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www.ildialogo.org "LUMEN FIDEI": LA "LUCE DELLA FEDE" MORTA E SEPOLTA SOTTO LA VOLONTA' DI POTENZA DI RATZINGER: PAPA FRANCESCO HA FIRMATO! Una nota di Vito Mancuso - con appunti,a c. di Federico La Sala

ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE 1 Gv 4,16): MA AL DIO ("CHARITAS")  DI GESU' ("LUMEN GENTIUM") O AL DIO ("CARITAS") DI COSTANTINO E DI RATZINGER ("DOMINUS IESUS") E DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST")?!  DI CHI SIAMO FIGLI E FIGLIE?!
"LUMEN FIDEI": LA "LUCE DELLA FEDE" MORTA E SEPOLTA SOTTO LA VOLONTA' DI POTENZA DI RATZINGER: PAPA FRANCESCO HA FIRMATO! Una nota di Vito Mancuso - con appunti

“Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale... La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore”. Penso che il senso della vita cristiana risieda esattamente in queste parole che destituiscono il freddo primato della dottrina e sanno ritrasmettere al meglio il senso evangelico della verità.


a c. di Federico La Sala

MATERIALI PER APPROFONDIRE:

OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere.

SPEGNERE IL "LUMEN GENTIUM" E INSTAURARE IL POTERE DEL "DOMINUS IESUS". Il disegno di Ratzinger - Benedetto XVI. Due testi a confronto, con alcune note

 

COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.

CIVILTA’ DELL’AMORE E VOLONTA’ DI GUERRA. DOPO GIOVANNI PAOLO II, IL VATICANO SOPRA TUTTO E CONTRO TUTTI. Il "peccato originale" e la "mala fede" antropo-teo-logica di Papa Ratzinger.

 

PAPA FRANCESCO I, ALL’OMBRA DEL PAPA EMERITO, RIUSCIRA’ A CAMBIARE REGISTRO? (fls)

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La paura della modernità

di Vito Mancuso (la Repubblica, 6 luglio 2013)

La questione preliminare sollevata dalla prima enciclica di papa Francesco riguarda la sua effettiva paternità. Chi è il vero padre del testo da oggi noto con il titolo classico di Lumen fidei , “Luce della fede”? Sarà compito degli studiosi futuri stabilire con precisione quanto vi sia di Ratzinger e quanto di Bergoglio in questo importante documento, ma, come si può leggere nello stesso testo, già oggi è noto che è stato scritto per la gran parte da papa Benedetto («egli aveva già quasi completato una prima stesura»), mentre papa Francesco dice di aver contribuito aggiungendo «alcuni ulteriori ritocchi».

L’origine a più mani del testo non costituisce di per sé una novità per il papato, perché sono molti i testi del magistero quali encicliche, esortazioni apostoliche, catechesi o semplici discorsi, che hanno alle spalle un autore diverso rispetto al Romano Pontefice che poi li ha firmati, né penso che potrebbe essere altrimenti vista l’ampia esposizione a cui oggi un Papa è quotidianamente chiamato. Decisamente nuovo però è il fatto che, dietro a un testo solenne come un’enciclica, di pontefici ve ne siano due, visto che Benedetto XVI ha scritto le pagine oggi firmate da papa Francesco quando ancora il papa era lui. A quale pontefice quindi attribuire la sostanza degli insegnamenti contenuti nella Lumen fidei ? E chi tra i due papi ha scelto il titolo, che in un’enciclica ha sempre tanta importanza?

C’è poi un’altra non piccola questione preliminare: se l’enciclica è il documento più importante che un papa ha a disposizione, e se la prima enciclica rappresenta solitamente l’atto programmatico del nuovo pontificato, che significato occorre dare al fatto che papa Francesco ha scelto di fare suo un testo scritto quasi integralmente da papa Benedetto? Se Francesco avesse sempre seguito in tutto il suo predecessore la cosa sarebbe perfettamente coerente, ma egli finora ha fatto piuttosto il contrario: altra qualifica nel presentarsi (“vescovo di Roma”), altra abitazione (Santa Marta e non l’appartamento papale), altra croce pettorale, altre scarpe, altro piglio nell’affrontare i nodi del governo vaticano, altre priorità come appare dall’aver disertato un concerto di musica classica dov’era prevista la sua presenza, cosa che un cultore della buona musica e dell’etichetta quale Benedetto XVI non avrebbe mai fatto... O forse l’assunzione del testo ratzingeriano sotto la propria firma è funzionale proprio al desiderio di papa Francesco di voler sottolineare, al di là di differenze contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa Benedetto sulle cose fondamentali quali la fede e la morale? Io penso che a questa domanda occorra rispondere positivamente e che solo così si spieghi l’effetto un po’ stucchevole di vedere a firma di papa Francesco un testo integralmente ratzingeriano.

L’enciclica infatti riproduce con andamento lineare e senza particolari novità la tradizione della dottrina cristiana in ordine all’insegnamento sulla fede, intesa sia come fides qua creditur , cioè l’atteggiamento interiore o la fiducia con cui si crede, sia come fides quae creditur , cioè il patrimonio dottrinale cui si aderisce con ossequio dell’intelligenza ovvero i cosiddetti articoli di fede. E lo fa all’insegna della più limpida teologia ratzingeriana che nel testo emerge con voce inconfondibile.

La Lumen fidei spiega l’origine della fede unicamente a partire dall’alto, riconducendola a Dio e dichiarandola “dono di Dio”, “virtù soprannaturale da Lui infusa”, “dono originario”, “chiamata” (il termine dono ricorre 21 volte, chiamata 11). La domanda sorge spontanea: chi non ha la fede non ha quindi ricevuto questo dono divino? E se fosse così, non si tratterebbe in questo caso di un’inspiegabile ingiustizia? Verso la fine della vita Indro Montanelli scriveva: “Io ho sempre sentito e sento la mancanza di fede come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che ne sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli”. Invano il lettore cercherebbe nell’enciclica dei due papi non dico la risposta, ma anche solo l’assunzione del problema sollevato da Montanelli e da molti altri prima e dopo di lui, problema che è poi l’espressione dell’inquietudine alla base della modernità. Come sempre nella teologia ratzingeriana, anche in questa enciclica la modernità diviene solo un avversario da combattere, non un interlocutore con cui istituire un dialogo fecondo.

La Lumen fidei sottolinea continuamente che c’è una “chiamata” da parte di Dio, cui deve corrispondere un “ascolto” da parte dell’uomo. La fede cioè non è interpretata come una disposizione che sorge dal basso, come una modalità di articolare il sentimento, come un atto di fiducia verso la vita: è piuttosto pensata come una creazione unilaterale di Dio, il quale, così come è apparso nella storia di Abramo e poi degli altri protagonisti della Bibbia, si presenta allo stesso modo nell’interiorità dei singoli chiamandoli a sé.

Naturalmente il testo papale afferma che la pienezza della fede si ha con la venuta di Gesù, sia in quanto verità dottrinale da credere e consistente nell’evento della sua morte e risurrezione, sia in quanto forma del credere, perché Gesù non è solo l’oggetto della fede ma anche il modello: vi è una fede in Gesù e vi è una fede di Gesù, e al riguardo nel testo vi sono passaggi molto belli, soprattutto laddove si parla di Gesù come di “Colui che ci spiega Dio”.

La centralità cristologica in ordine all’esperienza di Dio non può non rimandare però al delicatissimo nodo della salvezza mediante la fede: se è tramite la fede in Cristo che ci si salva, chi è privo della fede in Lui è necessariamente destinato alla perdizione? I non credenti e i fedeli di altre religioni possono partecipare in qualche modo alla salvezza oppure ne sono necessariamente esclusi?

La risposta dell’enciclica papale si configura all’insegna del modello teologico noto come “inclusivismo”, teso ad affermare che la fede “riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare”. Il testo arriva a sottolineare che “nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede”. Si tratta in sostanza della teologia dei “cristiani anonimi” del gesuita Karl Rahner che papa Francesco (oppure papa Benedetto?) fa propria. Resta da vedere quanto questa posizione sia veramente rispettosa verso i non credenti o verso i fedeli di altre religioni: che cosa direbbe un cattolico di essere considerato un buddhista o un musulmano anonimo?

Alcune delle pagine più belle sono quelle dedicate alla relazione tra verità e amore, laddove la Lumen fidei afferma che “se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore”, e che “amore e verità non si possono separare”. E ancora: “Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale... La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore”. Penso che il senso della vita cristiana risieda esattamente in queste parole che destituiscono il freddo primato della dottrina e sanno ritrasmettere al meglio il senso evangelico della verità. Penso altresì che se la dottrina cattolica a livello di prassi sacramentale (vedi sacramenti negati ai divorziati risposati), di etica sessuale e soprattutto di bioetica considerasse sempre la portata di queste parole arriverebbe a rivedere molte posizioni dottrinali attuali che oggi appaiono veramente fredde e impersonali.

Più in generale penso che il testo della Lumen fidei riproduca la teologia ratzingeriana soprattutto in alcuni capisaldi come la contrapposizione tra fede cristiana e mondo moderno, la polemica contro il relativismo, il radicamento della ricerca teologica nell’obbedienza al Magistero. Sotto quest’ultimo profilo è netta la riconduzione dell’esperienza di fede alla dimensione dottrinale nella sua integralità, perché la fede, scrive la Lumen fidei , “deve essere confessata in tutta la sua integralità”, visto che “tutti gli articoli di fede sono collegati in unità e negare uno di essi equivale a danneggiare il tutto”.

Ma se qualcuno di questi articoli appare in contraddizione con le esigenze dell’amore, come nel caso della dannazione eterna, oppure del peccato originale che macchierebbe l’anima di ogni bambino al suo concepimento, che cosa deve fare l’intelligenza teologica? Continuare a ripetere affermazioni magisteriali che appaiono infondate? Anche a questo riguardo però si cercherebbe invano una risposta nell’enciclica dei due papi, la quale si limita a ribadire l’obbedienza incondizionata che la ricerca teologica è tenuta a portare al Magistero romano.

Ma il limite più grave del testo papale riguarda la teologia spirituale. L’enciclica infatti, insistendo così tanto sulla luce della fede e sulla sua capacità di spiegazione, finisce per ignorare abbastanza clamorosamente che l’esperienza spirituale cristiana si conclude non con la luce ma con le tenebre, come attesta la comune testimonianza della mistica dell’oriente e dell’occidente cristiano, parlando di “notte oscura”, di “silenzio”, di ingresso nella “nube della non conoscenza”, e sottolineando la necessità di andare al di là della dimensione intellettuale. Proprio in questo ignorare la fecondità delle tenebre, del non-sapere, del vuoto, del silenzio, risiede il grande limite della teologia ratzingeriana e del suo intellettualismo, che questo testo firmato da papa Francesco, come fosse un sigillo, riproduce in toto . Rimane da spiegare perché il papa venuto dalla fine del mondo l’abbia fatto proprio senza veramente “ritoccarlo” con il suo carisma umano e spirituale, ma a questa domanda per ora non ci sono risposte.



Sabato 06 Luglio,2013 Ore: 14:03
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/7/2013 14.53
Titolo:LA "LUMEN FIDEI" DEL PAPA EMERITO : 80 PAGINE DI RATZINGER E 8 DI BERGOGLIO
Pochi ritocchi danno calore al documento

Il calore dopo la dottrina

Otto pagine su ottanta sono opera di Francesco

di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 6 luglio 2013)

L’enciclica è «quasi tutta» di Benedetto e la stima dell’apporto di Francesco - azzardata dagli addetti ai lavori - è di appena un dieci per cento del totale: circa 8 pagine su 80, ma sufficienti perché si possa dire che il documento ha la ricchezza dottrinale di Papa Ratzinger e il calore comunicativo di Papa Bergoglio.

Certezza nell’attribuire una pagina all’uno o all’altro non può esservi ed è necessario procedere per ipotesi. Per esempio più volte Francesco ha usato l’espressione esortativa «non facciamoci rubare la speranza» (a partire dalla visita al carcere minorile il Giovedì Santo) e dunque quando l’incontriamo al paragrafo 57 potremo essere certi che in quel contesto è lui che scrive, o riscrive.

Analogamente abbiamo ascoltato almeno dieci volte il Papa teologo affermare che «è impossibile credere da soli» e perciò attribuiremo alla sua mano il paragrafo 39 che inizia con queste parole. Ma va tenuta in conto la possibilità che il Papa che firma l’enciclica abbia non solo aggiunto dei brani
- o forse un intero capitolo: il quarto e ultimo, intitolato «Dio prepara per loro una città» - ma abbia anche modificato qualcuna delle pagine ricevute dal predecessore.

Conviene partire dalla dichiarazione iniziale di Francesco, contenuta nel paragrafo 7, che è certamente tutto del Papa argentino: «Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi».

Sono tra chi ritiene che i «contributi» di Francesco siano minimi e da restringere - a volere un’attribuzione moralmente certa - ai soli paragrafi 7 e 55-60. Di eventuali ritocchi che Francesco abbia apportato al testo ratzingeriano (poco verosimili stante il prestigio dottrinale del Papa tedesco e l’intenzione di papa Francesco di rendergliene merito) potrà accertarsi solo chi, poniamo tra settant’anni, stante la tempistica di apertura degli Archivi Vaticani, potrà confrontare il testo ratzingeriano con la stesura finale a firma Francesco.

Di Ratzinger è dunque l’impianto in quattro capitoli e in esso hanno forte l’impronta della sua scrittura i richiami a Nietzsche (paragrafo 2), alle «piccole luci che illuminano il breve istante» (par. 3) che avevano un pendant nelle «piccole speranze» dell’enciclica «Spe Salvi» (2007), a Martin Buber (13), a Rousseau (14), a Dostoevskij (16), alla fede cristiana come «fede in un Dio che si è fatto vicino» (18), al teologo tedesco Romano Guardini (22: «La fede ha una forma necessariamente ecclesiale»), al «relativismo» contemporaneo che pretende di staccare la fede dalla verità (25). Suona ratzingeriano il felice assioma: «Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore» (27). Vanno nella stessa direzione la discussione sulla fede «come ascolto e visione» (29-31), i frequenti richiami ad Agostino (per esempio nei paragrafi 23 e 33), il monito alla teologia perché «non consideri il, Magistero del Papa e dei vescovi come un limite alla sua libertà» (36), la trattazione del legame tra la fede e i sacramenti, il Padre Nostro e il Decalogo, che si ispira al Catechismo della Chiesa Cattolica (40-49).

L’impronta bergogliana è palese a partire dal paragrafo 50: «La fede nel rivelarci l’amore di Dio Creatore ci fa rispettare maggiormente la natura, facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita».

Sempre in questo paragrafo vi è un brano che ripete nella sostanza un testo del cardinale Bergoglio (vedi il capoverso «L’unità è superiore al conflitto» del volumetto «Noi come cittadini noi come popolo», Jaca Book, p. 63): «L’unità è superiore al conflitto; dobbiamo farci carico anche del conflitto, ma il viverlo deve portarci a risolverlo, a superarlo, trasformandolo in un anello di una catena, in uno sviluppo verso l’unità».

Dallo stesso volumetto bergogliano deriva quest’altro passaggio del paragrafo 57 dell’enciclica: «Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza».

Il legame tra la fede e la sofferenza è così richiamato al paragrafo 57, con chiara derivazione del riferimento a Madre Teresa e a San Francesco dal volume bergogliano «Il Cielo e la terra» (ed. Mondadori, p. 206s): «Per quanti uomini e donne di fede i sofferenti sono stati mediatori di luce! Così per San Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la Beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri». La preghiera «a Maria madre della Chiesa» che chiude l’enciclica ha un andamento simile all’invocazione «a Maria nostra Signora» con cui Francesco aveva chiuso il 23 maggio l’incontro con i vescovi italiani.

Credo di aver trovato un solo passaggio di sapore bergogliano nel mezzo di un capitolo ratzingeriano, al paragrafo 34: «Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti». Parole simili ha il cardinale Bergoglio a pagina 149 del volume «Solo l’amore ci può salvare»

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