Si coglie che ci sono aspetti fondamentali che sfuggono. Non ci si sposa né si rimane
insieme a motivo di una dottrina o del diritto canonico. Se si perde di vista questo assunto, quelli
che sono degli strumenti che dovrebbero essere di aiuto, diventano un fine, producendo una
comprensione squilibrata del matrimonio.


Sinceramente, devo dire di aver avuto questa impressione nella lettura dell'intervento
dell'arcivescovo Müller su cui ho iniziato ieri a riflettere. Lo affermo con il rispetto per un eminente
prelato e studioso che stimo, per come ha riaperto la questione spinosa della teologia della
liberazione. Qui però siamo alle prese con qualcosa di vitale per me e per tante persone, qualcosa
che ha un profondo significato di fede. E' la via su cui, con i miei errori e le mie fragilità, ho giocato
la mia vita, è un aspetto sostanziale della mia sequela del Signore. E, se sono profondamente
convinto che c'è qualcosa che non va nel modo in cui se ne parla, lo devo dire. Per quel poco che
vale la mia povera voce, lo devo dire, cercando di portare buone ragioni nella misura in cui ne sono
capace. Non è un fatto di polemica, ma di onestà come uomo, battezzato, sposo.

Tutto l'intervento di Müller è imperniato sulla dottrina dell'indissolubilità del matrimonio, come se
fosse il centro della fede cristiana su questo sacramento. Detto così, si riduce il matrimonio a un
vincolo, a un comando amministrato dalla chiesa e dai suoi tribunali che ne possono eventualmente
stabilire la nullità. E' come se il sacramento fosse qualcosa che si sovrappone all'umano e lo
vincola. Una visione del genere è povera. Il sacramento, piuttosto, abita l'umano per portarlo a
realizzarsi in pienezza. Il sacramento umanizza, alimenta la nostra umanità per giungere alla statura
di Cristo. Però, senza mai togliere la nostra libertà che è anche libertà di rifiutare il dono e di
peccare.

L'umanità abitata dal sacramento del matrimonio è l'amore umano, né più né meno. Un amore che
inizia con l'attrazione e il desiderio; diventa scoperta, conoscenza, condivisione e il desiderio
assume un carattere di totalità. E' il desiderio di essere una sola carne, di un amore che non finisce.
E' l'essere a immagine e somiglianza di Dio, inscritto dentro di noi. Genesi 3,24 non dice un
comando di Dio, dice come noi siamo. L'indissolubilità non è un decreto arbitrario, è intrinseca
all'amore. Indissolubile è l'amore di Dio per il suo popolo, di Cristo per la sua chiesa, del Padre per
ciascuno di noi. Di qui il nostro poter amare: siamo capaci di amare perché Dio è amore.


Questo credono, o quanto meno intuiscono, due sposi. Se manca, almeno in minima misura, questa
consapevolezza, sono convinto anch'io che il matrimonio religioso sia nullo. Gli sposi hanno fiducia
che il loro amarsi viene da Dio, che continua la storia iniziata con il battesimo (di cui si fa
memoria), che ha come vertice e alimento l'eucaristia, segno dell'amore di Gesù che arriva fino alla
croce. Sposarsi è avere fiducia che il proprio amore può durare tutta la vita, perché non siamo soli,
Dio è presente nella storia d'amore umana, la benedice. Ecco l'indissolubilità: è una promessa del
Signore in cui si pone fiducia, non una regola. La chiesa è la comunità che accompagna e sostiene
questo amore, questa fede. Non può essere presente solo per esercitare un giudizio.

4. Peccato e misericordia

C'è però il dramma della libertà che può prendere la via del peccato: nell'amare possiamo fallire,
essere infedeli, indurire il nostro cuore. In molti modi, non solo sessualmente. Questo può avvenireanche a persone che si sono sposate con fede. Nessuno è esente a priori. Quando avviene, è un fatto
grave e c'è una componente di peccato, d'infedeltà, se il matrimonio era reale e non solo facciata.

E' un peccato che la chiesa può perdonare? La missione affidata da Gesù agli apostoli non è proprio
il perdono dei peccati?
Qui bisognerebbe distinguere da una rottura del matrimonio che nasce là dove uno degli sposi, con
leggerezza, "passa ad altro" seguendo una pulsione egoistica e disinteressandosi del coniuge (ma,
allora, mancava già in partenza la consapevolezza che rende valido il matrimonio) da un
deterioramento dei rapporti che nasce da limiti e fragilità delle persone implicate, con un carico di
fatica e sofferenza per entrambi.


In quest'ultima situazione, il non accesso all'eucaristia dipende dallo stringere una nuova unione
affettiva là dove c'è un'intimità sessuale e non continenza.
Questo costituirebbe un peccato imperdonabile? Ma come: la chiesa può perdonare un'omicida, può
perdonare un pedofilo, può perdonare un prete che rinuncia al ministero, ma non può perdonare un
divorziato che vive un'altra storia perché ha dei rapporti sessuali? La misericordia lì non arriva?
Si dice: ah, ma ci vuole il pentimento. Se no, è falsa misericordia, senza giustizia, che incoraggia il
peccato, perché non lo tratta seriamente e lo svuota della sua gravità.


Prima osservazione: Dio nella Bibbia non agisce così. Il suo perdono precede la conversione e la
suscita, non è una conseguenza della conversione. Lo vediamo in Osea. Lo vediamo in Gesù, con
l'adultera, per esempio (Gv 8,1-11). E' vero che le dice di non peccare più, ma intanto la perdona.
Non aspetta di verificare che si sia convertita, la perdona prima, in anticipo! Gesù non vuole
l'adulterio, lo condanna, ma con il peccatore esercita grande misericordia ed è così che si pongono
le premesse della conversione.

Si dice: sì, ma la chiesa accoglie i divorziati risposati. L'esclusione dall'eucaristia non è una
punizione. E' che non si può, è per far capire che sono in una situazione di peccato; se non vivono in
continenza, vuol dire che non c'è pentimento, e la chiesa per essere nella verità non può ammetterli
all'eucarestia.


E' falso! Chi conosce persone divorziate che hanno fatto un cammino interiore serio, sa che il
pentimento c'è, che la consapevolezza c'è. E con sofferenza, non con noncuranza. Ma pentirsi non
può voler dire far rinascere artificialmente una convivenza che non c'è più e distruggere di colpo un
rapporto che si è creato, quando è profondo e consolidato. Il punto è che qui c'è un'enfatizzazione
del peccato sessuale che è una brutta eredità che il cattolicesimo si porta ancora dietro.
Davvero, l'omicidio può essere perdonato, ma se c'è una nuova unione di cui fa parte l'esercizio
dell'affettività sessuale (non una sessualità disordinata ed egoistica) non si può dare il perdono?
Eppure, ovunque si sposano in chiesa persone che prima sono state conviventi e hanno avuto
rapporti sessuali e non sono affatto pentite di questo. E succede ovunque. Però, siccome si sposano,
si "regolarizzano".

Ecco il problema: alla radice del divieto dell'eucaristia non c'è l'ordine sacramentale, l'intima
essenza dei sacramenti. I sacramenti non sono riservati ai puri e ai perfetti: accompagnano il nostro
cammino di conversione, ci sostengono. La questione vera non è di teologia dei sacramenti,
secondo me, è di teologia morale e prima ancora di antropologia: la sessualità.
Sulla sessualità pesa ancora un'impostazione giuridica che deriva da una visione peccaminosa: se è
dentro il matrimonio ed è aperta alla procreazione è lecita, se no c'è peccato. Semplifico, ma
stringendo la sostanza è questa.

La sessualità è un cammino, per gli sposati come per i celibi, un esercitarsi nell'umanità e
nell'amore in cui è sempre presente la zizzania della nostra insufficienza. Farla rientrare in un
dualismo lecito/non lecito è falsarla, è parlare di qualcosa che non è realmente la sessualità. E far
dipendere da questo l'accesso all'eucaristia, secondo me, deriva da questa concezione inesatta.Dire questo non è non credere all'indissolubilità del matrimonio. Neppure è negare il peccato e
giustificare ogni comportamento. Penso sempre a persone che fanno un cammino serio di penitenza,
di fede, di preghiera.


Quello che intendo è dare la possibilità di continuare un cammino di vita
cristiana di cui l'eucaristia è parte essenziale, pur con la ferita del matrimonio che si è celebrato. Le
ferite non si possono cancellare, ma possono curare e guarire. Ci può essere vita anche dopo la
ferita. Non è questa la via mostrataci da Gesù, la via su cui seguirlo come chiesa?

Ecco perché vorrei si prendesse in considerazione questa prospettiva nel guardare a una realtà del
genere. E' la prospettiva che ci fa vedere come praticabile una via, piuttosto che un'altra, e io ho
voluto suggerire una prospettiva che so non essere soltanto mia.


* PER LA PRIMA PARTE, SI CFR.:

“Sperare per tutti” (http://sperarepertutti.typepad.com) del 23 ottobre 2013
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 28/10/2013 11.52
Titolo:Ripensare il relativismo (di Christian Albini)
Ripensare il relativismo

di Christian Albini

in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 27 ottobre 2013


Credenti e no sono necessariamente avversari? Da sempre sostengo che non sia vero. Premetto che
queste sono etichette fuorvianti, come ormai sostengono molti. Il «credente» è abitato dal dubbio e
anche il «non-credente» conosce una sua fede e la ricerca. Tuttavia, sono categorie comode per
semplificare i nostri discorsi, a patto di disinnescare alcuni luoghi comuni fuorvianti e dannosi.
Uno dei più importanti riguarda il significato del linguaggio del relativismo, che ha segnato il
pontificato di Benedetto XVI, e l’uso che se ne fa. A lungo, il dissenso rispetto alle posizioni
prevalenti tra i vertici della gerarchia cattolica, soprattutto in campo etico-legislativo, è stato
respinto ricorrendo a quest’accusa. Il relativismo fa parte di quei concetti il cui significato è stato
irrigidito e che vanno ri-compresi e ri-letti. C’è bisogno di una nuova comprensione di parole che
sono state sequestrate dai settori più chiusi del cattolicesimo.

La laicità non è relativista

Gustavo Zagrebelsky, intervenendo nel dialogo aperto da papa Francesco con Eugenio Scalfari,
scrive: «In ogni spirito che s’ispira alla laicità e crede alla necessità che forze morali possono unirsi
per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo
mercantile, l’invito a “reimpostare in profondità la questione” suscita non solo interesse, ma perfino
entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene e il giusto esistono, che dunque non è insensato
cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli
agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà» (la Repubblica, 23
settembre 2013).

In anni recenti, vale la pena ricordarlo, Zagrebelsky ha portato avanti una critica serrata all’etica dei
principi non negoziabili e della legge naturale, così com’era impostata anche da voci autorevoli del
magistero. Questa sua posizione, come si evince dalle parole che ho riportato, non significa la
negazione della verità, del bene e della giustizia. Il suo è il rifiuto di una certa impostazione etica e
degli argomenti di cui si avvale, più che di ogni etica. E nemmeno è il sostenere una posizione
radicalmente individualista e perciò relativista.

Ultimamente, alcuni fatti tragici hanno dimostrato come sia possibile trovare una sintonia tra
portatori di visioni del mondo diverse in nome del bene della persona. È accaduto in occasione della
giornata di preghiera e digiuno per la pace e in seguito alle tragiche morti di Lampedusa. Qui è in
causa la persona con il suo volto, la sua carne, il suo sangue: un bene univoco, evidente, da
difendere nei confronti di un male indubitabile.

Alle radici delle divergenze

Ci sono altre situazioni – soprattutto quelle riguardanti l’etica d’inizio e fine vita e la famiglia – in
cui questa sintonia non si riscontra. Perché? Bisogna avere l’accortezza di chiedersi se questa è una
divergenza che nasce da una negazione della vita e della famiglia, o piuttosto da una differente
concezione del bene. Il nichilismo certamente esiste, ma sarebbe irrealistico considerarlo un fronte
ben identificabile e schierato in armi contro i cattolici che lo fronteggiano. Solo un’esigua
minoranza, tra gli atei e i non cattolici, può essere considerata effettivamente nichilista.
Nietzsche e Heidegger hanno ben spiegato come il nichilismo sia piuttosto un clima di pensiero,
un’atmosfera che tutti respiriamo, cattolici compresi. Si può essere perfettamente ortodossi sul
piano dottrinale, eppure assumere un atteggiamento nichilista: è il caso del fondamentalismo, che
divide il mondo in due e demonizza l’alterità negandone il bene.

Il punto è: chi sostiene su questioni di vita e famiglia una posizione “altra” rispetto a quella
prevalente nella Chiesa – scrivo prevalente, perché in ambito teologico-morale interrogativi e dibattiti hanno uno spazio molto più ampio di quanto generalmente non si pensi, al punto che nella
storia si rilevano cambiamenti anche notevoli nel magistero – è sostenitore di un male? E se, invece,
sostenesse un bene differente, oppure una differente attuazione del medesimo bene che la Chiesa
sostiene?

La prospettiva dell’incontro


Se in una relazione omosessuale caratterizzata da fedeltà e dedizione c’è un bene, riconoscerlo non
significa negare il matrimonio.
Chi sostiene, a certe condizioni e in certe situazioni, l’interruzione della ventilazione o della
nutrizione artificiale è per la morte, o invece discerne una sproporzione tra i costi soggettivi, in
termini di disagio psicologico, di queste pratiche e il fine che perseguono? Si tratterebbe allora di un
giudizio morale su come coniugare la cura della vita con la libertà e la dignità della persona umana.

Non è affatto l’avvallo dell’eutanasia e di una cultura dello scarto, ma accettare che oltre un certo
limite può diventare disumanizzante persistere nell’impedire la morte.
Affrontare queste e altre questioni non significa entrare in una prospettiva di permissivismo senza
freni, in cui tutto va bene. Sarebbe caricaturale porre le cose in questi termini. È più corretto dire
che è una prospettiva d’incontro, la quale nasce dalla disponibilità a riconoscere il bene di cui l’altro
è portatore dentro a una relazione. Senza che questo significhi necessariamente trovare un accordo
facile e totale. Allo stesso modo, non è attraverso la vittoria in una disputa, bensì nella relazione che
l’altro arriva a ritenere credibile me e il bene di cui sono portatore.
Scrive Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21).

Il relativismo, allora, non è dato da posizioni non pienamente coincidenti con le mie, ma
dall’indifferenza per la persona e il suo bene, che inizia dal non riconoscerlo come soggetto
portatore di un’autenticità etica che si manifesta nella sua coscienza. È in questi termini che si può
leggere l’esortazione di papa Francesco a seguire il bene percepito dalla propria coscienza, che non
è avvallo di tutto. Nel mercante di clandestini o nell’aguzzino nazista non c’è autenticità etica,
perché c’è indifferenza verso l’altro. Ben diverso è il caso di chi entra nei dibattiti su vita e famiglia.

Christian Albini

Socio fondatore e membro del Consiglio direttivo di Viandanti

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La chiesa di Papa Francesco

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