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www.ildialogo.org DANTE CORRE FORTISSIMO: IL PARADISO E' ALLA PORTA E  BENEDETTO XVI  CONTINUA A SPERARE IN  "MAMMONA". Intervista di Lorenzo Fazzini a Fabrice Hadjadj sul suo recente lavoro - con note,a c. di Federico La Sala

FILOSOFIA E CRISTIANESIMO. I MAESTRI DEL SOSPETTO (MARX, NIETZSCHE E FREUD) E IL CATTOLICESIMO ....
DANTE CORRE FORTISSIMO: IL PARADISO E' ALLA PORTA E  BENEDETTO XVI  CONTINUA A SPERARE IN  "MAMMONA". Intervista di Lorenzo Fazzini a Fabrice Hadjadj sul suo recente lavoro - con note

Se dico che Nietzsche è salvo, lo faccio come fece Dante, che decideva di mettere certe persone in paradiso e altre all’inferno. Vedrei bene Nietzsche nel cielo di Marte. Ma questo augurio ha un fondamento ragionevole. Nietzsche voleva combattere contro il nichilismo e il fondo del suo impegno era di tipo "eucaristico"».


a c. di Federico La Sala

NOTE SUL TEMA:

TUTTO TREMA. NIETZSCHE DICE A RATZINGER CHE IL SUO DIO (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006) E’ MORTO, MA IL VECCHIO PAPA NON CAPISCE E CONTINUA A PREDICARE CONTRO IL VENTO!!!

L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA".

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura.

DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA. (fls)

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INTERVISTA *

Il paradiso necessario

​Sul quotidiano cattolico francese La Croix, quando uscì nel 2011, il critico Patrick Kechichian scrisse che questo libro rappresentava, nonostante la giovane età, il «coronamento» dell’itinerario culturale del suo autore, Fabrice Hadjadj.

Questo giovane pensatore francese (42 anni), da poco tempo direttore dell’Istituto Philanthropos di Friburgo, in Svizzera, già vincitore del prestigioso Grand Prix Catholique de Littérature con Farcela con la morte (Cittadella), torna da oggi in libreria con Il Paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda (Lindau, pp. 480, euro 29).

L’erudizione dell’autore (che spazia da Kafka a Dante, da Yves Bonnefoy a Marcel Proust, fino a Dante e all’amato Nietzsche) si sposa con la passione dell’intellettuale che fa della propria fede cattolica (scoperta in età adulta: si fece battezzare a Solesmes) una feritoia per pensare il reale in maniera ancora più spregiudicata, e non un muro che impedisce l’avanzare del ragionamento.

«Il paradiso è un orizzonte di fecondità traboccante, e non un sogno sterilizzatore. Perché la nostra vita sarebbe sonnolenta senza questo accidenti di bisogno di Eden». È quanto scrive nel suo libro. Come far sì che il paradiso non «sterilizzi» le aspirazioni umane?

«Marx pretendeva di sbarazzarsi del paradiso celeste, per tornare all’idea di un paradiso terrestre, dove però l’oppio viene immesso nelle vene delle persone in dosi mortali. Lo diceva già Paul Claudel: "Quando l’uomo tenta di realizzare il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno". Perché avviene ciò? Perché si pretende di agire da un’ideologia del bene totale, realizzabile con le nostre mani. La speranza dei paradiso celeste impedisce questa follia totalitaria».

La fede nel paradiso però non ci ha risparmiato Auschwitz o i gulag...

«Però essa ci ricorda che noi non abbiamo l’ultima parola e che il viso di qualunque altro nostro prossimo è chiamato a risplendere di una gloria divina. Da ciò consegue che, se noi agiamo per il bene, questo non avviene secondo una proiezione ideale o un piano quinquennale, ma perché riconosciamo il primato dei volti sulle idee e perché crediamo che sul più antipatico tra i volti di chi incontriamo si posa uno sguardo di infinita tenerezza. Di conseguenza, a noi tocca un rapporto personale, concreto e attento con chiunque si fa a noi incontro».

«Nietzsche è salvato». Lei ha un passato nietzschiano e anche oggi considera il filosofo de «La gaia scienza» un interlocutore fondamentale. In che senso Nietzsche si è "guadagnato" la salvezza?

«Certamente non pretendo di sondare il mistero delle anime né anticipare il giudizio di Dio. Se dico che Nietzsche è salvo, lo faccio come fece Dante, che decideva di mettere certe persone in paradiso e altre all’inferno. Vedrei bene Nietzsche nel cielo di Marte. Ma questo augurio ha un fondamento ragionevole. Nietzsche voleva combattere contro il nichilismo e il fondo del suo impegno era di tipo "eucaristico"».

Perché tira in ballo l’eucaristia?

«Mi spiego meglio. Se Nietzsche criticava il cristianesimo (ma anche il platonismo, la metafisica e il buddismo ...), lo faceva perché pensava che tutti questi sistemi, senza distinzioni, rifiutano quel che ci è chiesto qui e ora. A suo dire essi inventavano un al di là di apparenze, un "dietro-mondo", con lo scopo di disprezzare e calunniare questo mondo. Nietzsche voleva che si dicesse "sì" al mondo e che ci si mettesse dentro una sorta di azione di grazie davanti a tutto quel che ci veniva presentato. Ancor oggi egli propone un’obiezione eccellente a quanti propongono un paradiso di evasione, di fuga davanti al nostro stupore e alla nostra responsabilità sulla Terra. Ci permette di ritrovare il verso senso del paradiso cristiano, che non è un "altrove", ma un "in mezzo a voi", come disse Gesù, il quale ci comandava di stupirci davanti a un fiore di campo e all’incontro dei più poveri e piccoli tra noi».

Pur trattando del paradiso, il suo saggio parla anche dell’inferno come «luogo della tolleranza divina». Con esso, lei scrive, «Dio si inchina dinanzi a chi rifiuta liberamente e volontariamente la sua grazia, tollera per sempre questa dissidenza, perché se può rapire un’anima, non vuole sequestrarla». Oggi però dai pulpiti si sente parlare poco di quelli che i nostri padri chiamavano i «novissimi»...

«Se non si parla dei novissimi non si parla di noi stessi. Aristotele sosteneva che la causa finale è la causa delle cause. È la finalità che dice il perché ultimo di un essere. Faccio un esempio: se si trova per caso una chiave, essa non significa niente da sola. Sono la porta e la serratura che essa apre che ci dicono la natura vera di quella chiave. Possiamo dunque affermare che la meditazione sulle cose ultime ci illumina sulla natura dell’uomo. Ad esempio: per avvicinare con verità il corpo umano, bisogna conoscerne la vocazione ultima, ovvero riflettere sul corpo glorioso».

Perché si tace sui «novissimi»?

«A mio giudizio per due ragioni: vogliamo far apparire la Chiesa come una forza alleata del progresso. E quindi rischiamo di ridurla a una super-assistente sociale, un’esperta psicologa o una grande moralizzatrice. Secondo: la predicazione sui fini ultimi è indebolita da un immaginario datato, evasivo e che non risponde più alla sensibilità moderna: non ha saputo rinnovarsi né attraversare la critica nietzschiana, ben più forte di quella marxista».

Lorenzo Fazzini

* Avvenire, 8 febbraio 2013



Venerdì 08 Febbraio,2013 Ore: 17:42
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 08/2/2013 18.24
Titolo:Se il Paradiso è in questa terra ...
Se il Paradiso è in questa terra
Le riflessioni sulla preghiera della teologa Adriana Zarri

di Umberto Galimberti (la Repubblica, 26.01.2013)

«Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». Queste parole di Nietzsche le sento risuonare in ogni pagina del libro di Adriana Zarri, Quasi una preghiera.

Quasi perché siamo soliti chiamare “preghiera” l’invocazione, o la richiesta di grazie, o quelle noiosissime nenie che recitano formule senz’anima, senza partecipazione, senza canto. Queste «formule scritte da altri e assunte da noi senza che spesso riusciamo ad aggiungere nulla di nostro» non sono per Adriana Zarri vere preghiere perché «non consentono un libero e personale esprimerci e parlare col Signore».

Ma perché questa preghiera possa sorgere e scaturire spontanea e sincera con tutta la partecipazione del cuore bisogna ribaltare quella concezione teologica che descrive la terra come «valle di lacrime» o come «esilio», perché, scrive la teologa, monaco ed eremita, Adriana Zarri, se la terra è «la creazione bella e buona predisposta dal Signore per noi», se non è «un deserto, ma un giardino: il giardino dell’Eden», se «il Signore non ci ha messi in esilio, ma ci ha collocati nella nostra patria, nella casa che aveva amorevolmente preparato per noi», allora a questa patria, a questa casa, a questo giardino a questa terra dobbiamo essere fedeli e «pregare Dio per questa terra in senso proprio, questa terra di terra, per questo cielo d’aria e non per quello metaforico popolato dagli angeli, per questo cielo nostro, questo cielo di nuvole e di vento, percorso dalle ali degli uccelli».

Così risuona nelle parole di Adriana Zarri l’invocazione di Nietzsche: «Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra», ma risuonano anche le «sovraterrene speranze» a cui Nietzsche invita a non credere.

Eppure la fedeltà alla terra di Adriana Zarri fa la sua comparsa anche nelle «sovraterrene speranze» se appena ascoltiamo l’invocazione della sua ultima preghiera: «E questo nostro dolce mondo, ti prego, Dio, fallo risorgere tutto, così com’è, perché è così com’è che noi lo amiamo, ed è così com’è che noi lo attendiamo quando “i cieli nuovi” e “le terre nuove” che ci hai promesso risorgeranno dal gran rogo finale. Ti prego, non dimenticartene, Signore, perché io aspetto di trovarle di là. Se non ci fossero ne resterei delusa, e in paradiso non può esserci delusione».

Possiamo leggere questo libro di Adriana Zarri, che prega il Signore con il canto che si leva dalla contemplazione delle sue creature e delle sue bellezze, che il succedersi delle stagioni offre nella loro varietà, in sintonia con la variazione che caratterizzala la gamma dei nostri sentimenti, come un libro lirico, mistico, non dissimile dalla mistica francescana.

Ma Adriana Zarri non è solo questo. Perché da teologa ha anticipato il Concilio Vaticano II, e da voce libera e forte ha avuto il coraggio di ribaltare quella visione che il cristianesimo, dimentico del Vangelo, ha ereditato da Platone, il quale ha disprezzato la terra e il mondo sensibile per il mondo delle idee collocate sopra il cielo. Questa tradizione greca e non cristiana è stato ripresa da Agostino che ha deprezzato la città terrena per esaltare quella celeste, e da allora in poi la terra è diventata valle di lacrime e di dolore: il dolore che redime.

Quasi una preghiera, prima di essere un libro lirico o mistico, è un libro teologico, dove ciò che si chiede è di abbandonare il dualismo platonico e poi cristiano che oppone la terra al cielo, lasciando l’uomo senza quella patria, quella casa, quel giardino che il Signore aveva amorevolmente preparato per lui.

* il libro

- "Quasi una preghiera" di Adriana Zarri
- Einaudi, pagg. 200, euro 18,50
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 13/2/2013 20.47
Titolo:IL CONCILIO. Uno spettro si aggira nella storia della Chiesa
Verso un’era collegiale

di Franco Cardini

in “Quotidiano.Net” (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione) del 13 febbraio 2013

È ancora presto per aspettarsi risposte sicure o comunque più attendibili e verosimili alla domanda che tutti ci andiamo ponendo in queste ore: quali sono state, nello specifico, le vere grandi ragioni che hanno indotto Joseph Ratzinger a rinunziare al suo alto ufficio?

Dalla ridda delle ipotesi va emergendo una direzione interpretativa che non va sottovalutata: che cioè Benedetto XVI si sia tirato indietro non in quanto disorientato dinanzi all’enigma delle prove che ancora attendono il pontificato e la Chiesa bensì, al contrario, in quanto fin troppo conscio della loro qualità ed entità. Non è escluso che l’autentico nucleo del messaggio inviato con queste dimissioni sia che sta giungendo per l’intera comunità cristiano-cattolica il momento di voltare sul serio pagine.

La ‘Profezia di Malachia’, qualunque sia il valore che vogliamo attribuirle, assegna al prossimo pontefice, Petrus Romanus, il ruolo di ultimo papa: e poi? Fine della Chiesa e magari fine del mondo, si è detto. Ma forse - proseguiamo nel gioco dell’attribuzione di un qualche valore a quell’antico e dubbio testo - ciò cui si allude è semplicemente un sia pure rivoluzionario mutamento istituzionale. È la funzione pontificia che potrebbe venir messa in discussione ed esser fatta oggetto di cambiamenti radicali in un futuro magari prossimo. E potrebb’essere la consapevolezza di questa incombente rivoluzione ad aver suggerito a papa Benedetto che è ormai arrivata l’ora di farsi da parte. È a questo punto più chiaro il senso delle polemiche relative al valore e alla funzione del Concilio Vaticano II, che negli ultimi tempi erano arrivate a un livello d’intensità e di durezza che non si giustificava solo con la coincidenza del cinquantesimo anniversario di quell’evento.

In effetti potremmo affermare, parafrasando Marx ed Engels, che uno spettro si aggira nella storia della Chiesa cattolica moderna: il Concilio. L’assemblea dei capi delle singole comunità (le «chiese» vere e proprie) che nel loro insieme costituivano la comunità dei credenti nel Cristo, si affermò fino dai primi tempi di libera vita della Chiesa a partire dal IV secolo. I vescovi si riunivano periodicamente per regolare le questioni concernenti i dogmi, la liturgia e la disciplina comuni. Tali riunioni riunivano di solito solo alcune circoscrizioni locali, ma in casi di maggior importanza tutti i vescovi del mondo cristiano erano tenuti a partecipare: si aveva allora il «Concilio ecumenico», durante il quale si prendevano le grandi decisioni.

In tutto, la Chiesa ha fino ad oggi tenuto 21 Concilii ecumenici: fondamentali tra essi quelli del IV-V secolo (di Nicea, di Efeso, di Calcedonia), nei quali letteralmente si fondarono dogma, liturgia e disciplina; tra gli altri, ebbero speciale rilievo i quattro Concili lateranensi del 1123, del 1139, del 1179, del 1215, durante i quali si andò affermando, dopo lo scisma che aveva separato dal 1054 la Chiesa greca dalla latina, il principio - già del resto precedentemente proposto - del «primato di Pietro», cioè dell’autorità e del potere del vescovo di Roma come capo effettivo e supremo della compagine ecclesiale latina.

Il nucleo profondo della vita della Chiesa, espressa attraverso i vari Concili, era la continua necessità di riformarne la vita e i costumi. Reformatio è quasi la parola magica che attraversa il mondo ecclesiale soprattutto tra XI e XVI secolo. Ma appunto durante il medioevo apparve sempre più chiaro che autorità personale del vescovo di Roma e autorità collegiale degli altri vescovi erano in obiettivo conflitto tra loro. Esso divenne drammatico nella prima metà del Quattrocento allorché
- dopo il lungo periodo avignonese e il cosiddetto «Grande Scisma d’Occidente» che lo aveva seguito a ruota, tra 1378 e 1414 - la deposizione l’uno dopo l’altro di ben tre pontefici (Gregorio XII, Benedetto XIII e Alessandro V) in soli cinque anni tra 1409 e 1414 e la successiva convocazione di due grandi Concilii, a Costanza fra ’14 e ’17 e a Basilea (poi trasferito a Ferrara e quindi a Firenze) fra ’39 e ’49, mise talmente in discussione l’autorità papale da consentir la nascita di una nuova dottrina, detta appunto “conciliarismo”, che postulava la superiorità del Concilio sul papa in termini di direzione della Chiesa.

Una di quelle coincidenze non infrequenti nella storia volle che fosse proprio l’intellettuale che come segretario del Concilio di Basilea aveva contribuito in modo determinante alla nascita della dottrina conciliaristica, il senese Enea Silvio Piccolomini, una volta divenuto papa col nome di Pio II si rivelò il più deciso e feroce paladino del monarchismo pontificio.

Dopo la metà del Quattrocento, i Concilii diventarono molto rari. Il V Concilio lateranense tra 1512 e 1517, che avrebbe dovuto decisamente riformare la Chiesa sconvolta dal malcostume dei pontefici e dei prelati del secolo precedente, si concluse con quella che è passata alla storia come la «Riforma» per eccellenza, la protestante, che coincise peraltro con un grande scisma all’interno della Chiesa d’Occidente.

Dopo allora, il fallimento al suo principale scopo del Concilio di Trento, che si svolse dal 1545 al 1563 con l’iniziale obiettivo del risanamento dello scisma avviato da Lutero, servì quasi da vaccino per i vertici della Chiesa romana: dopo allora non si convocarono più Concilii ecumenici prima del grande Vaticano I del 1870, che fu riunito appositamente per rafforzare l’autorità del papa di Roma e addirittura - in un grave momento di crisi politica, la fine del potere temporale - ne proclamò l’infallibilità ex cathedra.

Il Vaticano II emendò, modificò e corresse l’indirizzo del Concilio precedente e dette vita a una nuova stagione di teorie neoconciliariste, sostenute soprattutto dalla scuola dei teologi e degli storici dossettiani di Bologna. Dopo allora, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II coincise con una rinnovata era di forte monarchismo papale, del quale Joseph Ratzinger fu il teologo. Ma è proprio lui, una volta divenuto papa, che dopo un governo di otto anni lascia significativamente l’incarico subito dopo un concistoro di cardinali che (non lo sappiamo) può essere stato tempestoso. E allora, la domanda che è legittimo formulare è questa: che la nuova età della Chiesa, quella che Benedetto XVI ha compreso necessaria ma non si è sentito di gestire, sia quella di una rinnovata proposta conciliaristica di direzione non più monarchica, bensì collegiale della Chiesa cattolica? Il prossimo conclave e il nuovo pontefice risponderanno a questa domanda.

di Franco Cardini

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