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www.ildialogo.org Il ritrovarsi del 1989 ha ritardato la crisi<br />Chi ha approfittato dell’unificazione tedesca?,di Jay Rowell

Le Monde Diplomatique, aprile 1997, pagine 20 e 21
Il ritrovarsi del 1989 ha ritardato la crisi
Chi ha approfittato dell’unificazione tedesca?

Traduzione dal francese di José F. Padova


di Jay Rowell

[N.d.t.: questo commento già nel 1997 mette in rilievo come la Repubblica federale tedesca ha agito cinicamente nei confronti dei cittadini dell’ex Repubblica democratica tedesca, anche dei suoi propri e di quelli dell’Unione europea. Tutto questo ebbe ed ha profonde conseguenze anche per l’Italia odierna. Ricordo per esempio il governo Schröder e il giro di vite a danno dei lavoratori con il famigerato Hartz IV (vedi scenarieconomici.it ) e la copiatura che i 5 stelle ne hanno fatto]
«Questo nuovo governo è diventato necessario perché l’antico ha dimostrato la sua incapacità nel combattere la disoccupazione, nel difendere la rete di sicurezza sociale e ristabilire l’ordine nelle finanze dissestate dello Stato». Indirizzata nel 1982 da Helmuth Kohl contro il suo predecessore, Helmuth Schmidt, questa requisitoria si applica, parola per parola, quindici anni più tardi, all’attuale coalizione. La contestazione sociale si afferma in marzo 1997 con i movimenti di rivendicazione dei minatori e degli operai dell’edilizia e comincia ad esprimersi politicamente. La questione dell’unificazione, delle vittime e dei loro profittatori ritrova così una singolare attualità.
È con molta emozione e qualche nostalgia che Helmuth Kohl deve ripensare oggi ai giorni felici dell’unificazione tedesca, che videro il suo trionfo. Sullo sfondo di crisi economica, di aumento della disoccupazione, della rimessa in questione delle conquiste sociali e di paura dell’euro, la quotazione del cancelliere come quella del suo partito sono caduti al punto più basso: secondo i sondaggi dei primi di marzo 1997, 46% dei tedeschi dichiarano di preferire il socialdemocratico Schröder e 40% restano favorevoli all’attuale capo del governo; allo stesso modo con il 34,3% i cristiano-democratici della CDU-CSU sono superati dai democratici dello SPD (36,3%). Altrettanto significative le intenzioni di voto a favore dei Verdi (12,2%), in netto progresso. Paradossalmente l’uomo che deve la sua indiscutibile popolarità al ritrovarsi delle due Germanie – di cui fu il principale artefice – oggi lascia intendere che l’unificazione sarebbe la causa delle difficoltà incontrate dal proprio Paese e dei suoi personali dispiaceri.
La Germania malata di unificazione? Questa avrebbe avuto – assicura una maggioranza di esperti – un effetto di freno sulla prospera economia della vecchia BRD. E citano i trasferimenti finanziari dall’Ovest verso l’Est, che effettivamente sono aumentati, dopo il 1990, a più di 150 miliardi di marchi per anno e a questo livello dovrebbero mantenersi per i prossimi anni. Ai quali si aggiungono i debiti lasciati dall’ex DDR, la Treuhand (organo incaricato di privatizzare l’economia della DDR) e i fondi speciali per l’unificazione, ammontanti a 750 miliardi di marchi – una somma colossale, soprattutto se la si riferisce al PIL attuale dei nuovi Land (250 miliardi di marchi).
Questa argomentazione, tanto spesso ripetuta, nasconde tuttavia la metà dell’equazione: perché alla BRD l’unificazione non è soltanto costata, ma le ha ugualmente apportato benefici. E tanti!>1 Un simbolo evidentemente poco rimarcato dai media: i profitti delle imprese tedesche sono quasi raddoppiati dopo l’unificazione, passando da 345 miliardi di marchi in mdi fra il 1980 e il 1989 a 653 miliardi nel 1995! Vittime da una parte, profittatori dall’altra…
In ogni caso i dubbi sul modello economico tedesco non sono stati mai tanto forti>2. In gennaio 1997 il tasso di disoccupazione è salito a 18,7 nei nuovi Land e a 10,7 in quelli vecchi. Secondo le previsioni il limite di 5 milioni di disoccupati sarà superato prima della fine dell’anno. All’Est il PIL è caduto al disotto del suo livello del 1989, prima della «terapia d’urto». All’Ovest la recessione comparsa nel 1993 è stata aggravata dai giri di vite fiscali e dai piani di austerità.
Che cosa è successo dopo il 1990, epoca di cieche euforie, aspettative e ricette neoliberali? Apparentemente i tedeschi dell’Ovest avrebbero pagato la fattura dell’unificazione e sarebbero condannati a sacrificare ancora a lungo una parte della loro ricchezza per pagare una «rendita» annua ai loro concittadini dei nuovi Land. Curioso capovolgimento: perché coloro che subiscono, per primi e più duramente, l’unificazione sono proprio i tedeschi dell’Est. Un anno dopo il loro ritrovarsi, il PIL dell’ex DDR era già caduto del 40%, la produzione industriale del 70% e il numero dei lavoratori attivi del 40%. Quattro le cause principali di questa catastrofe:
  • La decisione elettoralistica di cambiare un marco dell’Est contro un marco dell’Ovest, che ha aumentato il costo reale di beni e servizi est-tedeschi del 300%. Questo shock, afferma Werner Selmann, capo di una piccola impresa edilizia in Turingia, sarebbe stato «mortale perfino per i giganti dell’industria ovest-tedesca».
  • La riduzione, come di una pelle di zigrino, degli sbocchi tradizionali dell’industria est-tedesca nei Paesi dell’Europa centrale in seguito alle politiche di allineamento delle equipe neoliberiste, della quale l’economista Jeffrey Sachs è la figura di spicco.
  • Il fatto che l’industria ovest-tedesca poteva soddisfare i bisogni del mercato est-tedesco con le sue capacità esistenti, poiché le imprese est-tedesche non rappresentavano altro allora, per quelle occidentali, se non un mezzo per penetrare nei mercati dell’Europa centrale e, nel caso peggiore, una concorrenza potenziale sul mercato tedesco.
  • La terapia d’urto subita dai kombinat>3 est-tedeschi posti sotto la tutela della Treuhand>4: smantellamento o chiusura con ondate di licenziamenti, secondo il credo liberale della Treuhand. Da qui la priorità assoluta per la privatizzazione veloce a detrimento dei posti di lavoro e degli investimenti. La vendita delle imprese, che avrebbe dovuto liberare, secondo il primo direttore della Treuhand, 600 miliardi di marchi, si è concretizzata con un deficit di 275 miliardi di marchi, con una perdita del 78% dei posti di lavoro nel settore industriale; solamente il 5% delle imprese sono potute essere acquistate da tedeschi dell’Est.
Presso il sindacato della IG Metall, situato nel cuore di Plagwitz, un quartiere operaio di Lipsia dove le abitazioni rasentano le fabbriche destinate ad altri usi, Sieglinde Merbitz, prima segretaria del sindacato, spiega: «Vittime delle prime ondate di licenziamenti nella metallurgia sono le donne, i salariati di più di 50 anni e gli operai poco qualificati. Per costoro la chance di ritrovare un impiego è praticamente nulla». In breve, tutti coloro che non hanno potuto adattarsi all’economia di mercato o che si è decretato essere inadatti a farlo. Quando le statistiche ufficiali registrano «soltanto» 18,7% di disoccupati nei nuovi Land, dei quali due terzi donne, «dimenticano» invece 800.000 salariati in pre-pensionamento, 260.000 partecipanti a corsi di riciclaggio e 260.000 persone che lavorano in programmi d’interesse generale destinati a scomparire entro l’anno, per la ultra-riduzione del bilancio imposta perché la Germania rispetti i criteri del Trattato di Maastricht.
Ingegnere di 45 anni e madre single, Hilde Förster vive una situazione emblematica del percorso di molte donne est-tedesche. Impiegata nella ricerca e sviluppo della VEB-Nachrichtenelektronik ha perso il lavoro poco tempo dopo che questa impresa di 4.000 lavoratori fosse acquistata dal gigante ovest-tedesco Siemens. La ricerca era allora considerata superflua e soltanto 600 impiegati sono stati mantenuti. Dopo due anni di lavoro d’interesse generale si è trovata disoccupata: «Il più duro è sentirsi inutile, rendersi conto che la società non ha più bisogno di te… che sei troppo vecchia». 88% dei tedeschi dell’Est stimano che vi era più eguaglianza fra i sessi nella DDR che nella BRD – 2% pensano il contrario>5.
Dall’altra parte le cose sono andate diversamente… almeno fino al 1992. Alla depressione e al senso di tradimento diffusi all’Est corrisponde, all’Ovest, l’euforia generata dalle fabbriche che girano a pieno regime. Mentre il resto dell’Europa dal 1990 affondava nella recessione e l’economia est-tedesca implodeva, il PIL ovest-tedesco aumentava del 5,7% nel 1990 e del 4,5% nel 1991, con una creazione netta di 1,8 milioni di posti di lavoro.
La spiegazione è semplice. I beni e servizi ovest-tedeschi si sono puramente e semplicemente sostituiti ai prodotti est-tedeschi. L’eccedenza commerciale fra i due Paesi si eleva a più di 200 miliardi di marchi per anno, ciò che compensa largamente i 150 miliardi di fondi pubblici che vanno in senso contrario>6. Secondo Andreas Körner, consigliere comunale (SPD) a Lipsia, «il denaro trasferito è stato di fatto riciclato al 100%nell’economia ovest-tedesca. È grazie alla ricostruzione dell’economia est-tedesca che la Germania non è precipitata dal 1990 nella recessione come molti altri Paesi industrializzati». Risultato paradossale di una politica neoliberista, la terapia d’urto ha condotto a un rilancio keynesiano classico al solo beneficio dell’economia dell’Ovest.
I salariati ovest-tedeschi ne hanno approfittato? Niente è meno sicuro. Fin dai primi segni di rallentamento dell’economia, il padronato ha annunciato ristrutturazioni dolorose, comportanti la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nell’industria. Nel 1992 l’aumento del 5% dei salari è stato assorbito totalmente dall’inflazione (più del 4%) e per l’appesantimento della fiscalizzazione – fra il 1991 e il 1993 i premi per l’assicurazione contro la disoccupazione sono aumentati di due punti, le tasse sui prodotti petroliferi e il tabacco sono state aumentate, l’IVA è salita di un punto, senza dimenticare l’introduzione dell’impopolarissima imposta di solidarietà (Solidäritatszuschlag), che ha rappresentato un rialzo del 7,5% dell’imposta sul reddito. In media queste misure hanno significato un taglio del potere d’acquisto di 270 marchi per famiglia>7, una flessione del 5% dal 1990.
Quei salariati vittime all’Est e all’Ovest
Per la crisi economica e l’austerità di bilancio i salariati dell’Ovest se la sono presa con i cittadini dei nuovi Land, accusati di vivere a loro carico. È vero che il governo ha giustificato l’aumento della pressione fiscale con la necessità di sacrifici a favore della solidarietà con i tedeschi dell’Est, ma la somma, di fatto, è stata dolorosa per i salariati ovest-tedeschi. Ma la gente dell’Est ha ugualmente pagato l’imposta di solidarietà, come tutte le altre imposte, dirette o indirette. «Il mito dei cittadini dell’Est che non pagano l’imposta di solidarietà è stato sapientemente mantenuto. Come stupirsi allora che il muro esistente negli animi non sia vicino a scomparire?», constata Andreas Körner, non senza un poco di amarezza.
La verità è che all’Ovest come all’Est sono i salariati che pagano le spese dell’unificazione. Cosa che non impedisce alla Bundesbank, nel suo rapporto del 1995, di persistere a considerare «i salari troppo elevati e insufficientemente differenziati» come fattore principale del degrado della competitività. E di passare sotto silenzio il debole tasso degli investimenti, i tassi d’interesse proibitivi e la sopravalutazione del marco, che penalizzano un’economia dipendente dalle esportazioni>8.
La fattura più pesante è stata saldata dai disoccupati, più generalmente da tutti coloro che dipendono dall’assistenza pubblica e dagli stranieri. Tali sono, paradossalmente, le vittime del preteso patto di solidarietà del 1993: con il pretesto di ripartire meglio i costi dell’unificazione, il governo di Helmut Kohl è partito all’attacco dello Stato assistenziale. In quell’anno hanno inizio i piani di austerità, quindi la riduzione, costante, dei sussidi di disoccupazione e degli aiuti sia sociali che famigliari, e la diminuzione dei rimborsi delle Casse di assicurazione contro le malattie. Le pensioni ristagnano quando l’età legale è stata fissata a 65 anni; in virtù del progetto di riforma fiscale le imposte che le colpiscono saranno anch’esse aumentate. Contraddittoriamente i piani sociali mettono i salariati in prepensionamento a partire da 52 anni. Per giunta il 1997 sarà l’anno della rimessa in discussione della gratuità dell’insegnamento superiore…
Presentati da certi uomini politici e dalla stampa a larga diffusione come «benestanti», i richiedenti asilo sono sempre più sotto attacco –ma queste campagne non toccano gli imprenditori che alloggiandoli realizzano profitti scandalosi. Così l’impresa GV Gründstücksverwaltung [Amministrazioni immobiliari] ha stipato 300 richiedenti asilo in 75 baracche di cantiere e incassa ogni mese 137.000 marchi di affitto – ovvero 1.860 marchi per ogni baracca di 14 mq>9. Poiché il diritto d’asilo è stato limitato nel 1993 col pretesto di armonizzarlo con la linea dell’Europa, adesso è il turno dei lavoratori immigrati di servire da bersaglio. Voci influenti dell’ala destra della maggioranza trovano «aberrante» che un Paese che ha già tanti disoccupati dia lavoro a stranieri.
Con il pretesto di combattere i «frodatori», gli «scansafatiche» e i «falsi richiedenti asilo», si aizzano le classi medie, schiacciate dal peso del fisco, contro le persone respinte dal mercato. Joachim Widmann (del Partito liberale) ha perfino lanciato l’idea di tassare i «redditi» dei mendicanti, allo scopo di ridurre il deficit di bilancio e di «risolvere rapidamente il problema della mendicità nelle città>10.
Lo spettacolare aumento della disoccupazione – prima nei nuovi Land (dal 3% nel 1990 a quasi il 19% all’inizio del 1997), poi in quelli vecchi (dal 6,9% nel 1990 a circa l’11% a inizio 1997) – ha modificato i rapporti di forza fra i sindacati e il padronato, in favore di quest’ultimo. Più nulla è tabù, come testimonia la dichiarazione di Werner Stumpfe, presidente dell’associazione padronale della metallurgia: «Abbiamo pagato troppo caro la pace sociale. Non possiamo più continuare ad offrirci un simile lusso>11».
Una tale dichiarazione di guerra sarebbe stata impensabile qualche anno prima. Ciò che l’ha resa possibile è lo sfruttamento della crisi dell’Est, il primo tabù fu rotto nel 1993, quando il padronato fece marcia indietro sull’accordo sottoscritto nel 1990, che garantiva la convergenza progressiva dei salari est-tedeschi sul livello di quelli occidentali. Dopo di che, numerose imprese si sono unilateralmente ritirate dalle convenzioni collettive, come Jenoptik e IBM. In breve, il padronato si sforza di strumentalizzare la crisi all’Est per far diventare generale, all’Ovest, la rimessa in questione dei due piloni del compromesso storico tedesco: il diritto del lavoro e la negoziazione salariale.
Nei nuovi Land, è vero, la pressione psicologica esercitata dal tasso record di disoccupazione costringe i salariati ad accettare sacrifici per conservare il posto di lavoro e mette i sindacati sulla difensiva. Il lavoro si negozia a qualsiasi prezzo, o quasi – un atteggiamento comprensibile da parte dei lavoratori minacciati, ma di cui il padronato approfitta mediante un vero e proprio ricatto all’impiego. In cambio dei suoi investimenti nei nuovi Land il padronato esige sovvenzioni molto forti. E quando i lavoratori pretendono difendere i loro interessi, brandisce la minaccia della delocalizzazione nei Paesi dell’Est, dove i salari sono inferiori fino a dieci volte.
Eppure la corsa annunciata di trasferimenti in Europa centrale non ha avuto luogo. Nel 1992 ha attirato solamente il 6,5% degli investimenti diretti della Germania all’estero, contro il 69% nei Paesi industrializzati, in particolar modo gli USA>12. Le grandi imprese non smettono di perseguire il loro ricatto basato sulla minaccia di trasferimento e, con l’argomento del costo eccessivo della mano d’opera est-tedesca, ottengono nuove sovvenzioni e deduzioni, al di là del 50% già consentito per gli investimenti nei nuovi Land. Il progetto di un’officina Volkswagen a Chemnitz, in Sassonia, doveva portare all’impresa automobilistica sovvenzioni dell’ordine di 500.000 marchi per posto di lavoro creato… finché la Commissione europea non mette il suo veto per concorrenza sleale.
Se i potenti Konzern [conglomerati] s’ingrassano col denaro pubblico, sono le piccole e medie imprese che rappresentano l’avvenire dell’impiego nei nuovi Land. Ma in mancanza di una lobby in loro favore presso il governo federale esse soffocano sotto la pressione dei loro creditori. Le avventure dell’impresa edilizia diretta da Werner Selbmann sono emblematiche sotto molti aspetti. Ricevendoci a casa sua nel villaggio di Heyerode, in Turingia, racconta: «La nostra società era stata venduta dalla Treuhand agli antichi direttori per 24 milioni di marchi – un acquisto interamente finanziato da prestiti. (…) L’Est ha attirato molti investitori che definiremmo “poco seri”, tedeschi dell’Ovest che volevano fare fortuna. Nell’industria edilizia sono bastate alcune fatture non pagate per provocare fallimenti a catena. Oggi mi trovo in concorrenza con imprese straniere, che utilizzano mano d’opera portoghese, polacca o inglese pagata 5 marchi all’ora».
Certamente i sindacati sono riusciti a tenere sotto scacco i progetti più retrogradi del governo e del padronato grazie a numerosi e grandi mobilitazioni. Non importa: le imprese ovest-tedesche appaiono chiaramente come le grandi vincitrici dell’unificazione. Nei fastosi anni dal 1990 al 1992 hanno accumulato profitti spettacolari, in particolare grazie ai nuovi Land, la cui produzione locale era crollata. Nel 1993, malgrado una forte recessione, i loro profitti hanno superato i 500 miliardi marchi per raggiungere nel 1995 un record storico: 653 miliardi!
Purtroppo, e le statistiche catastrofiche della disoccupazione lo confermano, i profitti di ieri non hanno creato i posti di lavoro di oggi. E nulla indica che domani vi sarà un cambiamento. Tuttavia, con la scusa di salvaguardare la produzione nazionale, il governo nel 1994 ha fatto adottare, sotto il nome di Standortsicherungsgesetz, una legge che riduce dal 53% al 44% le imposte sulle società – e nuovi alleggerimenti sono annunciati per il 1999. Ora, queste imposte beneficiano di così tante deduzioni che il loro tasso effettivo si ferma al 15%, cioè due volte meno che negli USA o in Francia>13. In totale nel 1995 le imprese tedesche hanno pagato 19,5 miliardi di marchi d’imposta sulle società, una somma da confrontare con i 136 miliardi di marchi di esonero d’imposta e di sovvenzioni, ma anche ai 284 miliardi di marchi prodotti dall’imposta sui profitti…
Non dimentichiamo i fantastici profitti realizzati dalle grandi banche grazie alle decisioni prese nel 1990: decine di miliardi di marchi, senza il minimo rischio. Un solo esempio: la Deutsche Bank e la Dresdner Bank hanno acquistato la Deutsche Kreditbank, la più grande banca della DDR, per 20 miliardi di marchi nel 1990 – questa operazione ha apportato loro, in seguito, 60 miliardi! L’astuzia era semplice: il risparmio [denaro depositato] è stato scambiato a 1,475 marchi est contro un marco ovest, ma i crediti a 2 contro 1. La differenza – pari a 92 miliardi di marchi – è stata colmata dal governo federale, che ogni anno versa interessi per più di 10 miliardi alle banche coinvolte>14. Non c’è da stupirsi se la Deutsche Bank presenta profitti in rialzo del 77% fra il 1990 e il 1993!
E non ci sono soltanto le banche: globalmente, fra il 1990 e il 1995 le rendite di capitale sono aumentate del 19,4%, quelle del lavoro diminuite del 5%. Si tratta dell’effetto congiunto dei tassi d’interesse estremamente elevati dall’inizio degli anni ’90, delle fiammate della Borsa e della imposizione, molto bassa, dei profitti da capitale. Un primo tentativo di tassarli, nel 1987, è inciampato su una massiccia fuga di capitali. Un secondo tentativo, nel 1993, doveva eliminare questo rischio tassandoli alla fonte. Ma, nel frattempo, il limite massimo è stato moltiplicato per dieci e le banche stesse hanno organizzato il trasferimento dei capitali verso le loro filiali in Lussemburgo e in altri paradisi fiscali.
Simultaneamente nei nuovi Land le deduzioni d’imposta avevano raggiunto il 50% sugli investimenti immobiliari. «Esse hanno raggiunto, spiega Anke Matejka, presidente dell’Associazione affittuari di Lipsia, una fiammata speculativa sugli appartamenti di standing [lusso] per i quali gli affitti hanno talvolta superato il livello ovest-tedesco». Ricevendoci nella sua sede, attorniata da uffici nuovi e… vuoti, la sig.ra Matejka aggiunge: «Sono i grandi gruppi immobiliari ovest-tedeschi che hanno fatto man bassa della posta in gioco». Poiché il potere d’acquisto stagnava al 60% del livello occidentale, perfino i «privilegiati» detentori di un impiego non arrivano a pagare i loro affitti.
Vale a dire che l’immagine di una società di «classi medie livellate», popolarizzata dal sociologo Herbert Schelsky negli anni ’60, nella Germania unificata fa la figura di un’utopia: il 10% dei più ricchi fra la popolazione tedesca concentrano il 49% del patrimonio, mentre il 50% di chi si trova al livello inferiore non ne detiene che il 2%. D’altronde il 5 settembre 1996 il ministro delle Finanze, Theo Waigel, suggeriva di abolire l’imposta sul patrimonio… Se la preponderanza del patrimonio si concentra all’Ovest e gran parte della nuova miseria all’Est, una sfaldatura verticale segnerà la Germania di domani.
Trattandosi però di conti dell’unificazione non ci si potrebbe limitare alla Germania. In effetti tutto intero l’equilibrio economico dell’Europa è stato sconvolto dall’avvenimento. L’indebitamento della BRD e le tensioni inflazionistiche degli anni '89-'92‘hanno portato la Bundesbank ad aumentare il suo tasso base dal 6% a quasi il 10% e questo ha influito pesantemente e durevolmente su una congiuntura economica già sfavorevole nel resto del Continente. La politica restrittiva della Bundesbank e il massiccio ricorso all’indebitamento da parte del governo tedesco hanno fatto pagare l’unificazione ai partner [gli altri Stati europei] di Bonn, tramite i tassi d’interesse e il consecutivo aumento del numero dei disoccupati. In tal modo la Bundesbank e il governo hanno fatto passare i loro interessi davanti a quelli dei loro partner europei, quando l’inchiostro del Trattato di Maastricht non era ancora asciutto.
Seppellimento dogmatico
Nei negoziati preparatori i dirigenti della Germania unificata seppero utilizzare abilmente le paure suscitate dalla sua nuova potenza, per imporre il loro modello di politica monetaria. In un primo tempo il Trattato aveva stabilito l’indipendenza delle Banche centrali, in attesa della creazione della Banca centrale europea incaricata di assicurare la stabilità della moneta unica. Questa ostinazione dogmatica è costata senza dubbio milioni di posti di lavoro all’Europa, mentre negli USA la Riserva federale (FED) ha rinunciato da gran tempo all’ortodossia monetaria, con i risultati (relativi) che si conoscono in materia di crescita.
I discorsi tranquillizzanti sull’adozione del «Patto di stabilità» - ratificato a Dublino in dicembre 1996, fanno presagire largamente un pessimo avvenire economico per l’Europa, già sotto la pressione di Bonn. La Germania, se pretende di alleggerire il più possibile il primo gruppo dell’euro, tentando in particolare di escluderne i Paesi meridionali dell’Unione europea, non dà però il buon esempio. Il suo indebitamento pubblico è derapato, superando l’80% del PIL e il suo deficit di bilancio supera la famosa barriera del 3% del PIL dal 1990>15. Il suo tasso di disoccupazione poi rivaleggia d’ora in poi con quello della Francia. Il solo rimedio proposto dal cancelliere Kohl per «ridurre della metà il numero dei disoccupati prima dell’anno 2000» è una riforma fiscale che, entrando in vigore nel 1999, dovrebbe favorire le imprese e le famiglie ad alto reddito, parallelamente all’accelerazione della deregolamentazione e della privatizzazione.
La mistificazione, secondo la quale i tedeschi dell’Ovest avrebbero finanziato l’unificazione, è stata propagandata allo stesso tempo all’interno della Germania e al di fuori. Ha permesso a un governo in difficoltà di mascherare – per un certo tempo – i suoi errori e d’imporre la sua «ricetta» al resto dell’Europa. Questa ricetta, agli antipodi del modello di economia sociale di mercato, che è stata alla base del successo economico tedesco si estenderà domani su tutto il Continente europeo?
 
NOTE
>1 Lire Matthias Greffrath, « Le modèle allemand bat de l’aile », Le Monde diplomatique, décembre 1996, et Brigitte Pätzold, « Les Allemands de l’Est relèvent la tête », Le Monde diplomatique, février 1996.
>2 ) Sondage Emnid, dans Der Spiegel, 3 juillet 1995.
>3 Nell'URSS, complesso industriale consistente di un insieme di imprese, stanziate generalmente nella stessa regione economica e con complementarità di produzione in uno specifico campo tecnico.
>4 Vedi qui sotto il seguito: Un formidabile trasferimento di proprietà.
>5 Sondage Emnid, dans Der Spiegel, 3 juillet 1995.
>6 Les flux de biens et de services de l’Est vers l’Ouest se sont élevés à 43 milliards de deutschemarks, contre 253 milliards dans le sens inverse en 1994. Lire Rudolf Hickel, Jan Priewe, Nach dem Fehlstart, Fischer Verlag, Francfort-sur- Le Main, 1994. 36 DM. 
>7 Selon l’estimation de Rudolf Hickel et Jan Priewe, les augmentations d’impôt ont davantage pesé sur les ménages modestes, amputant 4 % des revenus disponibles des ouvriers et employés contre 1,5 % pour les indépendants ayant des revenus deux fois supérieurs en moyenne.
>8 L’Allemagne a en effet été remplacée par les Etats-Unis à la tête des pays exportateurs, notamment à cause de la réévaluation du mark et de la faiblesse de la conjoncture en Europe.
>9 Dieter Hummel, « Verdienstquelle Flüchtlinge », in Herbert Schui, Eckhart Spoo, dir., Geld ist genug da, Distel Verlag, Heilbronn, 1996. 28 DM. 
>10 Joachim Widmann, cité par le Leipziger Volkszeitung, 19 octobre 1996.
>11 Les Echos, 20 mars 1996.
>12 En 1992, les entreprises ouest-allemandes ont investi 42 milliards de deuschemarks dans les nouveaux Länder, contre 1,5 milliard dans les pays d’Europe centrale. Info-Schnelldienst, no 23, 1993.
>13 Hans-Georg Wehling (dir.), Standort Deutschland, Kohlhammer, Stuttgart, 1994.
>14 Süddeutsche Zeitung du 30 octobre 1995 et Frankfurter Allgemeine Zeitung du 10 novembre 1995.
>15 Fin 1995, la dette se répartit comme suit : 712 milliards de deutschemarks pour l’Etat fédéral, 600 milliards pour les Länder et communes, 275 milliards de deutschemarks pour la Treuhand, et 418 milliards pour les différents fonds créés à l’occasion de l’unification.



Giovedì 21 Novembre,2019 Ore: 16:14
 
 
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