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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org VICO E L’ERRORE DI PLATONE E CARTESIO.,di Federico La Sala

Illuminismo e Rivoluzione copernicana. Vico con Newton: “Non invento ipotesi”!
VICO E L’ERRORE DI PLATONE E CARTESIO.

Note per una rilettura della “Scienza Nuova”


di Federico La Sala


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VICO E L’ERRORE DI PLATONE E CARTESIO.


di Federico La Sala



Mercoledì 22 Maggio,2013 Ore: 15:33
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 22/5/2013 19.08
Titolo:Prima il corpo, poi la mente. La doppia genesi dell’uomo
Ian Tattersall

“Prima il corpo, poi la mente. La doppia genesi dell’uomo”

di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 22.05.2013)

Ian Tattersall è paleo­ antropologo e curatore al Museo di storia naturale di New York


Immaginiamo il nostro cervello come le piume dei dinosauri, prima, e degli uccelli, poi. Non c’era proprio niente di prevedibile in ciò che è diventato e che ora ci troviamo intrappolato nella scatola cranica.

Ci siamo trasformati nei «signori del pianeta» - dice il celebre paleoantropologo Ian Tattersall - dopo una rivoluzione improvvisa e tutt’altro che scontata: è secondo queste due declinazioni che dobbiamo pensare alla nostra specie, se vogliamo credere alle ricerche più recenti, sparse tra l’analisi dei resti fossili e le decifrazioni del Dna. Siamo comparsi 200 mila anni fa, eppure, se tornassimo indietro a quei momenti, faticheremmo a riconoscerci, come se incontrassimo un fratello tonto. Per immedesimarci (e provare un’esplosione liberatoria di empatia) dovremmo aspettare e approdare a tempi recenti.

Solo 60 mila anni fa - spiega il curatore del Museo di storia naturale di New York - siamo diventati pienamente umani. Per decine di migliaia di anni abbiamo continuato a comportarci come gli altri ominidi, per esempio i Neanderthal. Laboriosi, piuttosto socievoli, ma poco ciarlieri e quasi per nulla creativi. Poi, di colpo, siamo diventati gli esseri simbolici che siamo.

Tattersall ha scritto un saggio («I signori del pianeta», edito da Codice) per indagare il mistero. E a Torino, al Salone del Libro, ha tenuto una conferenza per raccontare questo viaggio a ritroso nel tempo e nei neuroni. Gli universi alternativi che rielaboriamo continuamente nella mente - ha spiegato - non sono «la glassa sulla torta», ma «la perlina di zucchero che sta in cima alla ciliegia sopra la glassa».

Una metafora di pasticceria che serve a rimettere in discussione le idee preconcette sulla nostra evoluzione. Che è stata tormentata: invece di un’esplosione lineare di metamorfosi, il sempre citato «albero della vita» equivale a una folla di ominidi diversi, che per milioni di anni si sono succeduti (e spesso hanno convissuto), sperimentando sulla propria pelle, e nel cranio, tanti esperimenti, alcuni imperfetti e altri meglio riusciti.

E infatti ciò che oggi è il cervello è - probabilmente - il risultato di tante proprietà emergenti, frutto di modificazioni e aggiunte, piccole e accidentali, di una struttura che era già pronta (o quasi) a sviluppare il pensiero simbolico. Per molto tempo siamo stati sulla soglia del pensiero vero e proprio, come indecisi, prima di compiere l’ultimo e decisivo passo.

Non è successo per «adaptation», cioè per adattamento, ma - sottolinea Tattersall - per un altro processo, tempestoso, che gli studiosi chiamano «exaptation», exattamento. La spettacolare riorganizzazione dei neuroni, infatti, non è stato un adeguamento puro e semplice, semmai un recupero e una cooptazione.

Ciò che era nato per una certa funzione ha finito per assolverne un’altra, inedita. Esattamente come le piume termoregolatrici dei dinosauri, diventate strumenti per spiccare il volo negli uccelli.

Le cellule nervose, inizialmente ideate per trasformare in astuto cacciatore l’Homo Ergaster, tra 2 milioni e un milione di anni fa, sono servite ai Sapiens di 77 mila anni fa come scintilla intellettuale per intagliare motivi geometrici su una placca d’ocra, rinvenuta nella Grotta di Blombos in Sud Africa: è questo il manufatto più antico che testimonia il raggiungimento di un nuovo mondo simbolico. Mai esistito prima.

Il «silver bullet», così lo chiama Tattersall - l’evento che ha fatto deflagrare tutto - sarebbe stato il linguaggio: «Lo concepiamo sempre come sinonimo di comunicazione. Provate invece a immaginarlo come il portale d’accesso all’io interiore. Si pensa anche con le mani, mentre si fanno le cose». Inventando e manipolando parole. Così abbiamo spalancato la mente, che - ammonisce il paleoantropologo - proprio per la sua doppia genesi, 200 mila e 60 mila anni fa, resta un groviglio irrisolto. Di bene e di male.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 23/5/2013 18.20
Titolo:NON C’E’ VERA STORIA SENZA LA FILOSOFIA. MA QUALE FILOSOFIA?!
NON C’E’ VERA STORIA SENZA LA FILOSOFIA. MA QUALE FILOSOFIA?!:

L’IDENTITA’ ("TAUTOTES") E IL DESTINO DELL’ITALIA, NELLE MANI DI UN "UOMO PRIVATO" ("IDIOTES") E DEL SUO PARTITO ("FORZA ITALIA")!!! Gloria e destino della Necessità?! Boh?! Bah?!
-http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=376

LA CULTURA AL LAVORO PER LA NUOVA IDENTITA’ ("Tautotes", in greco) ITALIANA: UNA BARA ("Taùto", in greco-napoletano) PER L’ITALIA. Grandi contributi (più che decennali) di filosofi, giuristi, matematici, scrittori ... Appunti per i posteri
-http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3965

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Idee

Non c’è vera storia senza la filosofia

Perché Vico resta attuale, mentre ogni forma di conoscenza riconosce i propri limiti

di Enanuele Severino*

Oggi si tende a considerare la scienza moderna come la forma più alta di sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza sono giunte prima delle scienze della natura e logico-matematiche. In modo indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. «Ci è mancata sinora - scrive - una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità». Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza.

Al di fuori di essa, esiste una «istoria» senza filosofia, cioè, per lui, senza «verità»: una conoscenza storica che mostra sì un immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, «eterna» che dia loro un senso unitario, e quindi lasciandole allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova» deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle scienze storiche sino a che rimangono separate dalla filosofia.

Ma il nostro tempo - e innanzitutto l’essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo - esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano oggi a conservare proprio quel carattere di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofia.

La Scienza nuova è ora ripubblicata da Bompiani nelle tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, che inoltre premette al testo un saggio introduttivo di grande ampiezza e profondo impegno speculativo. Il testo è riproposto secondo l’edizione fattane dalla stessa Sanna, da Fulvio Tessitore e Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del ’30 e del ’44. Un’imponente operazione culturale.

Molto opportunamente, Vitiello inizia il suo saggio al pensiero di Vico mettendo in luce il carattere problematico della conoscenza storica e in generale della nostra memoria. Vico e tutte le successive riflessioni sulla conoscenza storica non mettono però in questione l’esistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in questione l’esistenza della natura. Storia e natura sono cioè trattate come indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va affidato il compito di mostrare la verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica - quindi problematica -, oppure è una conoscenza innegabilmente vera, e quindi non scientifica? Né il «senso comune» può farsi avanti con la pretesa di saper lui rispondere: non può avere la pretesa di possedere una conoscenza superiore a quella della scienza.

Affermare che l’esistenza del mondo è una verità innegabile significa affidare alla filosofia il compito di mostrarlo. È sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che «non può» esser messo in questione. Da questo punto di vista, non mettendo in questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile, Vico rimane indietro rispetto al compito essenziale della filosofia. Ma per altro verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di fronte alla storia, alla natura, al mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima affermazione.

Il «senso comune», in cui si trova ognuno di noi da quando nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue forze. (Vi crede anche la scienza, anche quando essa si discosta dal senso comune). Ma, appunto, lo crede, ha fede nella sua esistenza, e non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a meno di credere che il sole si muova da oriente a occidente anche se la scienza gli dice che è la terra a muoversi attorno al sole, che sta fermo rispetto ad essa.

Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra di dissentire da essa; sebbene faccia questo quando il dissenziente ha meno forza del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente. Quando la filosofia del nostro tempo lo sostiene, lo può sostenere sul fondamento di ciò che per essa è la verità innegabile: l’esistenza del divenire del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di travolgere e vincere ogni «verità» che pretenda imporsi su di esse e regolarle. Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile al di sopra di sé), nemmeno la filosofia del nostro tempo lo afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi la pensa diversamente da essa.

In verità, il mondo non è il mondo (storia, natura, lo stesso altro dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti - ossia all’interno della non-verità. Tuttavia è necessario che nella verità appaia la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la negazione è necessario che la veda. È necessario cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede (ad esempio la fede nella storia e nella natura, o la fede religiosa), ossia ogni altra non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede nel mondo e che la non verità della fede nel mondo appartiene necessariamente, come negata, al contenuto della verità.

Quando Vico pensa una «scienza la quale sia insieme istoria e filosofia dell’umanità», non scorge che l’esistenza della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell’unione di storia e filosofia la storia sia illuminata dalla verità della filosofia e divenga essa stessa verità; e tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore.

Quale volto deve avere la verità che si mette autenticamente in rapporto col proprio opposto? Nel capitolo conclusivo della sua introduzione, intitolato «Prospezioni vichiane», Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura della "possibilità" del futuro, che non solo, in quanto futuro non è, ma neppure è necessario che sia». Sono d’accordo che questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè lungo il sentiero percorso da Vico. Ma aggiungo che questo sentiero è solo un tratto del grande Sentiero aperto dalla filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose (di cui sopra si parlava) è il loro uscire dal nulla del futuro e ritornare nel nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un’espressione dell’antico Parmenide, lo chiamo «Sentiero della Notte» - dove la «Notte» è l’errare estremo. Quella «prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la propria estrema coerenza in ciò che prima ho chiamato essenza (tendenzialmente nascosta) della filosofia del nostro tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado mostrando la malattia mortale - l’essenziale non-verità del mondo - che sta al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di essere l’autentica negazione dell’errore, cioè della malattia mortale che, appunto, fa dire a tutti gli abitatori del Pianeta che il futuro e il passato non sono e non è necessario che siano. Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla grandezza della posta in gioco quel tempo è minimo.

Emanuele Severino

* Corriere della Sera, 4 gennaio 2013
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/5/2013 12.57
Titolo:SENZA GRAZIA E SENZA VICO, L' "ATEOLOGIA POLITICA" DI R. ESPOSITO ...
Ateologia politica

“Basta con quel pensiero che ci tiene prigionieri”

Intervista a Roberto Esposito che in un libro affronta il rapporto tra religione e potere

Contro una tradizione che ha identificato il debito con una colpa personale

Intervista di Leopoldo Fabiani (la Repubblica, 27.05.2013)

«Tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati ». La celebre definizione di Carl Schmitt ha segnato per tutto il Novecento la riflessione filosofica sulla politica. “Teologia politica” è divenuto così un paradigma irrinunciabile per comprendere non solo i rapporti tra potere e religione, tra Stato e chiesa, ma tutta l’evoluzione della civiltà occidentale.

Ma “teologia politica” è anche una “macchina” di pensiero dentro la quale siamo da sempre imprigionati. La “cattura” non riguarda solo le menti ma, nell’era della biopolitica, anche i corpi, per mezzo del debito, figura centrale della “teologia economica”. È arrivato il momento di liberarcene. Questo è il tema dell’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, 234 pagine, 21 euro) che esce in questi giorni. Un testo che mentre ricostruisce la genealogia di questa categoria concettuale, ne mina allo stesso tempo le fondamenta.

E sostiene che se vogliamo uscirne non si tratta solo di abbandonare una millenaria tradizione di pensiero, ma anche di ritrovare le ragioni profonde del vivere insieme in una collettività.

Professor Esposito, l’idea della fede come “instrumentum regni” è solo funzionale a una ideologia conservatrice o nasconde qualcosa di più profondo?

«L’idea che senza valori religiosi dominanti non si tenga insieme una società non è solo degli “atei devoti” come Giuliano Ferrara. Anche pensatori raffinati come Massimo Cacciari o Mario Tronti credono che il riferimento alle radici teologiche sia decisivo. Ecco dimostrato, se ce ne fosse bisogno, quanto sia persistente e pervasivo questo modo di pensare».

Altri però ritengono che viviamo nell’era della secolarizzazione, del relativismo, della morale “fai da te”.

«Ma questo non significa affatto che ci siamo “liberati”. Categorie come “secolarizzazione”, “disincanto” “ateismo” sono concetti teologici negativi o rovesciati. Esistono solo all’interno di quell’orizzonte che si vorrebbe invece oltrepassare».

Possiamo fare un esempio di qualche concetto “teologico” operante nell’attualità politica di questi giorni?

«Se ne possono fare molti, pensiamo al dibattito recente sul presidenzialismo. Si è sostenuto che siamo una società che non può fare a meno della figura del padre. Ora, l’azione del presidente Napolitano è stata un bene per tutti, ha trovato soluzioni, ha sbloccato una situazione che era arrivata alla paralisi. Sul piano simbolico però c’è qualcosa che non va. Perché la democrazia non deve essere un regime di “figli”, bensì di “fratelli”. Non è vero che abbiamo bisogno di un riferimento superiore, trascendente».

Ma in cosa consiste il meccanismo oppressivo che lei attribuisce alla teologia politica?

«È una tradizione di pensiero che taglia in due le nostre vite. Che tende a realizzare l’unità attraverso l’emarginazione di una delle parti. Che esclude mentre pretende di includere. L’uguaglianza, storicamente, è stata sempre “tagliata”: tra bianchi e neri, uomini e donne. Ecco, l’Occidente che sottomette il resto del mondo, la globalizzazione che impoverisce tante parti di umanità».

Secondo lei è giunto il momento di uscire da questo “dispositivo” che ci ha catturati e impedisce un’autentica libertà di pensiero. Ma come è possibile riuscirci?

«Non è certo un compito facile, al contrario, è difficilissimo. Io credo che la cappa che ci tiene prigionieri e che dobbiamo provare a rompere, sia fondata sul concetto di persona. Più precisamente, sull’idea che il pensiero appartenga al singolo, all’individuo. Dopo Cartesio, ci pare ovvio. Invece occorre tornare a una tradizione che da Aristotele arriva a Bergson e Deleuze, passando per Averroè, Dante e Spinoza. È una catena che risale all’antichità dove il pensiero è visto come un luogo che tutti possiamo attraversare, un patrimonio cui tutti possiamo attingere. Il primo e più importante, si potrebbe dire, dei beni comuni».

Arriviamo alla “teologia economica” dove la parte centrale del suo ragionamento si svolge attorno all’idea di debito.

«Intanto pensiamo all’ironia di definire i debiti degli stati con l’espressione “debito sovrano” (concetto, quello di sovranità eminentemente teologico). Oggi, chiaramente, la sovranità non appartiene più ai singoli stati, ma alla finanza».

Cosa c’è di teologico nel concetto di debito?

«Walter Benjamin definiva il capitalismo “l’unico culto che non purifica ma colpevolizza”. L’origine teologica di questo concetto è chiarissima. Se pensiamo che nella lingua tedesca la stessa parola significa sia debito sia colpa, capiamo molte cose. Comprendiamo perché i tedeschi vivano se stessi come virtuosi e considerino ad esempio i greci non solo indebitati, ma anche colpevoli. Ma oggi, attraverso il debito pubblico, siamo tutti indebitati».

Siamo tutti “prigionieri” del debito?

«Nietzsche diceva che il debito ci ha reso tutti schiavi gli uni degli altri. E non solo in senso simbolico. Il cerchio biopolitico che lega il corpo del debitore al creditore ha origini lontane. L’istituzione romana del “nexum” consegnava il destino della persona indebitata al suo creditore, che ne poteva disporre liberamente, per la vita e per la morte. Il mercante di Venezia di Shakespeare pretende di essere ripagato con una libbra di carne da chi non può farlo col denaro. Ma anche oggi il debito si paga con la vita. Pensiamo agli immigrati che devono ripagare per sempre con il lavoro chi gli ha prestato i soldi per uscire dai loro paesi. Pensiamo ai suicidi per debiti».

Se siamo arrivati a questo punto non è solo frutto della “macchina” teologica, ci sono anche responsabilità più recenti.

«Senza dubbio tutto questo processo è stato agevolato dalla governance liberale, attuata a partire dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, che non ci ha affatto liberato, anzi. Ha trasformato il welfare in un peso insostenibile, teorizzando il “Lightfare”, lo stato leggero. È l’ideologia dell’“ognuno per sé” che ha portato alla crisi e reso il 99% della popolazione più povera».

Per liberarci come individui, lei sostiene, bisogna agire collettivamente.

«Io credo di sì. Il meccanismo di sviluppo va cambiato, dobbiamo tornare a pensare agli investimenti socialmente utili, non al guadagno personale. In questo ci aiuta il concetto di “communitas”. Che significa avere in comune un “munus”, parola che originariamente significava al tempo stesso debito e dono. Nelle società arcaiche il debito era vissuto come un legame sociale. Essere comunità non significa cercare di sopraffarsi uno con l’altro, ma sentirsi vincolati da un dono di fratellanza ».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/6/2013 12.30
Titolo:SULLE RADICI DEL COGITO ERGO SUM
Quel senso interno che ci dice: “sei vivo"

Il nuovo saggio di Daniel Heller-Roazen sulle radici del “Cogito ergo sum”

di Valerio Magrelli (la Repubblica, 01.06.2013) *

Daniel Heller-Roazen, professore di letteratura comparata a Princeton e traduttore di Giorgio Agamben, è un autore piuttosto eterodosso, o meglio, come è stato affermato da Carlo Ginzburg, “eclettico”. Dopo aver pubblicato Ecolalie, un saggio sull’oblio delle lingue, e Il nemico di tutti, uno studio sulla figura del pirata, Quodlibet propone adesso Il tatto interno. Archeologia di una sensazione.

Il primo titolo, spaziando fra mitologia, psicoanalisi, teologia, linguistica e letteratura (con Ovidio, Dante, Poe, Canetti), partiva da un punto di vista medico. Indagando l’ecolalia, cioè quel «disturbo che consiste nel ripetere involontariamente parole o frasi pronunciate da altre persone», le sue pagine ampliavano il senso di questa patologia, riconducendola alle origini del linguaggio stesso. Così facendo, dischiudeva nuove prospettive sul rapporto fra oralità e scrittura, memoria e l’oblio: «Ogni lingua è l’eco di quella babele infantile la cui cancellazione rende possibile la parola».

Con il secondo volume, la scena cambia radicalmente, passando dalla lallazione del bambino alla predazione del bandito. Qui Heller-Roazen muove da Cicerone, per ricordare che, se esistono nemici con i quali si può negoziare e stabilire una tregua, ne esistono altri con cui i trattati restano lettera morta e la guerra continua senza fine. Si tratta dei pirati, che gli antichi consideravano “i nemici di tutti”.

Il pensiero giuridico e politico ha approfondito questa tema per secoli, ma mai come oggi, afferma l’autore, il pirata costituisce l’immagine dell’avversario universale. Dopo essere stato considerato un personaggio del lontano passato, il nemico di tutti è oggi più vicino a noi di quanto si possa pensare, anzi, forse non è mai stato così vicino. Siamo così al terzo volume, nel quale, tra “paradigma ecolalico” e al “paradigma piratico”, Heller-Roazen cambia ancora una volta paesaggio esperienziale.

Abbandonato l’universo linguistico, accantonata la dimensione bellica, adesso la sua indagine ruota attorno a una facoltà chiamata “senso comune”, e assimilata a una sorta di “tatto interiore, attraverso il quale percepiamo noi stessi”. Anche in questo caso ritroviamo una mescolanza di discipline, una predilezione per la letteratura, un rigore documentativo (cento pagine di note e bibliografia), che devono molto alla lezione di Walter Benjamin.

Cominciando con un racconto di E.T.A. Hoffmann sul celebre gatto Murr e terminando con le ultime scoperte della neurologia, venticinque brevi capitoli passano in rassegna filosofi dell’Antichità, pensatori arabi, ebrei e latini del Medio Evo, Montaigne, Francis Bacon, Locke, Leibniz, Rousseau, Proust, fino agli psichiatri del XIX secolo. Al centro delle indagini sta il confronto fra natura umana e animale, da Crisippo a Plutarco, che all’intelligenza dei cani dedicò un celebre trattato.

Ma scendiamo nel vivo del testo, esaminando il quinto capitolo, arricchito da un sottotitolo che suona: «In cui Aristotele e i suoi antichi commentatori spiegano perché gli animali, lungo tutta la loro vita, non possono mancare di accorgersi di esistere ».

Confrontato con il De anima del sommo filosofo greco, il suo De sensu appare un trattato più modesto. Eppure, gli studiosi novecenteschi sono rimasti colpiti dalla sua somiglianza con la famosa prova cartesiana, tesa a dimostrare come l’essere pensante non possa dubitare della propria esistenza: noi percepiamo sempre noi stessi, noi siamo sempre consci di esistere. Ma qui occorre introdurre una precisazione.

Infatti, a differenza del Cogito ergo sum (“penso dunque sono”) di Cartesio, Aristotele, con il suo Sentio ergo sum (“sento dunque sono”), sposta l’accento dalla sfera razionale a quella percettiva. Inoltre, mentre il primo sostiene la continuità fra specie umana e animali, il secondo vede in queste ultime delle semplici macchine: basti citare l’aneddoto di un suo allievo che prese a calci una cagna incinta, ritenendola appunto nient’altro che un mero congegno organico. Distinguendolo quindi da Cartesio, Heller-Roazen preferisce avvicinare le posizioni di Aristotele al concetto di “continuum” in Leibniz. Tornando all’oggetto di queste esplorazioni, ci si trova dunque ad affrontare la storia della percezione che ogni creatura ha della propria vita.

Secondo Agamben, una simile archeologia della sensazione permetterà di porre un problema su cui filosofi e scienziati non potranno evitare di interrogarsi: qual è il senso col quale, al di qua o al di là della coscienza, sentiamo di esistere? Cosa vuol dire, cioè, sentirsi vivi?

A tale domanda Heller-Roazen risponde analizzando un insieme di fenomeni che giocano un ruolo cruciale proprio nella definizione dell’esistenza animale. Ecco venire allora in primo piano alcuni argomenti sul rapporto che lega il corpo alla mente: sonno e veglia, percezione e anestesia, coscienza e incoscienza. Dopo l’apparizione di gatti e cani, lepri, cozze, granchi, ora è la volta dell’uomo, colto però nei suoi stati più labili e alterati. Quali disturbi avvengono al nostro risveglio? Oppure: cosa accade quando si verifica il fenomeno del cosiddetto “arto fantasma”? Lunga è la storia del nostro “tatto interno”, e questo testo la ricostruisce in maniera tanto rigorosa quanto avvincente.

* IL LIBRO Tatto interno di Daniel Heller-Roazen (Quodlibet trad. di G. Lucchesini pagg. 364 euro 26)
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/6/2013 10.00
Titolo:ALLE RADICI DELLA FILOSOFIA DI VICO
Alle radici della filosofia di Vico

di Massimo Cacciari ( La Repubblica - 26/01/2008)

In un volume intitolato "Metafisica e metodo" tornano due opere giovanili con molti temi che resteranno centrali fino alla "Scienza Nuova"
- Un grandioso sforzo di ripensamento del senso dell’Umanesimo
- Un sapere che procede per tracce e ricorre alla forza dell’intuizione e dell’immaginazione

In un grandioso sforzo di ripensamento teoretico del senso dell’Umanesimo, Vico coglie l’accordo con la filologia come dimensione essenziale della filosofia stessa. La boria dei dotti si esprime con maggiore evidenza forse proprio nella pretesa di intendere la parola come semplice mezzo per comunicare il pensiero, strumento a sua disposizione. Ma non si dà pensiero che non sia pensato dalle sue stesse parole.

Un pensiero che non riflette su tale "presupposto" non solo sarà un pensiero "sordo alla storia, ai sensi, alla vita sociale" (Gentile), ma neppure sarà in sé teoreticamente fondato. Già il dire "cogito" significa appartenere ad un linguaggio, ad una tradizione, indicare una provenienza, ek-sistere. Ed un "cogito" che non abbia coscienza di ciò non potrà mai fondare una scienza.

Nessuna scienza senza coscienza della propria origine; nessun logos che non sia fenomenologia: storia della sua "materia" e, in uno, sapere che mostra le forme della sua genesi e del suo apparire (la Krisis delle scienze europee non maturerà, per Husserl, proprio su questo stesso terreno? e cioè dall’oblio della co-scienza di sè da parte del progetto scientifico?).

Autentica genealogia. Prima dei filosofi le leggi, prima delle leggi la lingua, prima della lingua la non-lingua. Prima del "sum" che risuona "vittorioso" nell’"io sono-io penso", il sum "astrattissimo", è il "sum" che dice il mangiare, che indica l’alimento che ci sostiene, la "sostanza" che sta sotto, «ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste; ond’Achille...». Lì, «ne’ talloni», occorrerà perciò pervenire, se non si vuole pensare l’"essere" senza alcun fondamento, se non si vuole fare della filosofia esattamente il contrario di ciò che deve essere: ritorno alla cosa, comprensione dell’effettuale oltre la doxa, l’opinio, il parlare in-cosciente. Il pensare si costituisce così come pensiero dell’origine e la filologia non ne esprime che l’intrinseca, rammemorante dimensione.

Ma il cerchio è lungi, a questo punto, dal chiudersi "virtuosamente"; proprio qui, anzi, viene alla luce tutta la drammatica della "nuova scienza". L’ordine delle idee procedente secondo l’ordine delle cose non giunge ad un fondamento. Il "discendere" alla coscienza dell’origine, che tanta pena comporta, non mette capo a una solida terra su cui poggiare quei nostri "talloni", ma propriamente all’opposto: a un "luogo" appena intendibile e nient’affatto immaginabile. Al toglimento di ogni fondamento.

L’etymon, la radice ultima e vera delle parole, che è oggetto di una "etimologia filosofica" o di una «filologia nata in Platonia» (Warburg), sprofonda oltre ogni filologicamente-filosoficamente accertabile. Si apre un abisso della e nella parola che proprio le "nozze di filologia e filosofia" rivelano: ogni origine "certa" si affaccia all’incertissimo che ne è arché, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l’ignoto, ogni dimensione definita l’ancora definiendum. Ecco, abbiamo raggiunto coscienza del significato latino di questo termine; ma quale ne è l’etymon? quale l’origine?

Di nuovo, il "descensus" di Vico, a differenza di quello di Enea, non ha termine. E perciò "revocare gradus" gli sarà tanto più penoso. Entrambi, nell’itinerario, compiono straordinarie esperienze, scoprono volti e luoghi; non c’è spazio per accidiose disperazioni; ma l’antico giunge tuttavia "alle madri", mentre il nuovo, il "moderno" alla domanda, la stessa di Goethe: giù, via da ciò che appare ben definito e formato, giù al gioco eterno della metamorfosi - «ma la madre, dove è?». La parola ci inghiotte al suono, al corpo, alle immagini primordiali del suo agire (...), così come l’immagine della milizia rinviava a ferocia, mercatura a avarizia, l’eleganza del cortigiano a ambizione, la monarchia alla barbarie eroica. (...)

Piena coerenza dell’analogia: come l’uomo fa la sua storia senza tuttavia mai poter sapere gli effetti del suo agire, così egli pensa e dice senza mai poter giungere a perfetta co-scienza del "fondo" del suo dire, proprio perché cosciente che tale "fondo" non è linguaggio. L’inopia magna del nostro pre-vedere è l’altra faccia del limite costitutivo della nostra memoria - che perviene al suo ultimo soltanto quando ricorda l’immemorabile.

E sulla soglia dell’immemorabile non stanno gli Zoroastri e gli Orfei, ma «ci rimangono i bestioni» nessun paradiso o età dell’oro, nessun mito edenico; provvida sventura la cacciata da Eden, ma non perché, come per Hegel o Schelling, da quel "momento" abbia inizio la disvelatrice marcia trionfale dello Spirito; solo il corso della storia umana, provvidenzialmente e non progressisticamente, come vedremo, ordinato genera la perdita di ogni paradiso in terra.

La filosofia che si ostina a meditare soltanto «sulla natura umana incivilita» si ritrae atterrita dal thauma, dallo spettacolo meraviglioso-tremendo, della natura umana dalla quale provengono religioni e leggi, ma perché quella natura non sembra dotata di logos - e non è per la filosofia l’uomo quel vivente caratterizzato proprio dall’"arma" del logos? In questa natura, in questa physis, il nascimento più sorgivo, getta invece lo sguardo con cosciente ardimento la "scienza nuova", "armata" dei suoi assiomi e delle tradizioni «lacere e sparte» che la filologia permette di accertare.

Il viaggio nella memoria fino al suo stesso fondo-non-fonda va fatto valere, dunque, come co-scienza della modernità. Nessun culto antiquario dell’Antico, nessuna sedentaria erudizione, e così critica radicale della pretesa auto-referenzialità dell’Io penso, fondamento del moderno sapere. Ma scienza, comunque, avrà da essere, e ciò comporta comprensione e comunicazione della materia che essa raccoglie. Qui la nuova aporia: come potremo conoscere ciò che ci appare così essenzialmente diverso? come potremo comprendere ciò che "i bestioni" avvertono? partecipare a quella, per dirla con Hegel, «ebbrezza del sentire».

Le domande centrali dell’ermeneutica sono tutte palpitanti in Vico. Come avanzare la pretesa di conoscere l’altro? Qui non può essere in gioco una forma "cartesiana" di conoscenza; anzi, orgogliosamente Cartesio inizia affermando la sua assoluta indifferenza, prima ancora che estraneità, ad ogni linguaggio che egli giudichi "straniero". Il sapere della "nuova scienza", un sapere indisgiungibile dal rammemorare (straordinaria "re-invenzione" dell’anamnesis platonica!), dovrà non solo essere indiziario, procedere per tracce, ma anche necessariamente ricorrere alla forza dell’intuizione e della immaginazione.

Che è autentica vis, e non pensiero degradato, sapere dimidiato. La vis imaginativa si sposa all’acribia filologica, all’evidenza delle idee che la metafisica contempla nella Mente divina. La facoltà dell’immaginare, Einbildungskraft, è, possiamo davvero dire, facoltà del giudizio. Non si giudica del passato, dell’altro, senza di essa. Senza con-sentire in qualche modo con la forza della sua fantasia, con la violenza delle sue passioni, sentimenti e affetti, mai potremmo intenderlo. Non si pensa non immaginando.

Come si pensa-in- parole, come non c’è "cogito" se non nella sua espressione linguistica, così non v’è logos che sia astratto da pathos. Ed è per questo che possiamo, nonostante la abissale distanza, nonostante la differenza che ci divide da "ciò" che non è lingua, che non è logos, tuttavia con-sentirlo e intenderne la voce ("prima" voce, o grido o canto, che a sua volta si apre ad un silenzio insondabile: quello cui si è prima accennato, della storia davvero sacra, la generazione del proprio Verbum uni-genitum da Dio-in Dio).

La visione del passato, co-scienza della filosofia, esige filologia e immaginazione. Esso deve perciò trasmettersi anche per immagini. Senza la loro "guida" e senza un profondo con-sentire sarà impossibile condurre la nostra "visita". Ma syn-pathein è possibile, a sua volta, solo se in noi permane l’eco di ciò che andiamo "visitando". Ciò che nel "moderno" è il valore emeneutico del pathos, in quanto capacità di connessione, in quanto organo di una "logica dell’analogia", deve "ricordare" in sé, per poterci permettere di intendere il più profondo passato, l’esperienza che di esso, come del loro presente, compirono gli uomini che lo attraversarono.

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