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www.ildialogo.org IN PRINCIPIO ERA IL PANE E LA CONDIVISIONE, LA COMUNIONE ("EU-CHARISTIA"), NON LA CARESTIA ("CARITAS"). La lezione del Talmud. L'intervento di  Marc-Alain Ouaknin al Festival Internazionale di cultura ebraica (Milano, 28 settembre.- 01 ottobre 2013) - con note ,a c. di Federico La Sala

EBRAISMO, CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST") E CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno Papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IN PRINCIPIO ERA IL PANE E LA CONDIVISIONE, LA COMUNIONE ("EU-CHARISTIA"), NON LA CARESTIA ("CARITAS"). La lezione del Talmud. L'intervento di  Marc-Alain Ouaknin al Festival Internazionale di cultura ebraica (Milano, 28 settembre.- 01 ottobre 2013) - con note 

Essere significa condividere il pane! Ascoltare la parola della Trascendenza significa sentirsi responsabili della fame di tutti gli uomini! La spiritualità dell’uomo che cerca di ascoltare «la voce che viene da lontano» inizia con la fame appagata degli uomini. L’etica della frazione del pane è la traccia della trascendenza nell’immanenza, la speranza stessa della sua presenza. È questo pane, sotto forma di shever in ebraico, che troveremo come elemento centrale nella risoluzione delle varie carestie (...)


a c. di Federico La Sala

Note preliminari: 

GUARIRE LA NOSTRA TERRA. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" 

SINODO DEI VESCOVI 2008: L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO - AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.

IL "DIO" DEI MERCANTI E IL SILENZIO DEI FILOSOFI (OLTRE CHE DEI TEOLOGI). «Agàpe eros e philia» nell’orizzonte ratzingeriano. L’intervento di Vincenzo Paglia al festival di filosofia di Modena - con note (fls)

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In principio era la fame

di Marc-Alain Ouaknin (Il Sole-24 Ore, 22 settembre 2013)

  • Se durante i giorni lavorativi l’uomo tende a vivere secondo le modalità dell’avere, in un certo senso «l’uomo è solo ciò che ha», il Sabato prevale la modalità dell’essere e «l’uomo è ciò che è». Lo Shabbat, il sabato ebraico, è il tema della prima edizione di «Jewish and the city - Festival internazionale di cultura ebraica» che si terrà a Milano dal 28 settembre al 1 ottobre.
    Marc-Alain Ouaknin terrà una Lectio magistralis martedì 1 ottobre alle ore 21 presso la Sinagoga centrale di Via Guastalla 19. Ne anticipiamo il testo
    .
    Il programma: www.jewishandthecity.it

 

In che senso il Talmud è un Libro aperto? Innanzitutto è un libro non dogmatico, un libro che pone continuamente interrogativi, rifiutando i dogmi e le verità definitive. Ma il Talmud è aperto anche nel senso che ogni pensiero è sempre calato all’interno di un dialogo e di una controversia, con la consapevolezza, come dice Antonio Lobo Antunes, che «è impossibile pensare senza contraddizioni, impeti, rimorsi, senza quella forma di furore indignato di un roveto ardente che getta le idee e le emozioni le une contro le altre in una perpetua esaltazione».

Ma possiamo intenderlo aperto anche nel senso di una finestra che si apre sul mare. Allora la domanda diventa: Su cosa è aperto il Talmud? Che cosa vediamo quando apriamo le finestre di questa grande casa dei pensieri, degli studi e delle interpretazioni che è il Talmud? Il Talmud si apre sull’oggi! Sui problemi del mondo di oggi, dell’uomo di oggi!

Ma esiste ancora un altro significato di "aperto": Libro aperto con. Ossia: con che cosa apriamo il Talmud? Quale ne è la chiave? Che cosa permette di entrarvi? Di coglierne il segreto? E ancora: Con cosa si apre? Ossia, quali sono le sue prime parole, le sue prime preoccupazioni? Qual è l’Incipit fondante? «Può accadere che una parola, una sola, nascosta nel corpo di un libro o di un’opera ne sia il sigillo misterioso - ha scritto Jean-Louis Jacques -. Si potrebbe dire allora che il segreto, di cui ogni pagina del libro o dell’opera espone un frammento, al tempo stesso oscuro e luminoso, si trova, concentrato all’estremo, nella musica e nel disegno che compongono le poche sillabe di quella parola».

Dal momento che il Talmud è il commento per eccellenza della Bibbia, mi sono chiesto cosa accadrebbe se in questa frase si sostituisse la "parola" con il "versetto"? Potrebbe esistere un versetto biblico che incarni «quel frammento al tempo stesso oscuro e luminoso»?

Probabilmente ne esistono molti, ma mi è parso che nel nostro mondo, dove tutto è numeri, calcoli e statistiche, il più piccolo versetto della Bibbia potesse forse essere uno di quei versetti. Ovviamente non il più famoso o conosciuto, e neanche il più ovvio, né il più centrale, ma un versetto che si cela umilmente nell’angolino recondito di una pagina, nell’attesa che il lettore capisca che è forse quella la chiave che apre le porte della Grande Casa...

Dissimulato all’inizio del capitolo 43 del Genesi, questo versetto è veramente il più piccolo! Solo tre parole, neppure difficili da tradurre: Vehara’av kavèd baaretz, «E la carestia gravava sul paese». Tre parole che richiamano tutte le carestie bibliche evocate nel testo, che confluiscono in un’unica grande arteria, vera e propria colonna vertebrale di tutta l’opera.

"Carestia" che appare immediatamente nel momento stesso della grande Rivelazione ad Abram (ancora non è diventato Abraham), solo una decina di versetti dopo il celebre «Va verso te stesso!», Lèkh-lekhah: «E ci fu una carestia nel paese e Abram discese in Egitto per soggiornarvi, poiché la carestia gravava sul Paese», che include, con nostra grande sorpresa, una variante del più piccolo versetto che abbiamo appena citato.

Perché la Rivelazione, che fece entrare l’umanità nel monoteismo biblico, è contemporanea della vicenda della carestia? Perché non possiamo fare conoscenza con la Trascendenza del divino senza vedere apparire il più piccolo versetto? La prima domanda e la prima risposta di tutto il Talmud, le sue prime parole, la prima frase, sono meematai qorein et shema’ be’aravin? «Da quando si legge la preghiera dello shema’ la sera?», domanda liturgica che possiamo intendere in modo più filosofico e più teologico, poiché la traduzione lo consente, «Da quando si capisce qualcosa della Rivelazione?» A questo interrogativo la risposta più semplice sarebbe stata «Dal momento in cui appaiono le tre stelle», ossia dall’inizio della sera.

Ma il Talmud ha preferito rispondere: «Dal momento in cui i Cohanim, i sacerdoti, tornano a casa e mangiano il pane consacrato, la Terumah». Incipit talmudico che potrebbe riassumersi con una formula spesso utilizzata dal filosofo Emmanuel Lévinas, che cita il rabbino Yohanan: «Grande è il mangiare», commentando in questo modo: «In principio era la fame»!

La carestia evocata nella Bibbia è il tema principale del Talmud. Questa carestia ai tempi di Abraham, che permea il momento della Rivelazione monoteista, ripetuta al tempo di Isacco, poi al tempo di Giacobbe, diverrà il motore stesso della storia ebraica. Non c’è storia ebraica senza carestia! Non già per affamare gli Ebrei, ma per ricordare loro, costantemente, di preoccuparsi della fame altrui.

Essere significa condividere il pane! Ascoltare la parola della Trascendenza significa sentirsi responsabili della fame di tutti gli uomini! La spiritualità dell’uomo che cerca di ascoltare «la voce che viene da lontano» inizia con la fame appagata degli uomini. L’etica della frazione del pane è la traccia della trascendenza nell’immanenza, la speranza stessa della sua presenza. È questo pane, sotto forma di shever in ebraico, che troveremo come elemento centrale nella risoluzione delle varie carestie, come testimonia il versetto in cui Giacobbe dice ai propri figli di scendere in Egitto per cercare grano e cibo: ki yèsh shever bemizrayim, ossia: «poiché c’è grano e cibo/pane in Egitto».

La parola Shever, il "pane" e il "cibo", viene dalla radice SHaVaR, "spezzare", "rompere", "frazionare", "frammentare", che ha dato origine ai vocaboli "rottura", "fragile", e ai verbi "pensare" e "sperare"!

"Pane" e "rottura"! Probabilmente perché mangiare è sempre spezzare il digiuno, come spiega il Rabbino David Kimhi. Gli Inglesi lo ricordano con il loro breakfast, che letteralmente significa "rompere" (break) il "digiuno" (fast). E anche i Francesi con il loro dé-jeûner e con il petit-déjeuner!

Se il Talmud è un "Libro aperto" è anche perché si dimostra aperto alle altre lingue, lui che è scritto in ebraico e aramaico, che non rifiutò le parole di origine greca o latina, e di cui ogni pagina è arricchita dalle chiose di Rashi, che introdusse nell’edizione divenuta "canonica" - (ricordiamo peraltro che fu stampato a Venezia nel 1523) - diversi vocaboli del francese dell’epoca. Aperto sulle altre lingue, il Talmud non avrebbe pertanto disdegnato le scoperte della linguistica comparata, che ci insegnano come il rapporto tra la rottura e il pane esista già nella radice indoeuropea bregh (vregh, fregh), che ritroviamo poi nell’inglese break e nel tedesco brechen, senza dimenticare il francese briser. La stessa radice la ritroviamo in bread e Brot, brother e Bruder, frères e frater.

Ma Bread e Brot non godono però di quella "denominazione d’origine" che il francese chiama "pane" proprio perché si spezza, si rompe, si brise, si break e si "Brecht", insomma si condivide tra frères (fratelli), tra Brothers e Brüder. Il fratello sarà pertanto sempre "fratello di pane", così come si dice "fratello d’armi". Vicinanza ravvisabile anche in "copains", che sono veramente, secondo il dizionario etimologico della lingua francese, «coloro che dividono il pane», cumpanio (cum-panio), da cui cumpanionem, il "compagno" . Condivisione poi del "pane" e del "sogno", se si pensa che shévèr significa anche "interpretazione del sogno". Ecco forse perché le prime lettere del Bereshit introduttivo della Genesi non sono nient’altro che l’anagramma di shever! In principio era il pane, e la sua condivisione...


Sul tema, in rete, si cfr.:

-  IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")!
-  ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!

-  IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. La Memoria, la Filologia e ... la Teologia del "latinorum"
-  LA CARESTIA E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA!!! "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1Gv., 4., 1-8). LO SCEMPIO DEL "CORPUS DOMINI".

A CHE GIOCO GIOCA LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA?!... A CHE STA LAVORANDO FRANCESCO? ALLA RESTAURAZIONE DEL POTERE DEL "DOMINUS IESUS" PER MOLTI O ALLA RESTITUZIONE DEL "LUMEN GENTIUM" A TUTTI?! Il papa è demagogo? Un commento di Jean Mercier - con note



Domenica 22 Settembre,2013 Ore: 16:34
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 23/9/2013 19.43
Titolo:La santita' primordiale...
La santità primordiale

di Jon Sobrino (Adista Documenti n. 33 del 28/09/2013)

I. NELLE SITUAZIONI LIMITE

Nella decisione primaria, personale e di gruppo, di vivere e di dare vita, così come appare in occasione di talune atrocità storiche e catastrofi naturali, si rende - si può rendere - presente qualcosa che possiamo definire santità primordiale.

1/ Africa

Nel 1994 apparvero sui nostri teleschermi carovane di migliaia di donne che fuggivano dal genocidio in Rwanda e camminavano verso il Congo con i bambini aggrappati alle mani e con la casa - ciò che di essa rimaneva - dentro ceste sopra la testa. Camminavano insieme, le une con le altre, come sorreggendosi l’una con l’altra. Sui loro volti appariva la distanza infinita rispetto a ciò che sono le nostre vite, alterità che imponeva un silenzio totale e per esprimere la quale penso non vi siano parole adeguate. Tuttavia, dal di dentro, senza ragionarci tanto, mi sono uscite le parole che danno il titolo a quest’articolo: la santità primordiale. Si rendevano presenti ultimità, eccezionalità e capacità di salvezza.

Il luogo. Detto con sommo rispetto, l’Africa è nella nostra epoca uno dei luoghi in cui appare con maggior forza questa santità primordiale. Normalmente ciò appare in televisione e nei racconti di coloro che lì hanno vissuto. In Mozambico, durante le inondazioni di alcuni anni fa, si potevano vedere esseri umani in preda a una totale disperazione e nello stesso tempo con una speranza incrollabile mentre levavano le loro mani verso elicotteri che potevano soccorrerli. In Biafra, Etiopia, Somalia, spesso si vedono madri con bambini famelici, e moltitudini di uomini e donne condannati alla morte per AIDS. Da carceri e campi profughi arrivano racconti di incredibile miseria e crudeltà. E altrettanto impressionante è la loro lotta per la vita.

In tutto ciò si rende presente l’enigma dell’iniquità, espressione che preferiamo a quella di mysterium iniquitatis (riserviamo il termine "mistero" per riferirci alla realtà del bene. Almeno nel linguaggio vogliamo interrompere una totale simmetria tra il bene e il male). E simultaneamente si rende presente l’anelito e la volontà di vivere - e di convivere gli uni con gli altri - in mezzo a grandi sofferenze, fatiche, per tirare avanti con creatività, resistenza e. fortezza senza limiti, sfidando ostacoli immensi. In ciò appare la dignità delle vittime e la solidarietà tra di loro. L’abbiamo chiamata santità primordiale .È il mysterium salutis. Soggettivamente questa realtà mette paura e fa tremare. Ma può produrre fascino e incanto. Ricordiamo le parole di Rudolf Otto: il sacro è fascinans et tremendum. Di conseguenza, là dove sperimentiamo qualcosa che affascina e che atterrisce siamo di fronte a ciò che possiamo chiamare sacro. Tale sacralità primordiale appare prevalentemente in situazioni-limite di esseri umani che sono poveri e vittime. A noi che non siamo poveri né vittime non viene facile, né credo sia possibile, comprendere pienamente questa santità, anche se, spero, possiamo dire qualche parola sensata su di essa.

E si dà a conoscere a noi come dono. Non c’è stato bisogno di scoprire una santità primordiale per fare di necessità virtù, affinché la ragione potesse trovare un po’ di quiete. Lo affermiamo perché è così, ci è stato dato. A coloro che hanno lo sguardo pulito si impone. L’esperienza ha, dunque, una dimensione di grazia: la realtà si lascia vedere.

Infine, la santità primordiale porta salvezza. Può essere soltanto un debole assioma, ma penso che ogni santità salva. Se e come la santità primordiale salva poveri e vittime solo loro lo sanno, ma a noi che siamo quelli di fuori porta salvezza: ci può ricondurre a quanto vi è di più originario in noi. E ci può riportare a Dio. Lo proclama in questi termini la testimonianza - ed è una fra le tante - di una religiosa che ha trascorso svariati anni in Africa: «Non è difficile lodare e cantare quando si ha tutto assicurato. La cosa meravigliosa è che coloro che ricostruiscono le loro vite dopo catastrofi e terremoti, e i prigionieri di Kigali che oggi riceveranno le visite dei loro familiari (che con fatica e sudore potranno portare loro qualcosa da mangiare), benedicono e rendono grazie a Dio. Non saranno per caso loro i prediletti e coloro dai quali abbiamo da imparare la gratuità? Oggi ho ricevuto una loro lettera. A volte non ci rendiamo conto di quanto riceviamo da loro e come essi ci salvano».

2/ El Salvador

Abbiamo iniziato dalla lontana Africa, poiché a noi che diamo la vita per scontata e viviamo un qualche grado di benessere l’Africa appare come prototipo di alterità, alterità che in qualche modo è sempre una dimensione della santità. Ma realtà come quella descritta in Biafra, non sempre in un grado così estremo, si verificano anche altrove e in altri tempi.

Nel Salvador è accaduto durante gli anni di repressione e di guerra, dal 1975 al 1992. Vi sono molte storie del tremendum et fascinans: contadini che scappavano di corsa durante la notte, donne con i piccoli in braccio, a cui tappavano la bocca perché non se ne udisse il pianto - e un bambino è morto asfissiato. Tra di loro si rincuoravano a vicenda. Fino a oggi tutto ciò lascia stupefatti. E ci pone davanti a qualcosa di sacro.

Il tremendum et fascinans apparve anche nel terremoto del gennaio 2001, seguito da un altro nel febbraio dello stesso anno, nei dintorni della città di Santa Tecla, luogo dove io risiedo. La morte a causa dei crolli, la distruzione di abitazioni, il dover vivere esposti alle intemperie, ha prodotto un orrore tremendo. E l’ingiustizia sfacciata ha prodotto indignazione: il terremoto colpì immensamente di più i poveri di sempre anziché coloro che possono edificare con materiale adeguato. Il Salvador, come il Terzo mondo nel suo insieme, non è adeguato per la vita delle maggioranze povere (solo un dato: nel terremoto morirono più di 1.250 persone. Un esperto ha calcolato che in Svizzera un terremoto delle stesse dimensioni sismologiche avrebbe causato il decesso di cinque o sei vittime al massimo).

E apparve nuovamente la santità primordiale. Donne con quel che poterono salvare, sempre pronte a prendersi cura della vita, cucinavano e condividevano. Uomini, sempre pronti quando la vita richiede vigore fisico, smuovevano montagne di terra e si davano da fare per recuperare cadaveri e persone rimaste sotterrate. Apparve la tragedia e l’incanto dell’umano.Ho pubblicato in quell’occasione alcune riflessioni, che possono sembrare superflue in tempi di normalità e scomode in contesti di abbondanza dove la vita si dà per scontata e quando gli effetti delle catastrofi si riparano con relativa celerità. Mi sembrano necessarie, e spero che possano dare un po’ di luce.

E non voglio terminare questa parte introduttiva senza segnalare che, in situazioni-limite, la santità primordiale può dare molto e può raggiungere altezze insospettabili. Massimiliano Kolbe, in un campo di concentramento, ne è un esempio eminente.

II. LA SANTITÀ PRIMORDIALE NELLA VITA QUOTIDIANA

Abbiamo descritto la santità primordiale così come appare in situazioni-limite, ma si dà anche, come si può sperare, nella vita quotidiana della gente povera e semplice. Per molti esseri umani questo è il modo abituale di vita. E ciò avviene in gradi diversi all’interno di una gamma molto ampia.

Ci sembra importante evidenziarlo. Circa 925 milioni di persone soffrono la fame, e nei Paesi poveri muoiono ogni anno circa 11 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni. Esistono popoli depredati come il Congo o ignorati come Haiti. Negli ultimi quindici anni in Centroamerica si è sviluppata un’ondata di omicidi che è diventata come un’epidemia: la malattia che produce il maggior numero di morti.

Queste immense moltitudini sono gli anawim della Bibbia. Vivono ricurvi sotto un pesante carico e non danno la vita per scontata. E sono gli oppressi, gli emarginati e i disprezzati, i pubblicani e le prostitute. Vivono nei bassifondi e ai margini della società.

Credo tuttavia che poche volte la teologia si sia chiesta quale eccezionalità abbia la vita di queste moltitudini. Ciò è stato fatto in America latina, tra gli altri con Ignàcio Ellacuría, Pedro Trigo e Puebla. Vediamo come.

Nel Salvador, Ignacio Ellacuría ha definito le maggioranze popolari “popolo crocifisso”. Storicamente è «quella collettività che forma la maggioranza dell’umanità e deve la sua situazione di crocifissione a un ordinamento sociale promosso e sostenuto da una minoranza che esercita il dominio grazie a un insieme di fattori, i quali, essendo interconnessi e data la loro concretezza storica, devono ritenersi come peccato». La citazione fa riferimento a Gesù di Nazareth, grazie al quale si attribuisce eccezionalità cristiana al popolo crocifisso. E sub specie contrarii, a partire dal peccato che dà morte, la citazione esprime la ultimità che è presente in queste maggioranze.

In un altro testo, con riferimento al Concilio Vaticano Il, Ellacuría ha affermato teologicamente che «il popolo crocifisso è sempre il segno dei tempi». Caratterizza il nostro mondo (cfr GS 4) ed è luogo della presenza di Dio (cfr GS 11). «E la continuazione storica del servo di Yhwh, a cui il peccato del mondo continua a togliere ogni apparenza umana e che i poteri di questo mondo continuano a spogliare di tutto, continuandogli a strappare perfino la vita, soprattutto la vita». E il popolo crocifisso, come il servo sofferente di Yhwh, porta salvezza.

Ellacuría ha insistito sulla negatività del peccato che dà morte. Tuttavia, la grande novità che egli afferma è che il popolo crocifisso porta salvezza. L’affermazione è così scandalosa che solo «in un difficile atto di fede il cantore del servo è capace di scoprire ciò che appare come tutto il contrario agli occhi della storia». In questo modo Ellacuría riconosceva eccezionalità alla vita e al destino delle maggioranze popolari. In esse emerge una santità primordiale.

Pedro Trigo, dopo molti anni trascorsi in Venezuela, in una realtà difficilissima per le maggioranze, anche se non caratterizzata da una violenza così funesta come quelle che abbiamo ricordato, a partire dalla convivenza con la gente povera e semplice, scrive: «Al livello minimo dell’umano si dà il passaggio pasquale del Dio di Gesù Cristo per la Nostra America». È un testo magnifico per comprendere la santità primordiale vissuta quotidianamente e durevolmente. (...).

A Puebla, nel 1979, i vescovi dissero cose nuove e importanti sulle maggioranze del continente. Le ricordiamo, poiché purtroppo quelle cose sono andate perdendo di vigore. E perché, tenendo conto del tema di questo articolo, sono precorritrici nel proclamare l’eccezionalità della vita dei poveri. (...).

Puebla mostra compassione per i poveri ed esige dai cristiani di metterla in pratica: è l’opzione per i poveri. Ma poi si concentra sulla eccezionalità di vita di questi poveri, cosa che fa in due modi. In primo luogo, i poveri sono amati da Dio, senza condizioni, «qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano». E lo spiega. «Fatti a immagine e somiglianza di Dio, per essere suoi figli, questa immagine è stata offuscata e persino oltraggiata. Per questo motivo Dio prende le loro difese e li ama» (n. 1142) (vorrei richiamare l’attenzione sul «prendere la loro difesa». È una forma di amore molto particolare. Comporta entrare in conflitti storici e rischiare privilegi, onorabilità e vita. Implica disponibilità cosciente e attiva a subire il martirio. In America Latina la storia lo mostra chiaramente. E mostra anche che non si ammazza chi solamente ama i poveri: si ammazza chi prende le loro difese). In secondo luogo, i poveri possiedono un «potenziale evangelizzatore» e «molti di essi realizzano nella loro vita i valori evangelici di solidarietà, servizio, semplicità e disponibilità ad accogliere il dono di Dio» (n. 1147).

Per quello che sono, amati da Dio incondizionatamente, per quello che hanno, valori evangelici, e per quello che fanno, evangelizzano, nei poveri si rende presente - si può rendere presente - una santità primordiale di grado notevole.

III. SANTITÀ PRIMORDIALE E SANTITÀ DELLE CANONIZZAZIONI

In America Latina teologi e vescovi si sono schierati in difesa dei poveri e inoltre hanno messo in evidenza l’eccezionalità nella loro vita. In altri luoghi non sempre accade che la vita delle maggioranze possa essere intessuta di santità. E, meno ancora, che esse possano portare salvezza. Radici di questa cecità si possono trovare nella Chiesa e nella teologia nei punti di vista tradizionali sulle maggioranze, che in definitiva sono borghesi. Ma ciò può essere dovuto anche al concetto che si ha di “santità”. Credo che normalmente la santità si concepisca nella linea della “perfezione”, quella del Padre celeste.

La santità primordiale, tuttavia, senza escluderlo, va più nella linea di rispondere e corrispondere a un Dio della vita, un Dio di poveri e vittime, un Dio di crocifissi. Se si vuole, a un Dio della creazione, ma in media res, cioè una creazione che si va facendo in mezzo ad atrocità e catastrofi, senza scendere a patti con esse. Vivere, voler vivere e lottare per vivere in questa creazione, non solo per ciò che formalmente vi è di graduale ed evolutivo, bensì per ciò che vi è di contenuto distruttivo, può essere un modo per comprendere la santità primordiale.

Questa visione della santità facilita la scoperta di forme di santità nelle maggioranze. Ciò che capita è che, coscientemente o meno, per approvare o per protestare, ancora vediamo l’analogatum princeps della santità in ciò che viene riconosciuto nei processi di canonizzazione. È bene riconoscere ufficialmente l’eccezionalità di cristiani come Francesco di Assisi e Charles de Foucauld, e di cristiane come Giovanna d’Arco e Teresa di Gesù. Ma è importante tenere conto che questo riconoscimento ignora altre forme di eccezionalità di vita.

A differenza della santità convenzionale, della santità primordiale non ci si domanda ancora ciò che vi è in essa di libertà o di necessità, di virtù o di obbligo, di grazia o di merito. Non ve n’è motivo, poiché non è la santità che si accompagna a virtù eroiche, ma quella che si esprime in una vita quotidianamente eroica. Non sappiamo se i poveri e le vittime sono santi intercessori per smuovere Dio - il che non è possibile né necessario -, ma hanno forza per smuovere il cuore. Non fanno miracoli, intesi come superamento delle leggi della natura (per la canonizzazione se ne richiedono due per i confessori e uno per i martiri), con cui i canonizzati rinviano a un Dio-potere infinitamente al di sopra dell’umano. Però fanno miracoli che violano le leggi della storia: il miracolo di sopravvivere in un mondo ostile. Con ciò rimandano a un Dio con uno spirito capace di mantenere l’anelito a vivere, e anche a un Dio senza potere, alla mercé della volontà degli esseri umani, come diranno i teologi.

La santità primordiale ha una logica diversa da quella della santità convenzionale. E diverse sono le sue conseguenze. Poveri e vittime non esigono imitazione, a cui, secondo la dottrina ufficiale, i santi possono invitare. E i santi primordiali rare volte ottengono che qualcuno li imiti: l’imitazione, piuttosto, è rifuggita quasi da tutti. Però dove c’è bontà di cuore, essi generano invece un sentimento di venerazione e il voler vivere in comunione con loro.

Non prendendo sul serio la santità primordiale, le canonizzazioni ufficiali comportano pericoli che si dovrebbero evitare.

1) Le canonizzazioni possono aumentare la distanza tra i santi e i comuni mortali, compresi i santi primordiali. Allora si cade nell’elitarismo e si considerano i poveri e i semplici, con i loro difetti e con le loro virtù, cristiani ed esseri umani di infima categoria, atteggiamento questo che sicuramente non si può far risalire a Gesù di Nazareth. I santi canonizzati possono trasformarsi in oggetto di ammirazione e di culto, però possono cessare di essere nostri fratelli e sorelle, distanziandosi così da Gesù, il quale «non si vergogna di chiamarci fratelli» (Eb 2,11).

2) Le canonizzazioni possono portare a una disistima verso i comuni mortali, se non al disprezzo. In epoche passate si sono disprezzati esseri umani di inferiore, neri e indigeni, che non potevano ricevere ministeri ecclesiastici. I modi cambiano, ma può persistere un disprezzo larvato verso i laici, specialmente verso le donne. E questo può essere favorito dall’entusiasmo elitario di fronte a santi irraggiungibili.

3) I santi canonizzati possono intercedere e far sì che Dio ci conceda favori, ma non consiste in questo il nocciolo della santità. Dio non ha bisogno che alcuno lo spinga ad amare gli esseri umani, tanto meno i poveri: ne va del suo essere Dio. Ciò di cui invece ha bisogno per rendersi presente nella storia sono i sacramenti, esseri umani che lo rendano visibile e tangibile nella sua vicinanza salvatrice. Sacramenti suoi possono esserlo tutti gli esseri umani. Gesù è il sacramento principale. Lo sono anche Agostino di Ippona e monsignor Romero.

4) E possono esserlo sia santi canonizzati sia santi primordiali. Nei noti versi di César Vallejo:«L’uomo della lotteria che grida: “Comprate un biglietto per pochi soldi” contiene un non so che di Dio». Nel Medioevo i poveri venivano chiamati “vicari di Cristo”. La signora Rufina di El Mozote è Emmanuel, “Dio con noi”.

5) Il più grande pericolo dell’elitarismo non consiste nell’eccedenza, quando si innalzano i santi fino ad altezze infinite, come appare nelle antiche vite dei santi, con i loro miracoli, le loro apparizioni. Bensì nel non raggiungere quegli esseri umani di cui parla Pedro Trigo, non abbassarsi per vedere i “santi primordiali” là dove sono.

6) Da ultimo, aver presente la santità primordiale può umanizzare i processi di canonizzazione e sanarne i limiti, molte volte evidenti. Vi è un sensus fidei e un senso comune che non si lasciano sottomettere a canoni, norme, misure, e da qui le resistenze alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, o al “santo subito” dopo la morte di Giovanni Paolo II. E da qui il rimanere senza parole perché monsignor Romero continua a restare impigliato nelle norme per la canonizzazione. Per cui non gli si può dedicare culto pubblico, quando l’amore che la gente ha per lui è più commovente di qualsiasi culto. Esternarlo è qualcosa che esce dal profondo del cuore.

Nel XIII secolo è stato ragionevole cercare norme di canonizzazione per dichiarare l’eccezionalità di una vita cristiana ed evitare abusi. È evidente che oggi è necessaria una maggiore creatività. E la ragione fondamentale non è perché così sarà possibile “canonizzare” monsignor Romero, ma perché sarà più naturale riconoscere l’eccezionalità e ringraziare le maggioranze povere e semplici di questo mondo, gli emigranti del Congo, le madri dei desaparecidos, coloro che lottano contro l’AIDS. Sarà più possibile ascoltare da essi una parola d’incoraggiamento e poterci rivolgere a loro con una parola di ringraziamento.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 23/9/2013 22.21
Titolo:CONTINUAZIONE --- IV PARTE
CONTINUAZIONE ....


IV. «ALLAH NON È MICA OBBLIGATO»: I BAMBINI-SOLDATO

Di fronte alle carovane del Rwanda erompe una parola. Altre volte non esce parola alcuna. Nel 2005, in un Congresso per la pace, Melquisedek Sikuli, vescovo di Butembo (Repubblica Democratica del Congo), pronunciò una relazione dai toni forti. Enumerò i gravissimi problemi del suo Paese, la miseria quotidiana e l'ingiustizia strutturale. Approfondì le conseguenze terribili delle guerre nella regione: profughi, donne violentate, villaggi saccheggiati. Ricordò il colonialismo che continua a essere responsabile dell'invio di armi. Alla fine, interrompendo la litania delle denunce, terminò con «il dramma dei bambini-soldato»: «Quando non si ha nessuno al mondo né padre, né madre, né sorella, e se si è ancora un bambino, in un Paese rovinato e barbaro, dove tutti si ammazzano, che si fa? Si comincia a essere bambino-soldato per mangiare e ammazzare: è tutto ciò che ci rimane».

Di fronte a tale dramma resta solamente il silenzio. Parlare di “santità primordiale” suonerebbe blasfemo. Ma può anche accadere che di fronte ai bambini-soldato ci sentiamo sulla soglia di uno spazio sacro. Il vescovo Sikuli ha oltrepassato la soglia. E ha lasciato parlare Dio: Allah non è mica obbligato, disse, utilizzando il titolo di un libro di Ahmadou Kourouma.

Non vi è un concetto adeguato che lo racchiuda né parola adatta per parlare di questi bambini-soldato. Il dramma è evidente. Si possono conoscere le cause e si possono condannare i colpevoli. Ma sulla realtà in se stessa non si sa che dire. È un caso limite della tragedia dei poveri, del loro “voler vivere”.

Tuttavia, possiamo fare una riflessione teologale. Non possiamo dire una parola sull'enigma-mistero dei bambini-soldato, ma ci rimane sempre, come ultima riserva, il mettere mano al mistero di Dio. Così ha fatto il vescovo Sikuli: «Dio non è contento». Questo lo possono fare i credenti. I non credenti potranno mettere mano ad altre cose per loro ultime e formularlo con altre parole. Ma ciò che è fondamentale può aiutare tutti: «Qualcuno, Qualcosa, non è contento».

E possiamo fare anche un'altra riflessione sulla salvezza. Forse solo questa. In un mondo che vive distante dalle molte afriche, senza empatia, per la maggior parte indifferente e ignaro delle tragedie umane, che reagisce con ritardo e senza una volontà adeguata all'enormità di queste tragedie, forse i bambini-soldato potrebbero fare in modo che noi superiamo la banalizzazione dell'esistenza e trabocchiamo invece di compassione e giustizia.

Di fronte ad alcune realtà di importanza decisiva possono sorgere parole che vanno oltre le convenzioni, parole paradossali, scioccanti. Sono parole insostituibili e non intercambiabili. Esempio risaputo è il passo di Dostoevskij ne L'idiota: «La bellezza salverà il mondo». Oppure, il tema di un libro di J.I. Gonzàlez Faus: «Vicari di Cristo? I poveri».Anche in America Latina si dice questo; tipo di parole. «Tutto è relativo, meno Dio e la fame», sentenzia dom Pedro Casaldáliga. Monsignor Romero un mucchio di volte disse frasi lapidarie: «Questo è l'impero dell'inferno»; «Su queste rovine brillerà la gloria del Signore», «La gloria di Dio è il povero che vive». Ignacio Ellacuría ha ripetuto sino alla fine della sua vita che «solo la civiltà della povertà potrà superare questa civiltà della ricchezza che ha prodotto una società gravemente malata».

Sulla scia di questi visionari, e con molta modestia, abbiamo scritto che «fuori dai poveri non c'è salvezza». In quest'articolo sosteniamo di riconoscere con gratitudine «la santità primordiale» dei poveri, dei semplici e delle vittime.

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