- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (334) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org   Inchiesta sui padroni: In Germania gli imprenditori votano,di Olivier Cyran  

Le Monde Diplomatique – settembre 2013
  Inchiesta sui padroni: In Germania gli imprenditori votano

di Olivier Cyran  

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Oggi si svolgono in Germania le elezioni per il Bundestag, il Parlamento federale. Non si sa se e quanto cambieranno la rotta che la Germania di Merkel ha tenuto finora. Tuttavia può essere interessante scoprire quali sono gli interessi dei grandi gruppi indistriali tedeschi e quali vantaggi hanno tratto finora dalla politica estera e interna della Germania. A discapito dell'equità sociale. JFPadova
Le Monde Diplomatique – settembre 2013
Inchiesta sui padroni
In Germania gli imprenditori votano
Sospinta avanti al rango di modello europeo, l’industria tedesca non corrisponde più all’immagine stereotipa del suo ceto dirigente [e/o proprietario], reputato ingegnoso e familiare, sociale e conquistatore. I dirigenti d’impresa germanici rappresentano una forza economica e finanziaria che pesa sugli arbitraggi europei quanto sulla politica nazionale. All’avvicinarsi delle elezioni federali, previste per il prossimo 22 settembre, a che pensano i dirigenti d’impresa tedeschi?
Dal nostro inviato speciale Olivier Cyran
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Con il suo fisico hollywoodiano e il suo leggero accento bavarese, Klaus Probst incarna la sintesi perfetta del cittadino del mondo e dell’industriale asserragliato nella sua piazzaforte. Il «modello tedesco» tanto spesso invocato ha un bel scricchiolare in tutte le giunture, nessun dubbio sfiora questo ingegnere di lungo corso diventato top manager. «Il nostro sistema costituisce proprio un modello», assicura con voce pacata. «Quando vediamo la Francia e il modo in cui i sindacati vi reagiscono alle soppressioni di posti di lavoro noi misuriamo il vantaggio del quale disponiamo qui, in Germania, dove tutti riescono a intendersi su soluzioni ragionevoli. Il partenariato sociale che regna nel nostro Paese mi sembra essere di grande stabilità; non vedo minacce all’orizzonte».
Indistruttibile, l’ottimismo di Probst è all’altezza della multinazionale che presiede: Leoni AG, il maggior fornitore europeo di sistemi di cablaggio per l’industria automobilistica, l’anno scorso ha realizzato un fatturato di 3,8 miliardi di euro e un utile prima delle imposte di 263 milioni, in netto progresso rispetto agli anni precedenti. È anche uno dei membri più prestigiosi dell’Associazione dell’industria metallurgica ed elettronica della Baviera (VBM), che rappresenta seicento imprese e più di settecentomila posti di lavoro. «La VBM è una struttura molto potente», ammette Probst. «Essa difende gli interessi del nostro settore nei confronti della politica, in particolare quella di Horst Seehofer, presidente della Baviera, ma anche della Cancelliera Angela Merkel. Noi interveniamo particolarmente sulle questioni di politica energetica, perché l’elettricità costa sempre più cara, ciò che mette in pericolo alcune delle nostre imprese».
Lo scopo è quello di aggirare le disposizioni della “svolta energetica”, che si presume promuova le energie alternative, ma che è edulcorata da una serie di emendamenti approvati sotto la pressione dei lobbisti. Dopo una modificazione legislativa del 2011, più di duemila grandi imprese sono state esentate dall’eco-tassa, un’imposta prelevata sui grandi consumatori di energia fossile. Il costo di questi arrangiamenti per il Tesoro pubblico è stimato in 4 miliardi di euro per il 2013 (1).
In Germania il lobbismo prende anche la forma di denaro sonante e frusciante. Dal 2002 al 2011 la VBM ha così distribuito 4,16 milioni di euro a diversi partiti, dei quali 3,7 all’Unione Cristiano-Sociale (CSU) del pres. Seehofer (2). Soltanto BMW e Deutsche Bank si sono mostrate più generose.
Rinchiusi in una bolla
Di fronte a queste cifre, l’epidemia nazionale dei salari bassi e della precarietà sembra improvvisamente fuori luogo. Il fatto che la Germania faccia parte dei tre Paesi europei – dopo Bulgaria e Romania – nei quali il divario dei redditi, fra il 20% dei più agiati e il 20% dei più poveri, si è allargato maggiormente fra il 2000 e il 2010 (3) non altera l’umore affabile di Probst. «Anche se numerosi studi confermano ciò che dite, attorno a me non vedo niente del genere», assicura il Presidente-Direttore generale (PDG). «Grazie agli aiuti sociali, ognuno qui dispone di una fonte di reddito che gli permette di vivere decentemente. Io stesso ho due figli che studiano; non ho alcun timore che la società nella quale vivono si spacchi o sprofondi nel caos». Probst guarda il suo orologio. Entro qualche istante deve tenere una conferenza nel lussuoso salone del Club della Stampa di Norimberga sul tema “Le innovazioni non cadono dal cielo”.
In materia d’innovazione, il gruppo Leoni ha dato molto nel corso della sua lunga storia, nella quale si riflette l’epopea del capitalismo renano. Fondata nel XIX secolo, nel mezzo della rivoluzione industriale, quotata in Borsa dal 1923, il fabbricante di cavi si rafforza durante il periodo nazionalsocialista, beneficiando del lavoro obbligatorio dei deportati. In seguito si potenzia grazie al «miracolo tedesco» del dopoguerra e del boom dell’industria automobilistica. L’euforia dell’epoca, unita al divieto degli «scioperi politici» e a un anticomunismo tanto più robusto quanto più si appoggia al Muro di Berlino, favorisce l’emergere di un consenso sociale inedito in Europa. La giovane Repubblica federale può così delegare alle organizzazione imprenditoriali il compito di negoziare autonomamente le convenzioni collettive, settore per settore.
Lo Stato rinuncia a qualsiasi intervento: spetta ai datori di lavoro fissare, in accordo con i sindacati, le condizioni di lavoro e di retribuzione. Come contropartita di questo potere sovrano, gli imprenditori si impegnano ad associare strettamente i rappresentanti del personale all’amministrazione delle loro aziende. Così nasce il sistema della cogestione paritaria, che attribuisce ai sindacati la metà dei seggi nelle istanze dirigenziali, sia nei Consigli di stabilimento (Betriebsrat) per le imprese piccole o medie, sia nei Consigli di sorveglianza (Aufsichtsrat) per quelle con più di cinquecento occupati. Paritario, in realtà, il sistema non era se non nella metallurgia: in tutti gli altri settori la direzione dispone di una maggioranza di un voto per decidere in caso di conflitto.
Invidiata dagli imprenditori latini, pure la cogestione alla tedesca è in via di dissolvimento. «Sulla carta tutto rimane perfetto, ma in realtà il partenariato sociale non esiste più, se non nelle industrie tradizionali», deplora Jürgen Bothner, segretario generale del sindacato Ver.di per il Land di Hesse. «L’ascesa di un’industria dei servizi largamente indifferente al suo fascino fa fondere il «modello tedesco» come neve al sole. Nel 2012 soltanto il 58% dei salariati d’Oltre Reno beneficiava di una convenzione collettiva: 60% nell’Ovest del Paese e 48% all’Est, contro rispettivamente 75% e 63% di quindici anni prima. E nei settori dove ancora si applica, la delicata bilancia fra i partner sociali pende sempre più da una sola parte. «Fra le centrali sindacali e i rappresentanti del personale che siedono nei direttori delle imprese i legami sono sempre più tenui, quando non si sono rotti del tutto», sospira Bothner. «Non è raro che gli eletti, che si presume difendano gli interessi dei salariati, scendano a patti con il datore di lavoro».
Probst, da parte sua, elogia il «senso di responsabilità» dei suoi partner sociali. Di fatto, questi ultimi sanno dimostrarsi accomodanti: nel 2000, poi fra il 2008 e il 2010, i rappresentanti dei salariati del settore metallurgico ed elettronico, al quale è affiliato il gruppo Leoni, hanno accettato senza protestare l’esigenza padronale di un blocco dei salari. Mediante il quale il fabbricante di cavi ha «superato la crisi e ora sta molto bene di salute, nell’interesse di tutti i dipendenti», si felicita cos’ il PDG. Il quale si è dimostrato meno rigoroso con sé stesso, poiché i suoi redditi sono aumentati dell’8,8% fra il 2008 e il 2009. Oggi egli è classificato al cinquantacinquesimo posto nel palmarès dei manager meglio pagati di Germania, con un compenso annuo di 1,87 milioni di euro, ai quali si aggiungono i suoi proventi finanziari (4).
Un altro fattore ha contribuito a svuotare della sua sostanza il partenariato sociale: le ondate di delocalizzazioni che hanno spazzato la Germania da due decenni. Anche in questo campo Leoni AG ha fatto parte del precursore. Sui sessantamila lavoratori del gruppo quattromila soltanto lavorano ancora sul suolo tedesco. «Quando il muro di Berlino è caduto, nel 1989», rammenta Probst, «abbiamo deciso seduta stante di delocalizzare una parte della nostra produzione in Ungheria, in Polonia, in Slovacchia e nella Repubblica Ceca».
Dopo una seconda ondata alla fine degli anni ’90 verso Ucraina e Romania, ne è seguita una terza negli anni 2000, questa volta in direzione di Tunisia, Marocco ed Egitto. Le rivoluzioni arabe hanno intralciato questa strategia della competitività? «Per niente», ribatte il manager. «Il calcolo è presto fatto: in Germania il costo del lavoro nel settore elettronica è di 25 euro l’ora, contributi sociali compresi, mentre è di 6 euro in Polonia e di 2 euro in Tunisia». Inutile precisare che i dodicimila operai dell’impianto tunisino di Sousse, in maggioranza donne pagate 300 euro il mese, non sono toccate dai vantaggi del “modello tedesco”. Per Probst la loro assunzione rientra piuttosto in una « moderna forma di aiuto allo sviluppo».
«La Germania va molto bene. Non siamo mai stati tanto vicini alla piena occupazione», professa ancora Probst. In un Paese nel quale quattro milioni di lavoratori – ovvero il 12% della popolazione attiva – ricevono un salario orario lordo inferiore a 7 euro (5) e dove un’agenzia di collocamento ritiene utile pubblicare un opuscolo che consiglia ai disoccupati di bere acqua del rubinetto piuttosto che in bottiglia (6), discorsi tanto bonari possono sorprendere. Ma ciò sarebbe dimenticare che i grandi imprenditori tedeschi vivono in una bolla a tenuta sempre più stagna.
Professore di sociologia all’Università di Heidelberg, Markus Pohlmann da sei anni dirige un ambizioso studio sulle élite economiche nei quattro angolo del Globo. In Germania la sua équipe ha portato a termine ottantadue interviste con top manager (alti dirigenti) appartenenti a due generazioni: coloro che erano in carica negli anni ’80 e ’90 e quelli che hanno oggi il comando. Con l’obiettivo di «valutare fino a che punto i principi del neoliberismo hanno impregnato lo spirito di chi decide e la sua gestione degli affari».
Secondo Pohlmann gli imprenditori tedeschi «si consacrano corpo e anima alla loro azienda, molto più oggi che vent’anni fa. Il loro tempo di lavoro oscilla in media fra quattordici e sedici ore al giorno durante la settimana, poi ancora fra dieci e dodici ore nel weekend. L’impresa è l’unico filtro attraverso il quale essi percepiscono il mondo sociale». Il sociologo nota un altro cambiamento essenziale: «Per la vecchia generazione esisteva una specie di patto sociale in virtù del quale la ricerca del consenso temperava il freddo obbligo di accumulare profitti. Questo concetto è scomparso. Ciò che ormai prevale è il principio del capitale umano, secondo il quale ogni individuo è responsabile del suo destino. Coloro che riescono meno bene – le “persone con prestazioni limitate”, come le si definisce in quell’ambiente – le si scarta senza alcuno scrupolo».
«La mano d’opera ha un costo, come il prosciutto”
Questa evoluzione si traduce sia nei discorsi che nella pratica. Da qualche anno le professioni di fede dei grandi imprenditori contrastano, nella loro crudezza priva di complessi, con i toni più melliflui della vecchia scuola. «In Germania tendiamo a immaginarci che sul capo dell’impresa incomba il compito di versare al lavoratore un salario sufficiente per fare vivere tutta la sua famiglia. Ma è impossibile sul piano economico», affermava per esempio nel 2005 Walter Norbert, allora economista-capo alla Deutsche Bank (7). Nella medesima epoca Michael Rogowski, allora presidente della potente Federazione dell’Industria tedesca (BDI), ricorreva a una metafora animalista per spiegare il funzionamento del mercato del lavoro: «La mano d’opera ha un costo, esattamente come il prosciutto. Nel ciclo commerciale i prezzi sono alti quando il prosciutto è raro. Quando ce n’è molto, i prezzi calano (8)». Dopo di allora, l’amatore di salumi è diventato consulente del gruppo americano d’investimenti Carlyle, poi animatore di un programma televisivo di N-TV.
Ma è sul piano dei «valori etici» che, secondo l’espressione di Pohlmann, i dirigenti attuali si smarcano più apertamente dalle generazioni precedenti. Sembra sia volata in pezzi la moderazione protestante tradizionalmente abbinata al capitalismo renano, come fosse stata silurata dall’attrattiva del guadagno. «Con un reddito medio di 2,9 milioni di euro i principali dirigenti delle imprese quotate all’indice di Borsa di Francoforte (DAX) hanno ottenuto redditi quattro volte e mezza più elevati che nel 1995: un aumento folgorante in quindici anni solamente. Nel 2011 i loro redditi hanno avuto una impennata sostanziosa, con una media di 3,14 milioni di euro per ogni membro di direttorio», osserva il sociologo Michael Hartmann nella sua ultima opera (9).
Un altro elemento rivelatore di questa disgregazione: la moltiplicazione, nel corso degli ultimi anni, dei casi di frode fiscale. Non è che la truffa sia invenzione recente dei grandi contribuenti: negli anni ’70 faceva già «bon ton mettere al riparo al’estero i propri soldi», come ammette Albert Eickhoff, un industriale della haute couture incriminato nel 2012 per frode fiscale assieme a diverse centinaia di altri milionari tedeschi (10). Ciò che è cambiato, constata Pohlmann, è l’ostentazione con la quale i capi d’impresa vantano la loro tolleranza per queste pratiche. «Nel 2009, dopo la condanna del patron della Deutsche Post, Klaus Zumwinkel, quasi tutti i nostri interlocutori erano d’accordo nel sottolineare che i 2 o 3 milioni dissimulati dal loro sfortunato collega non erano altro che cosucce da nulla e che non c’era proprio di che mettere su uno scandalo».
Membro del Consiglio di sorveglianza della DZ Bank, terzo istituto bancario in Germania con un capitale in fondi propri di 11 miliardi di euro, Sigmar Kleinert stona nell’ovattato ambiente dei colletti bianchi per i suoi scoppi di collera contro ciò che egli chiama la «berlusconizzazione» del Paese. Dopo che Gerhard Schröder ha monetizzato i suoi rapporti politico-economici presso il gruppo energetico russo Gazprom [ndt.: come consulente!] «le dighe hanno ceduto, non vi è più limite ai conflitti d’interesse», così denuncia. E cita a esempio il percorso di Wolfgang Clement, ministro dell’Economia e del lavoro nel governo Schröder, diventato in seguito consigliere del gigante del lavoro interinale Adecco e della banca Citigroup. O ancora i «ménage» di Peer Stainbrück, il capofila del Partito socialdemocratico (SPD) alle prossime elezioni legislative: fra novembre 2009 e ottobre 2010 il candidato alla Cancelleria ha tenuto settantaquattro conferenze per istituti come Deutsche Bank, Citigroup, BNP Paribas e JP Morgan. Ogni volta avrebbe intascato fra 15.000 e 25.000 euro.
Saper trarre profitto dalle disgrazie altrui
Il passaggio da incarichi pubblici a lavoro nel privato dei Segretari di Stato (i direttori dei gabinetti ministeriali) illustra la crescente porosità fra il mondo politico e gli ambienti degli affari. Hartmann ha calcolato che fra il 1949 e il 1999 sui venti Segretari di Stato che si sono succeduti al ministero delle Finanze soltanto cinque sono passati alla vita privata dopo aver lasciato il loro posto, ossia uno su quattro; una proporzione rimasta stabile durante un mezzo secolo. Dopo il 2000, al contrario, sette delle otto persone che hanno occupato in successione quel posto hanno in seguito fatto carriera nelle alte sfere dell’economia o della finanza.
I ponti fra pubblico e privato si passano d’altronde allegramente nei due sensi. Alto funzionario al ministero delle Finanze e membro del SPD, Axel Nawrath viene reclutato nel 2003 dalla Borsa di Francoforte per assumere la direzione delle Pubbliche relazioni; due anni più tardi riprende il servizio pubblico nel posto di Segretario di Stato del ministro delle Finanze, Hans Eichel. Oggi siede nel direttorio di KfW, una delle quindici maggiori banche di Oltre Reno.
S’indovina che i legami annodati fra i poteri pubblici e i potentati del denaro non sono privi di vantaggi per questi ultimi. Il caso di Heribert Zitzelsberger corrobora questa percezione. Ex responsabile finanziario del gigante dell’industria chimica Bayer, in seno al quale si occupava in particolare delle strategie di ottimizzazione fiscale, è distolto dai suoi doveri nel 1999 dal governo rosso-verde di Schröder per diventare Segretario di Stato al ministero delle Finanze. «Abbiamo inviato a Bonn il nostro migliore fiscalista. Spero che sia stato sufficientemente “infiltrato” da Bayer perché metta in moto le necessarie riforme», annuncia il PDG del gruppo, Manfred Schneider, fra gli applausi dell’assemblea degli azionisti (11)».
Non sarà deluso. Zitzelsberger piloterà una riforma fiscale che consiste nel ridurre l’imposta sulle società dal 34% al 25% e nel defiscalizzare i profitti realizzati dalle imprese quotate in Borsa sulla rivendita di azioni. All’annuncio di queste misure di «sostegno alla competitività», con un costo di 23 miliardi di euro per le casse dello Stato, l’indice DAX è balzato in alto del 4,5%. Grazie al suo ex fiscalista, il gruppo Bayer nel 2001 intasca un ristorno fiscale di 250 milioni di euro, che riversa integralmente ai suoi azionisti. Morto due anni più tardi, Zitzelsberger riceverà gli omaggi del patronato tedesco, afflitto nel vedere scomparire l’uomo che gli ha fatto «il più grande regalo di tutti i tempi (12)».
Anche Berthold von Freyberg si è profuso in manifestazioni di gratitudine per Schröder. Rampollo di una vecchia e potente famiglia aristocratica – suo fratello, Ernst, presiede la Banca del Vaticano – questo cinquantenne dal portamento di un campione di tennis ha fondato con due soci un fondo d’investimenti di capitale-rischio, Target Partners, che scommette i milioni dei suoi clienti su start-up di alta tecnologia. Nei suoi sontuosi uffici di Monaco di Baviera si dichiara desolato per l’ingiustizia che colpisce la sua professione: «Su 100 milioni che investi, per cinque anni percepisci una commissione annua del 2,2%, ossia 2,2 milioni. Ora, dopo un anno i fondi d’investimento tedeschi devono pagare una tassa del 19% su queste commissioni. La Germania è il solo Paese d’Europa che ha imposto questa misura. Questo costituisce un torto immenso per tutto il settore, scoraggiando gli investitori. Di colpo prendiamo a nostro carico queste imposte, ciò che si traduce in una perdita del 19% sui nostri utili. È catastrofico. Dobbiamo stringere la cinghia».
Secondo von Freyberg non sarebbe l’ex cancelliere socialdemocratico che avrebbe commesso una tale indelicatezza: «Schröder ha creato le condizioni di prosperità che noi oggi conosciamo. Gli dobbiamo infinitamente più che alla signora Merkel, della quale non critico la difesa dell’euro, ma che non ha realizzato nemmeno un quarto di quello che ha realizzato il suo predecessore in materia di riforme strutturali del mercato del lavoro».
Ciò malgrado, secondo uno studio realizzato dal gruppo di consulenza in management Kienbaum, una schiacciante maggioranza dei capi d’impresa tedeschi accorda la sua fiducia prima di tutto all’Unione Cristiano-Democratica (CDU) della signora Merkel (78%). Titolari d’impresa che apprezzano la sinistra ma votano a destra: la specificità tedesca ha decisamente piombo nelle ali.
Il medesimo sondaggio indica d’altronde che la moneta unica conserva la piena fiducia degli ambienti degli affari. Due capi d’impresa su tre la giudicano benefica per il loro Paese. L’ex dirigente della Federazione dell’industria tedesca (BDI) Hans-Olaf Henkel, impegnato al fianco dell’Alternanza per la Germania (AfD) [ndt.: è il Partito Anti-Euro] in una rumorosa campagna contro la divisa europea, si sgola invano per convincere i suoi: soltanto l’1% dei dirigenti auspicherebbe il ritorno al Deutsche Mark. «Per le imprese tedesche l’euro è un formidabile successo. Malgrado le incertezze, hanno fiducia nella moneta unica e nelle politiche di salvataggio del governo Merkel», dichiara un responsabile di Kienbaum (13).
Con la sua sconcertante franchezza, Probst, il patron di Leoni, conferma: «Il deprezzamento dell’euro in rapporto al dollaro, conseguente ai cattivi risultati economici dei nostri vicini europei, ha dato evidentemente un colpo di frusta alle nostre esportazioni e ha rafforzato la nostra competitività sui mercati mondiali. Se la Germania tornasse al DM, ciò provocherebbe una rivalutazione della nostra moneta che sarebbe disastrosa per l’industria tedesca. Occorre riconoscerlo in tutta onestà: la pressione finanziaria esercitata sull’Europa mantiene l’euro a un livello artificialmente basso, che ci avvantaggia enormemente».
Saper trarre profitto dalle disgrazie altrui: sarebbe questo il nuovo modello tedesco? Per vederci chiaro ci si rivolge a un «piccolo» industriale del Mittelstand – termine che i tedeschi prediligono per designare le piccole e medie imprese, ma anche i valori di probità, di lavoro, di perseveranza cui restano legati. Lothar Reininger dirige con suo fratello la società Reininger AG, specializzata nella fornitura di materiali medici: sedie a rotelle importate dalla Cina, letti speciali fabbricati in Polonia, prodotti per l’igiene venuti dalla Tailandia, ecc. Impiega centonovanta dipendenti. Tuttavia Reininger torce il naso quando lo si qualifica come imprenditore. Già operaio dei cantieri Triumph-Adler, dai quali fu estromesso nel 1994 alla fine di uno sciopero «duro» contro la ristrutturazione del gruppo da parte di un fondo d’investimenti americano, siede dal 2006 al Consiglio municipale di Francoforte nei ranghi di Die Linke, il partito di sinistra. Se incarna molto imperfettamente i miti del Mittelstand, ne conosce però tutte le contraddizioni.
«Nel nostro settore, spiega, vi sono molti lavoratori precari, detti “indipendenti”, che guadagnano da 5 a 6 euro all’ora per piccoli lavori di consegne, di pulizie, disinfestazioni, ecc., che i nostri concorrenti subappaltano loro. Da noi, sono i nostri propri dipendenti che svolgono questi compiti per un minimo di 10 euro all’ora. Perfino in un contesto di sfrenata concorrenza, e per quanto dicano le organizzazioni padronali, è ancora possibile assicurare un reddito e uno statuto decenti ai propri impiegati. Ma per quanto tempo ancora? Soltanto l’introduzione di un salario minimo di 9 o 10 euro a livello federale potrebbe mettere un freno al dumping sociale. Rifiutandosi a ciò, il governo Merkel minaccia la sopravvivenza di qualche datore di lavoro che desidera lavorare correttamente». Nel 2012, Reininger AG è arrivata a realizzare un margine di 414.000 euro, ridistribuito ai salariati azionisti – «l’equivalente di due settimane di paga per persona, non di che partire per le Bahama». Non è sicuro che essa possa ripetere questa performance nel 2013.
NOTE
(1) « Diese Unternehmen sind von der Öko-Strom Umlage befreit », Cicero Online, 23 gennaio 2013, www.cicero.de
(2) Chiffres officiels du Bundestag. (3) Source : Eurostat. Cité par Michael Dauderstädt, Europas unterschätzte Ungleichheit, Fondation Friedrich-Ebert, Berlin, 2010.
(4) Classement annuel des revenus patronaux établi par Manager Magazin Online, www.managermagazin.de
(5) Source : Institut Arbeit und Qualifikation. Cité par Michael Hartmann, Soziale Ungleichheit. Kein Thema für die Eliten ?, Campus, Francfort, 2013.
(6) « Gehen Sie nie hungrig einkaufen », Die Süddeutsche Zeitung, Munich, 19 juillet 2013.
(7) Entretien au quotidien Volksstimme, Magdebourg, 11 février 2005.
(8) Cité par Norbert Blüm, ancien ministre du travail conservateur, dans Ehrliche Arbeit. Ein Angriff auf den Finanzkapitalismus und seine Raffgier (« Travail honnête, une attaque contre le capitalisme f inancier et sa rapacité »), Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh, 2011.
(9) Soziale Ungleichheit, op. cit.
(10) Entretien à Bild Zeitung, Berlin, 13 novembre 2012.
(11) Cité par Hans Weiss et Ernst Schmiederer, Asoziale Marktwirtschaft, Kiepenheuer & Witsch, Cologne, 2005.
(12) « Das grösste Geschenk aller Zeiten », Die Zeit, Hambourg, 8 septembre 2005.
(13) « Deutsche Unternehmen vertrauen dem Euro », Kienbaum, Berlin, 26 juillet 2013.



Lunedì 23 Settembre,2013 Ore: 08:19
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Stampa estera

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info