- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (341) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org   Il «modello tedesco» o come ostinarsi nell’errore    ,di Pierre Rimbert

Le Monde Diplomatique, lunedì 6 maggio 2013
  Il «modello tedesco» o come ostinarsi nell’errore    

di Pierre Rimbert

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Banche: entità dotate di salvagente automatico; appena entrano in crisi politici e finanzieri rubano i braccioli ai bambini, i salvagente a pescatori e bagnanti e corrono a salvare i loro soldi. Questa è l'amara conclusione che dobbiamo trarre dallo svolgimento della crisi, dal 2007 a oggi. Purtroppo la cortina fumogena che la stampa amica (loro) produce è densa e appiccicosa (vedi, verso la fine dell'articolo, che cosa succede in Francia se si critica il "modello tedesco" salvabanche). Proclama la Germania: "Io so' io e voi nun siete un c....", come diceva il Marchese del Grillo - in questo caso: "Ich bin ich und Sie sind ein Sch... Tuttavia: quello che per noi è "l'errore tedesco", per i tedeschi è la mirabile politica economica della Merkel. Ma già si sarebbe potuto immaginare questo scenario quando il crollo della DDR ci ha sottratto la polizza assicurativa contro "Großdeutschland", il ri-formarsi della Grande Germania, con la golden share sull'Europa.
J.F.Padova

Le Monde Diplomatique, lunedì 6 maggio 2013

Il «modello tedesco» o come ostinarsi nell’errore

Pierre Rimbert

(traduzione dal francese di José F. Padova)

monde-diplomatique.fr

Non è raro che un personaggio di Tex Avery [ndt.: noto creatore di personaggi di cartoon], trascinato dal suo slancio, superi il bordo di un precipizio e per qualche istante continui la sua corsa nel vuoto prima di mordere la polvere. Le politiche d’austerità imposte ai Paesi europei dalla Germania, dalla Banca Centrale Europea (BCE) e – con entusiasmo calante – dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), come anche dalla Commissione Europea, hanno raggiunto quel punto in cui il corridore, comprendendo di colpo di non aver più nulla sotto i piedi, lancia uno sguardo mortificato prima di crollare.

Non ancora.
Certamente, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Ungheria, Repubblica Ceca, sottoposti all’obbligo di tagli netti ai loro servizi pubblici e alle spese di Stato, s’inabissano nella recessione. Perfino i Paesi Bassi e la Finlandia, alleati tradizionali della Germania in materia di rigore, hanno conosciuto un calo di attività nel 2012, mentre Francia e Regno Unito erano in stagnazione. Soltanto la Polonia l’anno scorso presentava una crescita superiore a… 1%.

Certamente, la Zona euro, passata sotto la cesoia della burocrazia dell’austerità, alla fine del mese d’aprile contava 19,2 milioni di disoccupati (12,1% della popolazione attiva secondo Eurostat), una cifra record che tuttavia non dice nulla del degrado vertiginoso delle condizioni di vita del popolo greco [ndt.: vedi “La nostra proposta per l’Europa” di Alexis Tsipras, trad. JFPadova del 12.2.13].

Certamente, un capo economista del FMI in gennaio ha riconosciuto che il suo Istituto aveva gravemente sottostimato i danni causati dall’imperativo delle restrizioni di bilancio: là dove il modello prevedeva che la riduzione di un euro della spesa pubblica avrebbe comportato un calo di 0,50 euro della ricchezza prodotta [il PIL], l’analisi empirica mostra che la contrazione dell’attività produttiva è da due a cinque volte superiore.

Certamente, infine, la tesi degli illustri economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, secondo la quale un debito pubblico superiore al 90% del PIL indebolirebbe la crescita, è stata fatta a pezzi da uno studente dell’Università del Massachusetts, che si è divertito a rifare i calcoli: gli autori, citati come profeti dai fautori dell’austerità – dal Commissario europeo agli affari economici e monetari Olli Rehn all’ex direttore della BCE Jean-Claude Trichet – avevano eliminato dati che contraddicevano la loro tesi e costruito il loro modello partendo da un foglio di calcolo elettronico [ndt.: in questo caso di Excel] infettato da un errore di formula (2).

Un asino non avrebbe avuto bisogno di tanto per fare dietrofront.

Eppure, alla maniera dei personaggi di Tex Avery, banchieri centrali, economisti ortodossi e dirigenti politici ignorano i fatti e galoppano, ancora qualche tempo, in un etere di certezze.
Il loro credo del momento porta il nome di «modello tedesco», espressione sintetica della dottrina economica inalberata dalle élite europee, che lega assieme austerità di bilancio (ridurre il deficit dello Stato e il debito), austerità monetaria (moneta forte, lotta contro l’inflazione) e austerità salariale.

Quest’ultimo ritrovato, messo in opera dal Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder negli anni 2000 e in seguito sistematizzato dalla destra tedesca, si fonda anch’esso su due principi: in primo luogo, «attivazione» coercitiva dei disoccupati mediante la piallatura delle prestazioni sociali e l’obbligo di accettare lavori mal pagati (i «mini-job»). Secondariamente, la creazione di un mercato del lavoro flessibile e precario, destinato ad accogliere questi nuovi salariati dei servizi in un Paese sprovvisto di salario minimo; e accordi sindacali di settore, che barattano simultaneamente il mantenimento nel posto di lavoro dei salariati dell’industria contro il rigore salariale e l’adattamento dei tempi di lavoro alla convenienza del datore d’impiego. Così questo apparato produttivo reso «competitivo» dalla riduzione dei «costi del lavoro» e drogato da una fiscalità di compromesso si orienta verso l’esportazione e la conquista dei mercati emergenti.

Sulla carta, questo «modello» seduce. La Germania non soltanto presenta un tasso di disoccupazione molto inferiore a quello dei suoi vicini dell’Ovest e del Sud (6,9% in aprile) e una bilancia commerciale eccedentaria, ma la Cancelliera Angela Merkel gode di una popolarità intatta dopo più di sette anni al potere. L’inflessibilità della signora Merkel sulla scena europea rassicura in effetti una popolazione poco incline a vedere il prodotto dei suoi sacrifici destinato a rimettere a galla i Paesi del Sud, presentati dalla stampa tedesca come un club di vacanze per bancarottieri indolenti.

Tuttavia il lato oscuro del «consenso di Berlino» potrebbe compromettere l’estensione durevole di questa politica all’insieme dei Paesi della Zona euro. Il paradiso delle piccole e medie industrie è anche quello della precarietà, dove quattro salariati su dieci sono pagati meno di 1.000 euro al mese. Dove l’immaginario sociale e le pratiche salariali relegano ancora largamente le donne alle faccende domestiche, abbellite o no da un «lavoruccio» a tempo parziale; pagate il 23% meno degli uomini, esse rappresentano la maggioranza dei tre milioni di salariati rimunerati meno di 6 euro all’ora. Dove l’invecchiamento spiega una parte importante del calo della disoccupazione - «fra il 2000 e il 2012, spiega il giornalista economico Guillaume Duval, la popolazione tedesca in età dai 15 ai 64 anni è diminuita di 1,7 milioni di persone, mentre in Francia è cresciuta di 2,8 milioni» (3). Perfino l’indicatore-totem del successo economico, la crescita, non raggiunge livelli atti a incantare gli investitori. Negativa nel quarto trimestre del 2012, essa è stimata dalle previsioni di Berlino allo 0,5% nel 2013.

Ogni fede religiosa ha la sua chiesa, i suoi prelati, i suoi cardinali. E i suoi inquisitori, ormai installati alla testa delle grandi redazioni francesi. Criticare il «modello tedesco», o semplicemente segnalare i suoi effetti collaterali, equivarrebbe a eresia. È bastato che una minuta di testo del partito socialista esprimesse, venerdì 26 aprile, alcune riserve sulla politica economica condotta da Berlino che Libération (29 aprile) titolasse «Il Partito Socialista sbanda», con un editoriale che evoca la convergenza del «populismo», della «xenofobia» e di una «ambigua germanofobia»; che Le Figaro (27-28 aprile) annunciasse in prima pagina che «Il Partito Socialista dichiara guerra alla Germania»; che l’editoriale del Monde (28-29 aprile) redarguisse «questo giochetto infantile […] estremamente pericoloso», mischiando «demagogia» e «populismo». E perché il direttore del Point (2 maggio), Franz-Olivier Giesbert, uscito male da una condanna per diffamazione [ndt.: per la pubblicazione di una nota del discusso Bernard-Henry Lévy], sventasse le potenze malefiche dell’eterodossia con il suo consueto senso della misura: «Mischiate morfina, allucinogeni, pigrizia intellettuale e avrete il testo del Partito Socialista, un copia-incolla di buffonerie involontarie che si possono leggere su Le Monde Diplomatique o in Alternative economiche, le nostre due bibbie del vudù applicato alle finanze pubbliche».

Se hanno il diavolo nella testa, è ugualmente necessario esorcizzare i lettori del «Monde Diplomatique»?

  1. Olivier Blanchard and Daniel Leigh « Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers » (PDF), IMF working paper, janvier 2013.

  2. Cf. par exemple « Une erreur dans une étude sur l’austérité dégomme les idées reçues », Lemonde.fr, 17 avril 2013.

  3. Guillaume Duval, Made in Germany. Le Modèle allemand au-delà des mythes, Seuil, Paris, 2013, p. 184. Les données de la phrase précédente sont également tirées de cet ouvrage, p. 67.




Giovedì 16 Maggio,2013 Ore: 10:41
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Stampa estera

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info