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www.ildialogo.org   Contro un’austerità in perpetuo -  Uscire dall’euro?,di  Frédéric Lordon  

Le Monde Diplomatique, agosto 2013, pagg. 1 e 20-21
  Contro un’austerità in perpetuo -  Uscire dall’euro?

di  Frédéric Lordon  

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Mentre qui impazza lo psico-ricatto a giorni alterni (Letta sì, Letta no…) per mendicare l’impossibile, da tempo in Europa si discute sempre più intensamente di uscita dall’euro. Il clima è molto diverso in Germania e negli altri Paesi che se ne occupano, perché discutere di una moneta che non ha un suo Stato democratico significa mettere in dubbio il sistema politico europeo, ingessato appositamente (con soddisfazione dei nostri patrons germanici) in una serie di trattati che ne escludono proprio una riforma democratica, un ritorno alla sovranità popolare. Ne ragiona F. Lordon, economista francese “di sinistra”, in questo articolo, che per la complessità degli argomenti trattati e la lunghezza esige una certa pazienza, compensata dalla passione “europea” dell’autore. La soluzione proposta è audace, difficilmente verrà presa in considerazione, visto il livello culturale e morale dei politici che ci troviamo (non soltanto quelli italioti), ma il tempo si occuperà dell’inevitabile resa dei conti su un’austerità a senso unico.
J.F.Padova

Le Monde Diplomatique, agosto 2013, pagg. 1 e 20-21

Contro un’austerità in perpetuo

Uscire dall’euro?

«Di fatto noi siamo già usciti dalla zona euro», ha ammesso Nicos Anastasiades, presidente di Cipro, un Paese nel quale le banconote non hanno più il medesimo valore che in Grecia o in Germania. L’esplosione della moneta unica è quindi già iniziata? Contro lo scenario del caos, l’idea dell’uscita dall’euro preparata e organizzata segue la sua strada.

Frédéric Lordon, economista, autore di La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli (La crisi di troppo. Ricostruzione di un mondo fallito), Fayard, Paris, 2009.

(traduzione dal francese di José F. Padova)

Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che si cambierà l’euro. Che si passerà dall’euro dell’austerità a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Ciò non accadrà. Basterebbe avere presente l’assenza di qualsiasi strumento politico nella situazione d’incrostazione istituzionale dell’attuale unione monetaria europea per farsene una prima idea. Ma questa impossibilità è dovuta soprattutto a un argomento molto più forte, che si esprime nei modi di un sillogismo.

Premessa maggiore: l’euro attuale procede da una costruzione che ha avuto come effetto, addirittura voluto intenzionalmente, di concedere ogni soddisfazione ai mercati dei capitali e di organizzare il loro influsso sulle politiche economiche europee (1). Premessa minore: ogni progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento dei poteri dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo della costruzione delle politiche pubbliche. Ergo, conclusioni: 1. Mai i mercati lasceranno tranquillamente svilupparsi, sotto i loro occhi, un progetto che ha come evidente finalità quella di ritirare loro il potere disciplinare [che hanno]; 2. Un simile progetto, non appena cominciasse ad acquistare sia poca che tanta consistenza politica e probabilità di essere messo in opera, urterebbe contro uno scatenarsi di speculazione e una crisi acuta di mercato, che ridurrebbe a nulla il tempo necessario per istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa e il cui esito, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.

La sinistra-che-continua-a-crederci non ha quindi che la scelta fra l’impotenza indefinita… oppure proprio l’avvento di ciò che essa pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell’euro iniziasse a essere preso sul serio!

E ancora, occorre intendersi su quello che vuole dire qui «la sinistra»: non di certo il Partito socialista (PS) [ndt.: da noi potrebbe benissimo essere il PD…], che con l’idea di sinistra mantiene ormai soltanto rapporti d’inerzia nominale, e neppure la massa indifferenziata dell’europeismo, la quale, silenziosa o beata durante due decenni [ndt.: ma è il belusconismo…!], scopre appena ora le tare del suo oggetto prediletto e si rende conto, sbigottita, che potrebbe andare in pezzi.

Ma non lo si recupera in un istante un periodo tanto lungo di beato sonno intellettuale. Così il ricorso alle ancore di salvezza si è avviato con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e di impreparazione totale.

In verità, le povere idee alle quali l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze non sono più altro che parole vuote: eurobbligazioni (o eurobond), «governo economico» o, ancor meglio, «salto democratico» - al modo di Hollande-Merkel, vi si intravede l’Inno alla gioia -, soluzioni di cartapesta per un pensiero alla Potemkin [ndt.: il ministro di Caterina di Russia che mostrava alla zarina fasulli villaggi benestanti…] che non avendo mai voluto informarsi rischia di non capire mai. D’altronde, si tratta forse meno di comprendere che di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea come gigantesca operazione di sottrazione politica.

Ma che cosa si tratta di sottrarre, esattamente? Né più né meno della sovranità popolare. La sinistra di destra, come per caso europeista forsennata, si riconosce fra le altre dal fatto che le fanno male le orecchie quando sente la parola “sovranità”, immediatamente squalificata in «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che neppure per un istante balena nella mente di quella «sinistra» là che «sovranità», dapprima compresa come sovranità del popolo, è soltanto l’altro nome della democrazia stessa. Sarebbe allora che, dicendo «democrazia», quella gente avrebbe in testa tutt’altra cosa?

Attraverso una specie di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità è precisamente il diniego della democrazia in Europa. «Ripiegamento nazionale» è allora la parola-spauracchio destinata a fare dimenticare questa leggera assenza. Si fa gran rumore di un Fronte nazionale al 25%, ma senza mai voler chiedersi se questo livello – effettivamente allarmante! – non avrebbe qualcosa a vedere, e proprio molto da vicino, con la distruzione della sovranità, non come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di dominare il loro destino.

Che cosa rimane effettivamente di questa capacità in una costruzione che ha fatto la scelta deliberata di neutralizzare per via costituzionale le politiche economiche – di bilancio e monetarie – sottoponendole a regole di condotta automatiche iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (TCE) del 2005 avevano finto di non vedere che l’argomento principale del «no» si trovava nella parte III, che era certamente acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) et Nizza (2001), ma che ripeteva, attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche dal criterio centrale della democrazia: l’esigenza della rimessa in discussione e della reversibilità permanenti.

Poiché non vi è più nulla da rimettere in gioco, e neppure da discutere, quando si è fatta la scelta di scrivere tutto, una volta per tutte, in trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento del bilancio, livello dell’indebitamento pubblico, forme di finanziamento dei deficit: tutte queste leve fondamentali sono state fossilizzate nel marmo. In che modo si potrebbe discutere del livello d’inflazione desiderato quando questo è stato consegnato nelle mani di una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe deliberare su una politica di bilancio quando il suo saldo strutturale è predeterminato («regola d’oro») e al suo saldo corrente è fissato un tetto massimo? In che modo decidere di un ripudio del debito, quando gli Stati non possono più finanziarsi se non sui mercati dei capitali?

Mancando la possibilità di dare la benché minima risposta a queste domande, o piuttosto con l’approvazione implicita che esse danno a questo costituzionale stato di cose, le povere trovate del Concorso Lépine [ndt.: il Lépine premia le invenzioni “povere”, come il passaverdure poi Moulinex, la penna biro, l’elica a passo variabile, ecc.] in chiave europeista sono destinate a passare sistematicamente di lato al problema centrale.

Ci si chiede così quale senso potrebbe avere l’idea di «governo economico» della zona euro, questo pallone gonfiato agitato da vent’ani dal PS, quando per precisione non c’è più niente da governare, poiché tutta la materia governabile è stata sottratta alla deliberazione governativa per essere rinchiusa nei trattati.

Sotto apparenze di grande balzo in avanti mediante la sofisticazione finanziaria, che d’altronde si riannoda in questo con la strategia europea dell’ingranaggio «tecnico», le eurobbligazioni, da parte loro, non hanno alcuna delle proprietà che i loro progettisti immaginano. La Germania, che gode dei tassi d’interesse più bassi quando prende in prestito sui mercati, vede molto bene quanto le costerebbe fare causa comune con i pezzenti del Sud. Se ne accettasse i costi, nel nome dell’ideale europeo da far progredire, non mancherebbe di chiedere, come contropartita al suo impegno per il mutualismo finanziario, un surplus draconiano di sorveglianza e d’ingerenza nelle politiche economiche nazionali – esattamente allo stesso modo che essa ha represso queste politiche, attraverso i trattati e i patti, nel momento di entrare nel mutualismo monetario.

La passione dei paraocchi

Vale a dire che, lungi dall’alleggerire per quanto poco le tare politiche dell’attuale costruzione, le eurobbligazioni al contrario farebbero loro subire un inedito livello di peggioramento. Chi può immaginare un solo istante che la Germania consentirebbe a entrare nel meccanismo di solidarietà finanziaria di un debito mutuo, vale a dire a essere meccanicamente costretta a pagare in caso di default di uno dei componenti, senza esigere, mediante il tramite di una Commissione [europea] rinforzata, un diritto di ingerenza drastico e permanente, sommato a una procedura di messa sotto tutela al minimo strappo di uno dei «partner»? L’indurimento delle costrizioni di pilotaggio automatico e delle forme di «troikizzazione» generalizzate – messa sotto tutela degli Stati da parte della «troika» ovvero della Commissione, della Banca centrale europea (BCE) e del Fondo monetario internazionale – sono il solo risultato scontabile delle eurobbligazioni. Ovvero l’esatto approfondimento della crisi politica nella quale l’Europa è già sulla via di sprofondare…

In questa vicenda è la Germania all’origine dell’espropriazione generalizzata di sovranità, sola soluzione ammissibile ai suoi occhi quando si tratta di condividere un destino economico e soprattutto monetario con altri, che essa giudica incapaci di esercitare la loro sovranità se non al peggio. Allora, neutralizzazione generale! Non resta attiva che… la sovranità tedesca, che si è trasferita tale e quale nelle istituzioni economiche e monetarie europee.

Le grida di spavento che accolgono ogni messa in discussione della Germania si susseguono allora con una tale stereotipia che finiscono per dirla molto più lunga su quelli che le emettono che sull’oggetto del quale si discute. Come nelle forme invertite di razzismo, che credono di negarsi da sé professando amicizie troppo rumorose per essere oneste, potrebbe essere che i più travagliati dalla questione tedesca siano coloro che proclamano la loro germano-mania come rifiuto di qualsiasi analisi.

A distanza uguale dai poli opposti della filìa e della fobia, dove si è ben sicuri che nessuna intelligenza può prosperare, vi è posto per l’analisi obiettiva delle complessioni strutturali, delle eredità storiche e dei rapporti di compatibilità o d’incompatibilità che ne risultano quando si tratta di far vivere insieme Paesi differenti su un livello d’integrazione un poco più spinto. Nel caso specifico occorre veramente avere la passione per i paraocchi per non vedere che la Germania si è fabbricata una religione intorno alla moneta e che la innalza come sfida tanto elevata che la minima concessione in questa materia le è semplicemente impossibile. Se essa ha accettato di entrare nell’euro, non l’ha fatto che alla condizione sine qua non di poter dettare alla moneta europea un’architettura costituzionale ricalcata sulla sua propria.

Che la Germania si sia persa nell’idea (sbagliata) che la sua iperinflazione del 1923 sia stata l’anticamera del nazismo, quando la deflazione del 1931 lo è stata con ben maggiore probabilità, la cosa non ha alcuna importanza: essa ci crede e agisce conformemente a questa convinzione. Nessuno può rimproverarle di avere la storia che ha e neppure di condividere il racconto che se ne è fatta. Nessuno può rimproverarle di avere concepito una visione strana di ciò che deve essere un ordinamento monetario e di rifiutare di entrare in un ordinamento che ne differirebbe. Ma si può certamente rimproverare a Berlino di imporre le sue idee fisse a tutti! E se è perfettamente legittimo lasciare che la Germania continui nelle sue ossessioni monetarie, è anche del tutto legittimo non desiderare di inseguirle insieme a essa. In particolare quando questi principi monetari non convengono alle strutture economiche e sociali degli altri Paesi e, nel caso specifico, ne portino qualcuno al disastro.

Perché certi Stati membri hanno bisogno di svalutazione; certi altri, di lasciare aumentare i deficit; altri ancora, di ripudiare una parte del loro debito o, ad altri, occorre inflazione. E tutti hanno soprattutto necessità che queste cose ridivengano oggetti passibili di deliberazione democratica! Ma i principi tedeschi, iscritti nei trattati, lo vietano…

Che ci sia posto per speranze nel «salto democratico» proposto da Hollande e Merkel è senza dubbio un eufemismo. La riattivazione di un progetto federalista resta in ogni modo un orizzonte dei più indefiniti, tanto che non si è detto in che cosa consisterebbe e non ci si è data la pena di esaminarne le condizioni di realizzabilità. Sarebbe innanzitutto necessario chiedere ai partigiani della progressione federalista di illustrarci il miracolo che porterebbe la Germania ad accettare che tutte quelle questioni, che essa si è metodicamente sforzata di escludere, rientrino nell’ambito della deliberazione democratica; e poi domandare loro se ritengono che un federalismo, cui sempre è stato vietato per via costituzionale di dibattere questi problemi, resterebbe ai loro occhi un «salto democratico» (2).

Per il piacere dell’esperienza di pensiero, concediamo loro però l’ipotesi di una democrazia europea federale pienamente attiva, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, evidentemente bicamerale, dotato della pienezza delle sue prerogative, eletto con suffragio universale, come esecutivo europeo (del quale d’altra parte non si saprebbe che forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l’Europa per superare la crisi» (3) sarebbe allora la seguente: immaginano essi la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la BCE, la possibilità del finanziamento monetario degli Stati o finanche la soppressione del limite massimo ai deficit di bilancio? Per generalizzare l’argomentazione, si aggiungerà che la risposta – evidentemente negativa – sarebbe la stessa (nel caso specifico: sperabile!), se quella stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia l’integrale privatizzazione della Previdenza sociale. Al dunque, che cosa mai non si sarebbe sentito se la Francia avesse imposto all’Europa la sua propria forma di Previdenza sociale, come la Germania ha imposto il suo ordinamento monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto un punto di ultimatum?...

Bisognerà quindi che gli ingegneri del federalismo arrivino ad accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non ne esauriscono per niente il concetto e che non c’è democrazia viva, e neppure possibile, senza un sottofondo di sentimenti collettivi, il solo in grado di fare acconsentire alle minoranze la legge della maggioranza. Ma è proprio qui il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti –, privi di qualsiasi cultura politica e che tuttavia formano l’essenza del personale politico nazionale ed europeo, sono incapaci di vedere. Questa insufficienza intellettuale ci mette regolarmente davanti a questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, poiché il «salto democratico» si annuncia già totalmente inconsapevole delle condizioni passionali della democrazia e della difficoltà di dare loro soddisfazione in un quadro plurinazionale.

Una volta rammentato che il ritorno alle monete nazionali, da parte sua, soddisfa tutte queste condizioni e rimane tecnicamente praticabile per poco che si accompagni a tutte le misure laterali ad hoc (in particolare al controllo dei capitali) (4), non si può abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa. Non una moneta unica, perché presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori portata. Una moneta comune, al contrario, la si studia! Tanto più che i buoni argomenti per una forma di europeizzazione rimangono, salvo beninteso che gli inconvenienti non prevalgano sui vantaggi…

Ora questa alternativa ridiventa finalmente favorevole se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, vale a dire a un euro dotato di rappresentanze nazionali: euro-franchi, euro-pesetas, ecc. Queste denominazioni nazionali dell’euro non sono direttamente convertibili all’estero (in dollari, in yuan, ecc.) e neppure fra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano attraverso una nuova BCE, che funge in un certo modo da ufficio di cambio, ma è priva di poteri di politica monetaria. Questi sono affidati a banche centrali nazionali, ai cui governi spetterà di stabilire se riprenderne le redini o no.

La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettua classicamente sui mercati internazionali di cambio, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la BCE, che sola interviene per conto dei rappresentanti europei (pubblici e privati). Per contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro fra loro, si effettua al solo sportello della BCE e a parità fisse, decise politicamente.

Ricupero della sovranità monetaria

Eccoci quindi sbarazzati dai mercati di cambio intereuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all’epoca del sistema monetario europeo (5), e protetti dai mercati di cambio extraeuropei per mezzo del nuovo euro. Questa doppia prerogativa è ciò che fa la forza della moneta comune.

Fugato ora il fantasma della convergenza «automatica» delle economie europee, sappiamo che alcune economie hanno necessità di svalutare – a maggior ragione durante la presente crisi! Ora, il dispositivo di convertibilità interna della moneta comune ha l’immensa virtù di rendere nuovamente possibili queste svalutazioni, ma nella calma. L’esperienza degli anni ’80 e ’90 ha mostrato a sufficienza l’impossibilità di aggiustamenti di cambio ordinati sotto lo scatenarsi di mercati finanziari interamente liberalizzati. La quiete interna di una zona monetaria europea liberata dal flagello dei suoi mercati di cambio rende allora le svalutazioni processi interamente politici, nei quali spetta alla negoziazione interstatale di accordarsi su una nuova griglia di parità.

E non soltanto le svalutazioni! Perché il complesso potrebbe essere configurato al modo dell’International Clearing Union proposta nel 1944da John Maynard Keynes, il quale, oltre alla possibilità di svalutare offerta ai paesi con forte squilibrio estero, prevedeva ugualmente di forzare alla rivalutazione i Paesi con forti eccedenti. In un simile sistema, che costringerebbe a svalutazioni graduali attraverso una serie di limiti di eccedenze (per esempio il 4% del PIL, poi il 6%), la Germania avrebbe dovuto da tempo accettare un apprezzamento del suo euro-mark e mediante ciò sostenere la domanda nella zona euro, quindi partecipare alla riduzioni degli squilibri interni. In questo modo regole di aggiustamenti dei cambi supplirebbero nei negoziati alla prevedibile cattiva volontà dei Paesi eccedentari.

Il catechismo neoliberista urla «inefficacia» e «inflazione» non appena sente la parola «svalutazione». Per quanto riguarda l’inefficacia, diciamo che la coerenza non è per niente il suo forte, perché la svalutazione è proprio quello che non smette di consigliare caldamente! Tranne che perori per la svalutazione interna, attraverso i salari – e la disoccupazione, che fa pressione sui salari! – in luogo della svalutazione esterna, quella del tasso di cambio. L’adeguamento strutturale piuttosto che l’allineamento di parità delle monete… Se arrivassero a uscire dall’euro per essere cani sciolti, i tedeschi, che vedrebbero un decennio di restrizioni salariali annullato in un paio di giorni dalla rivalutazione del neo DM [deutsche Mark], se ne accorgerebbero molto in fretta…

Quanto all’inflazione, che richiederebbe di preferire il primo adeguamento al secondo, si tratta di un ectoplasma, in un periodo che è tanto più minacciato dalla deflazione (il ribasso generalizzato dei prezzi), che è almeno altrettanto pericolosa e che chiamerebbe nei fatti a una re-inflazione controllata, non fosse altro che per alleggerire il peso reale del debito.

Ma questo effetto di alleggerimento reale non sarebbe dominato dal rincaro del nostro debito esterno a causa della svalutazione stessa? Svalutare del 10% contro il dollaro equivale, automaticamente, ad appesantire del 10% il nostro debito espresso in dollari. Tranne che, come l’ha dimostrato Jacques Sapir (6), l’85% del debito francese è stato emesso in obbligazioni di diritto francese e sarebbe riformulato in euro-franchi, pertanto senza alcun effetto in seguito a una svalutazione.

La posta in gioco di una moneta comune, in ogni caso, va molto al di là della semplice reintroduzione di possibile svalutazione, della quale si può dire al tempo stesso che specialmente nell’attuale periodo è un elemento vitale di libertà, ma certo non la soluzione universale. Uscire dall’attuale euro è molto meno una questione di macroeconomia che di conformazione all’imperativo categorico della democrazia, che si chiama «sovranità popolare».

Se le condizioni di realizzabilità di questa sovranità popolare su scala sovranazionale sono ancora lontane, allora il realismo impone di ripiegare sull’ «ambizione europea»; ciò che non significa abbandonarla del tutto. Essa dovrebbe essere per esempio perseguita il più fortemente possibile in tutte le materie diverse da quelle economiche – sia detto questo contro le accuse di «ripiegamento nazionale». Quanto all’ambizione specificatamente economica si tratta anche di sapere con chi la si cerca. Certamente non in ventotto o in diciassette, grandi numeri che sembrano fatti apposta per garantire il peggio! Sono i rapporti obiettivi di compatibilità che decidono, presupponendo un’omogeneità minima delle forme di vita – le stesse idee, o idee simili, in materia di modello sociale, di preoccupazione ambientale, ecc. – e un accordo preventivo sui grandi principi di politica economica. All’inizio queste coerenze sono probabilmente alla portata soltanto di un piccolo numero di Stati. E non è sbagliato che si possa talvolta valutarle sulla base di indicatori di convergenza… ma non quelli di Maastricht.

Se si tratta, per esempio, di costituire una grande mercato sottostante alla moneta comune non si potrebbe farvi entrare se non economie con modelli socio-produttivi similari e, correlativamente, strutture di costi analoghe. Di conseguenza sarebbero ammessi in questa nuova Europa economica soltanto Paesi i cui salari medi o minimi non siano inferiori al 75% – o ad altro livello di soglia da determinare – della media dei salari, medi o minimi, degli altri Stati membri. E questa rifondazione totale della costruzione europea sarebbe l’occasione per farla finita sia con il delirio dell’ortodossia monetaria, finanziaria e dell’adeguamento strutturale generalizzato, sia con le malefatte della concorrenza «non distorta», la stessa che si adatta tanto bene a tutte le distorsioni strutturali, sociali e ambientali e che si propone in realtà di applicarle con la massima violenza possibile.

E qui si ritorna al sillogismo di partenza: l’idea di passare dall’euro attuale a un euro rifatto e progressista è un sogno cariato. Se è progressista, nella sua costruzione i mercati finanziari, che attualmente hanno tutto il potere, non lo lasceranno realizzarsi. L’alternativa dunque è la seguente: o lo sprofondamento definitivo in un euro liberista modificato marginalmente con trovate di basso livello come il «governo economico», e in alternativa le euro-obbligazioni, impiastri che non modificano per nulla la logica profonda della «sottrazione democratica»; oppure lo scontro frontale con la finanza, che a colpo sicuro l’avrà vinta… e con ciò stesso perderà tutto, perché la sua «vittoria» distruggerà l’euro e creerà proprio le condizioni per una ricostruzione dalla quale i mercati, questa volta, saranno esclusi!

Tuttavia è certo che questo ritorno forzato alle monete nazionali, che suona come un fallimento, avrà effetti politicamente depressivi, che peseranno per un certo periodo su qualsiasi progetto di rilancio europeo. È perché, a cose d’altronde invariate, la probabilità di un simile rilancio a termine dipende in misura cruciale dal modo in cui si esce dall’euro. Mettere energia politica europea come riserva per attraversare il periodo delle monete nazionali presuppone quindi di decidere di «cadere sulla moneta comune», vale a dire di provocare la deflagrazione dei mercati annunciando questo progetto, facendone con fermezza l’orizzonte di una volontà politica di un certo numero di Paesi europei, piuttosto che dare a questo scontro il solo sbocco senza uscita delle monete nazionali. Se quindi non si sfugge al ritorno alle monete nazionali, il modo di ritornarvi determina la possibilità di ripartirne.

In ogni caso, salvo la grande anestesia definitiva nell’euro antisociale, ci si ritornerà. Sta qui la punizione di una costruzione incapace di evolversi per essersi privata con le sue mani di ogni livello di libertà. Le costruzioni ultrarigide hanno la sola scelta di resistere finché non devono affrontare colpi esterni troppo forti, oppure di collassare; ma non quella di adeguarsi.

Prendersela con il cuore della costruzione

L’europeismo protesterà dicendo che la sua beneamata Europa non cessa al contrario di fare progressi. Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF), Meccanismo europeo di stabilità (MES), riscatto di debito sovrano da parte della BCE (7), Unione bancaria: altrettanti progressi, acquisiti senza dubbio un po’ dolorosamente, ma ben reali! Purtroppo, e non sorprende, nessuno di essi va al cuore stesso della costruzione, questo nocciolo duro dal quale emanano tutti gli effetti depressivi e antidemocratici: esposizione delle politiche economiche agli attacchi dei mercati finanziari, banca centrale indipendente, ossessione antinflazionistica, adeguamento automatico dei deficit di bilancio, rifiuto di ipotizzare il loro finanziamento monetario. Anche i «progressi» rimangono periferici, toppe destinate ad accomodare come possono le più disastrose conseguenze che il «cuore», granitico e fatto santuario, non finisce di produrre.

Rattoppando gli effetti senza mai voler mettere mano alle cause, l’Europa dunque persevera. Incapace della benché minima revisione di base e inconsapevole del fatto che la rottura è il solo destino che essa si dà.

(1) Lire François Denord et Antoine Schwartz, « Dès les années 1950, un parfum d’oligarchie », Le Monde diplomatique, juin 2009.

(2) Lire Serge Halimi, « Fédéralisme à marche forcée », Le Monde diplomatique, juillet 2012. 

(3) Thomas Piketty, « Changer d’Europe pour surmonter la crise », Libération, Paris, 17 juin 2013. 
(4) Per esempio, contingentando, e anche vietando, certe operazioni finanziarie.

(5) Il Sistema monetario europeo (SME) era un sistema di cambi fissi, ma accompagnati da una fascia di fluttuazione di più o meno il 2,25% dei tassi-perno. È la difficoltà di mantenere saldi questi tassi-perno in presenza della libertà di movimento dei capitali che ha portato lo SME a crisi ripetute.

(6) Jacques Sapir, « Quand la mauvaise foi remplace l’économie : le PCF et le mythe de “l’autre euro”», RussEurope, 16 juin 2013, russeurope.hypotheses.org 

(7) Il FESF e il MES sono i due Fondi per l’assitenza ai Paesi indebitati. L’OMT (Outright Monetary Transactions) è un programma della BCE per il riacquisto dei titoli sovrani.
 

Aggiungo una nota di F. Lordon sul sistema di convertibilità proposto nell’articolo:

Convertibilità, istruzioni per l’uso

Un’impresa spagnola che deve pagare un contratto a un’impresa francese dovrebbe rivolgersi alla Banca Centrale Europea (BCE) – alla sua rete di agenzie o alle banche ordinarie che agirebbero per conto della BCE in funzione del cambio – per trasformare le sue euro-pesetas in euro-franchi francesi al tasso di cambio fisso in vigore. Un’impresa americana che deve pagare un acquisto fatto in Francia comincerebbe, da parte sua, comprando euro contro dollari sui mercati di cambio esterni e al tasso (fluttuante) del momento, poi si presenterebbe alla BCE per cambiare i suoi euro contro euro-franchi (al tasso fisso euro/euro-franchi).

Se l’euro-franco svaluta del 5% contro l’euro, restando il resto invariato, esso svaluta ipso facto del 5% contro tutti gli euro (euro-lira, euro-fiorino, euro-dracma, ecc.) e contro il dollaro. Questo costerebbe a un’impresa francese 5% di euro-franchi in più al cambio della BCE per ottenere euro per pagare lo stesso bene in euro-lire o in dollari.

Le Monde Diplomatique, agosto 2013, pagg. 1 e 20-21

Contro un’austerità in perpetuo

Uscire dall’euro?

«Di fatto noi siamo già usciti dalla zona euro», ha ammesso Nicos Anastasiades, presidente di Cipro, un Paese nel quale le banconote non hanno più il medesimo valore che in Grecia o in Germania. L’esplosione della moneta unica è quindi già iniziata? Contro lo scenario del caos, l’idea dell’uscita dall’euro preparata e organizzata segue la sua strada.

Frédéric Lordon, economista, autore di La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli (La crisi di troppo. Ricostruzione di un mondo fallito), Fayard, Paris, 2009.

(traduzione dal francese di José F. Padova)

Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che si cambierà l’euro. Che si passerà dall’euro dell’austerità a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Ciò non accadrà. Basterebbe avere presente l’assenza di qualsiasi strumento politico nella situazione d’incrostazione istituzionale dell’attuale unione monetaria europea per farsene una prima idea. Ma questa impossibilità è dovuta soprattutto a un argomento molto più forte, che si esprime nei modi di un sillogismo.

Premessa maggiore: l’euro attuale procede da una costruzione che ha avuto come effetto, addirittura voluto intenzionalmente, di concedere ogni soddisfazione ai mercati dei capitali e di organizzare il loro influsso sulle politiche economiche europee (1). Premessa minore: ogni progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento dei poteri dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo della costruzione delle politiche pubbliche. Ergo, conclusioni: 1. Mai i mercati lasceranno tranquillamente svilupparsi, sotto i loro occhi, un progetto che ha come evidente finalità quella di ritirare loro il potere disciplinare [che hanno]; 2. Un simile progetto, non appena cominciasse ad acquistare sia poca che tanta consistenza politica e probabilità di essere messo in opera, urterebbe contro uno scatenarsi di speculazione e una crisi acuta di mercato, che ridurrebbe a nulla il tempo necessario per istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa e il cui esito, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.

La sinistra-che-continua-a-crederci non ha quindi che la scelta fra l’impotenza indefinita… oppure proprio l’avvento di ciò che essa pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell’euro iniziasse a essere preso sul serio!

E ancora, occorre intendersi su quello che vuole dire qui «la sinistra»: non di certo il Partito socialista (PS) [ndt.: da noi potrebbe benissimo essere il PD…], che con l’idea di sinistra mantiene ormai soltanto rapporti d’inerzia nominale, e neppure la massa indifferenziata dell’europeismo, la quale, silenziosa o beata durante due decenni [ndt.: ma è il belusconismo…!], scopre appena ora le tare del suo oggetto prediletto e si rende conto, sbigottita, che potrebbe andare in pezzi.

Ma non lo si recupera in un istante un periodo tanto lungo di beato sonno intellettuale. Così il ricorso alle ancore di salvezza si è avviato con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e di impreparazione totale.

In verità, le povere idee alle quali l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze non sono più altro che parole vuote: eurobbligazioni (o eurobond), «governo economico» o, ancor meglio, «salto democratico» - al modo di Hollande-Merkel, vi si intravede l’Inno alla gioia -, soluzioni di cartapesta per un pensiero alla Potemkin [ndt.: il ministro di Caterina di Russia che mostrava alla zarina fasulli villaggi benestanti…] che non avendo mai voluto informarsi rischia di non capire mai. D’altronde, si tratta forse meno di comprendere che di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea come gigantesca operazione di sottrazione politica.

Ma che cosa si tratta di sottrarre, esattamente? Né più né meno della sovranità popolare. La sinistra di destra, come per caso europeista forsennata, si riconosce fra le altre dal fatto che le fanno male le orecchie quando sente la parola “sovranità”, immediatamente squalificata in «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che neppure per un istante balena nella mente di quella «sinistra» là che «sovranità», dapprima compresa come sovranità del popolo, è soltanto l’altro nome della democrazia stessa. Sarebbe allora che, dicendo «democrazia», quella gente avrebbe in testa tutt’altra cosa?

Attraverso una specie di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità è precisamente il diniego della democrazia in Europa. «Ripiegamento nazionale» è allora la parola-spauracchio destinata a fare dimenticare questa leggera assenza. Si fa gran rumore di un Fronte nazionale al 25%, ma senza mai voler chiedersi se questo livello – effettivamente allarmante! – non avrebbe qualcosa a vedere, e proprio molto da vicino, con la distruzione della sovranità, non come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di dominare il loro destino.

Che cosa rimane effettivamente di questa capacità in una costruzione che ha fatto la scelta deliberata di neutralizzare per via costituzionale le politiche economiche – di bilancio e monetarie – sottoponendole a regole di condotta automatiche iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (TCE) del 2005 avevano finto di non vedere che l’argomento principale del «no» si trovava nella parte III, che era certamente acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) et Nizza (2001), ma che ripeteva, attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche dal criterio centrale della democrazia: l’esigenza della rimessa in discussione e della reversibilità permanenti.

Poiché non vi è più nulla da rimettere in gioco, e neppure da discutere, quando si è fatta la scelta di scrivere tutto, una volta per tutte, in trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento del bilancio, livello dell’indebitamento pubblico, forme di finanziamento dei deficit: tutte queste leve fondamentali sono state fossilizzate nel marmo. In che modo si potrebbe discutere del livello d’inflazione desiderato quando questo è stato consegnato nelle mani di una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe deliberare su una politica di bilancio quando il suo saldo strutturale è predeterminato («regola d’oro») e al suo saldo corrente è fissato un tetto massimo? In che modo decidere di un ripudio del debito, quando gli Stati non possono più finanziarsi se non sui mercati dei capitali?

Mancando la possibilità di dare la benché minima risposta a queste domande, o piuttosto con l’approvazione implicita che esse danno a questo costituzionale stato di cose, le povere trovate del Concorso Lépine [ndt.: il Lépine premia le invenzioni “povere”, come il passaverdure poi Moulinex, la penna biro, l’elica a passo variabile, ecc.] in chiave europeista sono destinate a passare sistematicamente di lato al problema centrale.

Ci si chiede così quale senso potrebbe avere l’idea di «governo economico» della zona euro, questo pallone gonfiato agitato da vent’ani dal PS, quando per precisione non c’è più niente da governare, poiché tutta la materia governabile è stata sottratta alla deliberazione governativa per essere rinchiusa nei trattati.

Sotto apparenze di grande balzo in avanti mediante la sofisticazione finanziaria, che d’altronde si riannoda in questo con la strategia europea dell’ingranaggio «tecnico», le eurobbligazioni, da parte loro, non hanno alcuna delle proprietà che i loro progettisti immaginano. La Germania, che gode dei tassi d’interesse più bassi quando prende in prestito sui mercati, vede molto bene quanto le costerebbe fare causa comune con i pezzenti del Sud. Se ne accettasse i costi, nel nome dell’ideale europeo da far progredire, non mancherebbe di chiedere, come contropartita al suo impegno per il mutualismo finanziario, un surplus draconiano di sorveglianza e d’ingerenza nelle politiche economiche nazionali – esattamente allo stesso modo che essa ha represso queste politiche, attraverso i trattati e i patti, nel momento di entrare nel mutualismo monetario.

La passione dei paraocchi

Vale a dire che, lungi dall’alleggerire per quanto poco le tare politiche dell’attuale costruzione, le eurobbligazioni al contrario farebbero loro subire un inedito livello di peggioramento. Chi può immaginare un solo istante che la Germania consentirebbe a entrare nel meccanismo di solidarietà finanziaria di un debito mutuo, vale a dire a essere meccanicamente costretta a pagare in caso di default di uno dei componenti, senza esigere, mediante il tramite di una Commissione [europea] rinforzata, un diritto di ingerenza drastico e permanente, sommato a una procedura di messa sotto tutela al minimo strappo di uno dei «partner»? L’indurimento delle costrizioni di pilotaggio automatico e delle forme di «troikizzazione» generalizzate – messa sotto tutela degli Stati da parte della «troika» ovvero della Commissione, della Banca centrale europea (BCE) e del Fondo monetario internazionale – sono il solo risultato scontabile delle eurobbligazioni. Ovvero l’esatto approfondimento della crisi politica nella quale l’Europa è già sulla via di sprofondare…

In questa vicenda è la Germania all’origine dell’espropriazione generalizzata di sovranità, sola soluzione ammissibile ai suoi occhi quando si tratta di condividere un destino economico e soprattutto monetario con altri, che essa giudica incapaci di esercitare la loro sovranità se non al peggio. Allora, neutralizzazione generale! Non resta attiva che… la sovranità tedesca, che si è trasferita tale e quale nelle istituzioni economiche e monetarie europee.

Le grida di spavento che accolgono ogni messa in discussione della Germania si susseguono allora con una tale stereotipia che finiscono per dirla molto più lunga su quelli che le emettono che sull’oggetto del quale si discute. Come nelle forme invertite di razzismo, che credono di negarsi da sé professando amicizie troppo rumorose per essere oneste, potrebbe essere che i più travagliati dalla questione tedesca siano coloro che proclamano la loro germano-mania come rifiuto di qualsiasi analisi.

A distanza uguale dai poli opposti della filìa e della fobia, dove si è ben sicuri che nessuna intelligenza può prosperare, vi è posto per l’analisi obiettiva delle complessioni strutturali, delle eredità storiche e dei rapporti di compatibilità o d’incompatibilità che ne risultano quando si tratta di far vivere insieme Paesi differenti su un livello d’integrazione un poco più spinto. Nel caso specifico occorre veramente avere la passione per i paraocchi per non vedere che la Germania si è fabbricata una religione intorno alla moneta e che la innalza come sfida tanto elevata che la minima concessione in questa materia le è semplicemente impossibile. Se essa ha accettato di entrare nell’euro, non l’ha fatto che alla condizione sine qua non di poter dettare alla moneta europea un’architettura costituzionale ricalcata sulla sua propria.

Che la Germania si sia persa nell’idea (sbagliata) che la sua iperinflazione del 1923 sia stata l’anticamera del nazismo, quando la deflazione del 1931 lo è stata con ben maggiore probabilità, la cosa non ha alcuna importanza: essa ci crede e agisce conformemente a questa convinzione. Nessuno può rimproverarle di avere la storia che ha e neppure di condividere il racconto che se ne è fatta. Nessuno può rimproverarle di avere concepito una visione strana di ciò che deve essere un ordinamento monetario e di rifiutare di entrare in un ordinamento che ne differirebbe. Ma si può certamente rimproverare a Berlino di imporre le sue idee fisse a tutti! E se è perfettamente legittimo lasciare che la Germania continui nelle sue ossessioni monetarie, è anche del tutto legittimo non desiderare di inseguirle insieme a essa. In particolare quando questi principi monetari non convengono alle strutture economiche e sociali degli altri Paesi e, nel caso specifico, ne portino qualcuno al disastro.

Perché certi Stati membri hanno bisogno di svalutazione; certi altri, di lasciare aumentare i deficit; altri ancora, di ripudiare una parte del loro debito o, ad altri, occorre inflazione. E tutti hanno soprattutto necessità che queste cose ridivengano oggetti passibili di deliberazione democratica! Ma i principi tedeschi, iscritti nei trattati, lo vietano…

Che ci sia posto per speranze nel «salto democratico» proposto da Hollande e Merkel è senza dubbio un eufemismo. La riattivazione di un progetto federalista resta in ogni modo un orizzonte dei più indefiniti, tanto che non si è detto in che cosa consisterebbe e non ci si è data la pena di esaminarne le condizioni di realizzabilità. Sarebbe innanzitutto necessario chiedere ai partigiani della progressione federalista di illustrarci il miracolo che porterebbe la Germania ad accettare che tutte quelle questioni, che essa si è metodicamente sforzata di escludere, rientrino nell’ambito della deliberazione democratica; e poi domandare loro se ritengono che un federalismo, cui sempre è stato vietato per via costituzionale di dibattere questi problemi, resterebbe ai loro occhi un «salto democratico» (2).

Per il piacere dell’esperienza di pensiero, concediamo loro però l’ipotesi di una democrazia europea federale pienamente attiva, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, evidentemente bicamerale, dotato della pienezza delle sue prerogative, eletto con suffragio universale, come esecutivo europeo (del quale d’altra parte non si saprebbe che forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l’Europa per superare la crisi» (3) sarebbe allora la seguente: immaginano essi la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la BCE, la possibilità del finanziamento monetario degli Stati o finanche la soppressione del limite massimo ai deficit di bilancio? Per generalizzare l’argomentazione, si aggiungerà che la risposta – evidentemente negativa – sarebbe la stessa (nel caso specifico: sperabile!), se quella stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia l’integrale privatizzazione della Previdenza sociale. Al dunque, che cosa mai non si sarebbe sentito se la Francia avesse imposto all’Europa la sua propria forma di Previdenza sociale, come la Germania ha imposto il suo ordinamento monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto un punto di ultimatum?...

Bisognerà quindi che gli ingegneri del federalismo arrivino ad accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non ne esauriscono per niente il concetto e che non c’è democrazia viva, e neppure possibile, senza un sottofondo di sentimenti collettivi, il solo in grado di fare acconsentire alle minoranze la legge della maggioranza. Ma è proprio qui il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti –, privi di qualsiasi cultura politica e che tuttavia formano l’essenza del personale politico nazionale ed europeo, sono incapaci di vedere. Questa insufficienza intellettuale ci mette regolarmente davanti a questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, poiché il «salto democratico» si annuncia già totalmente inconsapevole delle condizioni passionali della democrazia e della difficoltà di dare loro soddisfazione in un quadro plurinazionale.

Una volta rammentato che il ritorno alle monete nazionali, da parte sua, soddisfa tutte queste condizioni e rimane tecnicamente praticabile per poco che si accompagni a tutte le misure laterali ad hoc (in particolare al controllo dei capitali) (4), non si può abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa. Non una moneta unica, perché presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori portata. Una moneta comune, al contrario, la si studia! Tanto più che i buoni argomenti per una forma di europeizzazione rimangono, salvo beninteso che gli inconvenienti non prevalgano sui vantaggi…

Ora questa alternativa ridiventa finalmente favorevole se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, vale a dire a un euro dotato di rappresentanze nazionali: euro-franchi, euro-pesetas, ecc. Queste denominazioni nazionali dell’euro non sono direttamente convertibili all’estero (in dollari, in yuan, ecc.) e neppure fra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano attraverso una nuova BCE, che funge in un certo modo da ufficio di cambio, ma è priva di poteri di politica monetaria. Questi sono affidati a banche centrali nazionali, ai cui governi spetterà di stabilire se riprenderne le redini o no.

La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettua classicamente sui mercati internazionali di cambio, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la BCE, che sola interviene per conto dei rappresentanti europei (pubblici e privati). Per contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro fra loro, si effettua al solo sportello della BCE e a parità fisse, decise politicamente.

Ricupero della sovranità monetaria

Eccoci quindi sbarazzati dai mercati di cambio intereuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all’epoca del sistema monetario europeo (5), e protetti dai mercati di cambio extraeuropei per mezzo del nuovo euro. Questa doppia prerogativa è ciò che fa la forza della moneta comune.

Fugato ora il fantasma della convergenza «automatica» delle economie europee, sappiamo che alcune economie hanno necessità di svalutare – a maggior ragione durante la presente crisi! Ora, il dispositivo di convertibilità interna della moneta comune ha l’immensa virtù di rendere nuovamente possibili queste svalutazioni, ma nella calma. L’esperienza degli anni ’80 e ’90 ha mostrato a sufficienza l’impossibilità di aggiustamenti di cambio ordinati sotto lo scatenarsi di mercati finanziari interamente liberalizzati. La quiete interna di una zona monetaria europea liberata dal flagello dei suoi mercati di cambio rende allora le svalutazioni processi interamente politici, nei quali spetta alla negoziazione interstatale di accordarsi su una nuova griglia di parità.

E non soltanto le svalutazioni! Perché il complesso potrebbe essere configurato al modo dell’International Clearing Union proposta nel 1944da John Maynard Keynes, il quale, oltre alla possibilità di svalutare offerta ai paesi con forte squilibrio estero, prevedeva ugualmente di forzare alla rivalutazione i Paesi con forti eccedenti. In un simile sistema, che costringerebbe a svalutazioni graduali attraverso una serie di limiti di eccedenze (per esempio il 4% del PIL, poi il 6%), la Germania avrebbe dovuto da tempo accettare un apprezzamento del suo euro-mark e mediante ciò sostenere la domanda nella zona euro, quindi partecipare alla riduzioni degli squilibri interni. In questo modo regole di aggiustamenti dei cambi supplirebbero nei negoziati alla prevedibile cattiva volontà dei Paesi eccedentari.

Il catechismo neoliberista urla «inefficacia» e «inflazione» non appena sente la parola «svalutazione». Per quanto riguarda l’inefficacia, diciamo che la coerenza non è per niente il suo forte, perché la svalutazione è proprio quello che non smette di consigliare caldamente! Tranne che perori per la svalutazione interna, attraverso i salari – e la disoccupazione, che fa pressione sui salari! – in luogo della svalutazione esterna, quella del tasso di cambio. L’adeguamento strutturale piuttosto che l’allineamento di parità delle monete… Se arrivassero a uscire dall’euro per essere cani sciolti, i tedeschi, che vedrebbero un decennio di restrizioni salariali annullato in un paio di giorni dalla rivalutazione del neo DM [deutsche Mark], se ne accorgerebbero molto in fretta…

Quanto all’inflazione, che richiederebbe di preferire il primo adeguamento al secondo, si tratta di un ectoplasma, in un periodo che è tanto più minacciato dalla deflazione (il ribasso generalizzato dei prezzi), che è almeno altrettanto pericolosa e che chiamerebbe nei fatti a una re-inflazione controllata, non fosse altro che per alleggerire il peso reale del debito.

Ma questo effetto di alleggerimento reale non sarebbe dominato dal rincaro del nostro debito esterno a causa della svalutazione stessa? Svalutare del 10% contro il dollaro equivale, automaticamente, ad appesantire del 10% il nostro debito espresso in dollari. Tranne che, come l’ha dimostrato Jacques Sapir (6), l’85% del debito francese è stato emesso in obbligazioni di diritto francese e sarebbe riformulato in euro-franchi, pertanto senza alcun effetto in seguito a una svalutazione.

La posta in gioco di una moneta comune, in ogni caso, va molto al di là della semplice reintroduzione di possibile svalutazione, della quale si può dire al tempo stesso che specialmente nell’attuale periodo è un elemento vitale di libertà, ma certo non la soluzione universale. Uscire dall’attuale euro è molto meno una questione di macroeconomia che di conformazione all’imperativo categorico della democrazia, che si chiama «sovranità popolare».

Se le condizioni di realizzabilità di questa sovranità popolare su scala sovranazionale sono ancora lontane, allora il realismo impone di ripiegare sull’ «ambizione europea»; ciò che non significa abbandonarla del tutto. Essa dovrebbe essere per esempio perseguita il più fortemente possibile in tutte le materie diverse da quelle economiche – sia detto questo contro le accuse di «ripiegamento nazionale». Quanto all’ambizione specificatamente economica si tratta anche di sapere con chi la si cerca. Certamente non in ventotto o in diciassette, grandi numeri che sembrano fatti apposta per garantire il peggio! Sono i rapporti obiettivi di compatibilità che decidono, presupponendo un’omogeneità minima delle forme di vita – le stesse idee, o idee simili, in materia di modello sociale, di preoccupazione ambientale, ecc. – e un accordo preventivo sui grandi principi di politica economica. All’inizio queste coerenze sono probabilmente alla portata soltanto di un piccolo numero di Stati. E non è sbagliato che si possa talvolta valutarle sulla base di indicatori di convergenza… ma non quelli di Maastricht.

Se si tratta, per esempio, di costituire una grande mercato sottostante alla moneta comune non si potrebbe farvi entrare se non economie con modelli socio-produttivi similari e, correlativamente, strutture di costi analoghe. Di conseguenza sarebbero ammessi in questa nuova Europa economica soltanto Paesi i cui salari medi o minimi non siano inferiori al 75% – o ad altro livello di soglia da determinare – della media dei salari, medi o minimi, degli altri Stati membri. E questa rifondazione totale della costruzione europea sarebbe l’occasione per farla finita sia con il delirio dell’ortodossia monetaria, finanziaria e dell’adeguamento strutturale generalizzato, sia con le malefatte della concorrenza «non distorta», la stessa che si adatta tanto bene a tutte le distorsioni strutturali, sociali e ambientali e che si propone in realtà di applicarle con la massima violenza possibile.

E qui si ritorna al sillogismo di partenza: l’idea di passare dall’euro attuale a un euro rifatto e progressista è un sogno cariato. Se è progressista, nella sua costruzione i mercati finanziari, che attualmente hanno tutto il potere, non lo lasceranno realizzarsi. L’alternativa dunque è la seguente: o lo sprofondamento definitivo in un euro liberista modificato marginalmente con trovate di basso livello come il «governo economico», e in alternativa le euro-obbligazioni, impiastri che non modificano per nulla la logica profonda della «sottrazione democratica»; oppure lo scontro frontale con la finanza, che a colpo sicuro l’avrà vinta… e con ciò stesso perderà tutto, perché la sua «vittoria» distruggerà l’euro e creerà proprio le condizioni per una ricostruzione dalla quale i mercati, questa volta, saranno esclusi!

Tuttavia è certo che questo ritorno forzato alle monete nazionali, che suona come un fallimento, avrà effetti politicamente depressivi, che peseranno per un certo periodo su qualsiasi progetto di rilancio europeo. È perché, a cose d’altronde invariate, la probabilità di un simile rilancio a termine dipende in misura cruciale dal modo in cui si esce dall’euro. Mettere energia politica europea come riserva per attraversare il periodo delle monete nazionali presuppone quindi di decidere di «cadere sulla moneta comune», vale a dire di provocare la deflagrazione dei mercati annunciando questo progetto, facendone con fermezza l’orizzonte di una volontà politica di un certo numero di Paesi europei, piuttosto che dare a questo scontro il solo sbocco senza uscita delle monete nazionali. Se quindi non si sfugge al ritorno alle monete nazionali, il modo di ritornarvi determina la possibilità di ripartirne.

In ogni caso, salvo la grande anestesia definitiva nell’euro antisociale, ci si ritornerà. Sta qui la punizione di una costruzione incapace di evolversi per essersi privata con le sue mani di ogni livello di libertà. Le costruzioni ultrarigide hanno la sola scelta di resistere finché non devono affrontare colpi esterni troppo forti, oppure di collassare; ma non quella di adeguarsi.

Prendersela con il cuore della costruzione

L’europeismo protesterà dicendo che la sua beneamata Europa non cessa al contrario di fare progressi. Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF), Meccanismo europeo di stabilità (MES), riscatto di debito sovrano da parte della BCE (7), Unione bancaria: altrettanti progressi, acquisiti senza dubbio un po’ dolorosamente, ma ben reali! Purtroppo, e non sorprende, nessuno di essi va al cuore stesso della costruzione, questo nocciolo duro dal quale emanano tutti gli effetti depressivi e antidemocratici: esposizione delle politiche economiche agli attacchi dei mercati finanziari, banca centrale indipendente, ossessione antinflazionistica, adeguamento automatico dei deficit di bilancio, rifiuto di ipotizzare il loro finanziamento monetario. Anche i «progressi» rimangono periferici, toppe destinate ad accomodare come possono le più disastrose conseguenze che il «cuore», granitico e fatto santuario, non finisce di produrre.

Rattoppando gli effetti senza mai voler mettere mano alle cause, l’Europa dunque persevera. Incapace della benché minima revisione di base e inconsapevole del fatto che la rottura è il solo destino che essa si dà.

(1) Lire François Denord et Antoine Schwartz, « Dès les années 1950, un parfum d’oligarchie », Le Monde diplomatique, juin 2009.

(2) Lire Serge Halimi, « Fédéralisme à marche forcée », Le Monde diplomatique, juillet 2012. 

(3) Thomas Piketty, « Changer d’Europe pour surmonter la crise », Libération, Paris, 17 juin 2013. 
(4) Per esempio, contingentando, e anche vietando, certe operazioni finanziarie.

(5) Il Sistema monetario europeo (SME) era un sistema di cambi fissi, ma accompagnati da una fascia di fluttuazione di più o meno il 2,25% dei tassi-perno. È la difficoltà di mantenere saldi questi tassi-perno in presenza della libertà di movimento dei capitali che ha portato lo SME a crisi ripetute.

(6) Jacques Sapir, « Quand la mauvaise foi remplace l’économie : le PCF et le mythe de “l’autre euro”», RussEurope, 16 juin 2013, russeurope.hypotheses.org 

(7) Il FESF e il MES sono i due Fondi per l’assitenza ai Paesi indebitati. L’OMT (Outright Monetary Transactions) è un programma della BCE per il riacquisto dei titoli sovrani.
 

Aggiungo una nota di F. Lordon sul sistema di convertibilità proposto nell’articolo:

Convertibilità, istruzioni per l’uso

Un’impresa spagnola che deve pagare un contratto a un’impresa francese dovrebbe rivolgersi alla Banca Centrale Europea (BCE) – alla sua rete di agenzie o alle banche ordinarie che agirebbero per conto della BCE in funzione del cambio – per trasformare le sue euro-pesetas in euro-franchi francesi al tasso di cambio fisso in vigore. Un’impresa americana che deve pagare un acquisto fatto in Francia comincerebbe, da parte sua, comprando euro contro dollari sui mercati di cambio esterni e al tasso (fluttuante) del momento, poi si presenterebbe alla BCE per cambiare i suoi euro contro euro-franchi (al tasso fisso euro/euro-franchi).

Se l’euro-franco svaluta del 5% contro l’euro, restando il resto invariato, esso svaluta ipso facto del 5% contro tutti gli euro (euro-lira, euro-fiorino, euro-dracma, ecc.) e contro il dollaro. Questo costerebbe a un’impresa francese 5% di euro-franchi in più al cambio della BCE per ottenere euro per pagare lo stesso bene in euro-lire o in dollari.

Frédéric Lordon




Domenica 01 Settembre,2013 Ore: 18:23
 
 
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