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www.ildialogo.org Disuguaglianza, democrazia, sovranità : lo stato delle cose per preparare una riconquista,di Serge Halimi

Le Monde Diplomatique, maggio 2013, pagg. 1, 8-9
Disuguaglianza, democrazia, sovranità : lo stato delle cose per preparare una riconquista

di Serge Halimi

Traduzione dal francese di José F. Padova


"... tre grandi tendenze si sono fatte largo, più o meno universali, delle quali è importante in un primo tempo fare il bilancio: il decollo delle disuguaglianze sociali, la decomposizione della democrazia politica e il restringimento della sovranità nazionale".
Sono questi i punti presi in esame da questo preciso, documentato articolo, un pamphlet quasi, uscito sul numero di maggio di Le Monde Diplomatique, come sempre attento ai fenomeni di distorsione sociale e politica che appestano la nostra vita. Un foglio "di sinistra", da non confondere con la sedicente sinistra nostrana, quella della Carica dei 101 (traditori), quella migliorista delle "larghe intese". Qualcuno poi ci spiegherà quali sono quelle "strette". Una lettura che lascia amareggiati? Certo, ma "il nemico, per combatterlo, devi conoscerlo". L'ha detto qualcuno, mi sembra, altrimenti lo dico io.
J.F.Padova

Le Monde Diplomatique, maggio 2013, pagg. 1, 8-9

Disuguaglianza, democrazia, sovranità : lo stato delle cose per preparare una riconquista

Nessuno crede più che la ragione avrà la meglio su politiche insensate di austerità, né che la moralità prevarrà su scandali che mischiano denaro e potere. Ormai la speranza di un cambiamento di direzione poggia sul mettere in discussione, frontalmente, gli interessi in gioco.

Serge Halimi

(traduzione dal francese di José F. Padova)

«Voglio sapere da dove parto

Per conservare tanta speranza»

(Paul Eluard, Poésie ininterrompue)

Certe rivelazioni rimandano a quello che già sapevamo. Abbiamo appena appreso che alcuni responsabili politici amano i soldi e frequentano chi li possiede? Che tutti insieme essi si coagulano talvolta come una casta al disopra delle leggi? Che il sistema fiscale vezzeggia i contribuenti più ricchi? Che la libera circolazione dei capitali permette loro di mettere in salvo il gruzzolo nei paradisi fiscali?

La rivelazione delle trasgressioni individuali dovrebbe incoraggiarci a rimettere in discussione il sistema che le ha partorite. Ora, in questi ultimi decenni, la trasformazione del mondo è stata talmente rapida che ha sorpassato in velocità la nostra capacità di analizzarla. Caduta del muro di Berlino, emergere dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), nuove tecnologie, crisi finanziarie, rivolte arabe, declino europeo: ogni volta gli esperti si sono dati il cambio per annunciarci la fine della storia o la nascita di un altro ordine mondiale.

Al di là di queste esequie premature, di questi parti incerti, tre grandi tendenze si sono fatte largo, più o meno universali, delle quali è importante in un primo tempo fare il bilancio: il decollo delle disuguaglianze sociali, la decomposizione della democrazia politica e il restringimento della sovranità nazionale. Pustola di una grande corpo malato, ogni nuovo scandalo ci permette di vedere gli elementi di questo trittico riemergere separatamente e incastrarsi l’uno nell’altro. Lo scenario generale potrebbe riassumersi così: poiché dipendono prioritariamente dagli arbitraggi di una maggioranza avvantaggiata (quella che investe, specula, ingaggia, licenzia, impresta), i governi, acconsentendo, permettono la deriva oligarchica dei sistemi politici. Quando poi s’inalberano di fronte a questo rinnegamento del mandato che il popolo ha loro conferito, la pressione internazionale del denaro si applica per farli dimettere.

«Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei loro diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate se non sull’utilità comune» [ndt.: vedi interlex.it ]. L’articolo primo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ognuno lo sa, non è mai stato rigorosamente osservato. In ogni momento le distinzioni furono motivate con altri motivi diversi dalla utilità comune: il luogo dove si ha la fortuna (o la disgrazia) di nascere, la condizione dei genitori, l’accesso all’educazione e alla sanità, ecc.

Tuttavia il peso di queste diversità si trovò talvolta alleggerito dalla convinzione che la mobilità sociale contrasterebbe le ineguaglianze di nascita. Per Alexis de Tocqueville una speranza di questo genere, più diffusa negli Stati Uniti che sul Vecchio Continente, aiutava gli americani ad accettare disparità di redditi più elevate che altrove. Un piccolo contabile di Cleveland o un giovane californiano senza diploma potevano sognare che il loro talento e la loro tenacia li avrebbe proiettati ai posti che John Rockefeller o Steve Jobs avevano occupato prima di loro.

«La disuguaglianza in sé non è mai stata un grande problema nella cultura politica americana, che insiste sull’uguaglianza delle chance piuttosto che su quella dei risultati», commenta ancor oggi l’intellettuale conservatore Francis Fukuyama. «Ma il sistema resta legittimato soltanto se le persone continuano a credere che, lavorando duro e dando il meglio di sé, esse stesse e i loro figli hanno buone possibilità di progredire e se hanno buone ragioni per pensare che i ricchi lo sono diventati rispettando le regole del gioco (1)». Rassicurante o anestetizzante che sia, nel mondo intero questa fiducia secolare sta evaporando. Interrogato sei mesi prima della sua elezione alla Presidenza della Repubblica [francese] sugli strumenti per la «ricostruzione morale» che richiamava nei suoi auspici, François Hollande evocava il «sogno francese. Esso corrisponde al racconto repubblicano che ci ha permesso di avanzare malgrado le guerre, le crisi, le divisioni. Fino a questi ultimi anni avevamo la convinzione che i nostri figli sarebbero vissuti meglio di noi». Ma il candidato socialista aggiungeva: «Questa convinzione si è dissipata (2)».

Il club dei miliardari

Al mito della mobilità sociale subentra la paura del declassamento. Un operaio non conserva più alcuna chance di diventare imprenditore, giornalista, banchiere, professore universitario, responsabile politico. La grandi scuole sono ancor più chiuse alle categorie popolari che al momento in cui Pierre Bourdieu pubblicava Gli ereditieri, nel 1964. Stessa cosa per le migliori università del mondo, i cui costi d’iscrizione sono esplosi (3). Nell’impossibilità di pagare ancora più a lungo i suoi studi superiori, a Manila una giovane donna si è appena suicidata. E due anni fa uno studente americano spiegava: «Sono debitore di 75.000 dollari. Presto non sarò più in grado di pagare le mie scadenze. Poiché era il mio fideiussore, mio padre dovrà rimborsare il mio debito. Anche lui farà fallimento. Avrò quindi rovinato la mia famiglia perché ho voluto elevarmi al disopra della mia classe sociale (4)». Egli ha voluto vivere il sogno americano, «dagli stracci alla ricchezza». Per causa sua la sua famiglia percorrerà il cammino contrario.

Quando «il vincente arraffa tutto (5)», la disuguaglianza dei redditi prende le caratteristiche della patologia sociale. Proprietaria del gigante della distribuzione Walmart, la famiglia Walton trent’anni fa possedeva 61.992 volte più della ricchezza media americana. Probabilmente non era abbastanza, perché oggi ne possiede 1.157.827 volte più. I Walton hanno oggi accumulato per sé soli quanto posseggono le famiglie americane meno prospere, che sono 48.800.000 (6). La patria di Silvio Berlusconi si trova in lieve ritardo rispetto alle prodezze americane, ma lo scorso anno la Banca d’Italia ha annunciato che «i dieci primi patrimoni nazionali [possedevano] tanto denaro quanto i tre milioni di italiani più poveri (7)».

Ormai Cina, India, Russia o i Paesi del Golfo si fanno largo a gomitate nel club dei miliardari. In materia di concentrazione dei redditi e di sfruttamento dei lavoratori non hanno nulla da apprendere dagli Occidentali, ai quali d’altra parte impartiscono volentieri lezioni di liberismo selvaggio (8). I miliardari indiani, che nel 2003 possedevano 1,8% della ricchezza nazionale, cinque anni più tardi ne accaparravano già il 22% (9). Nel frattempo erano certamente diventati un tantino più numerosi, ma il 22% della ricchezza per sessantun individui non è forse molto in una nazione di più di un miliardo di abitanti? Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India, si pone forse questa domanda dal salone della sua rutilante casa di ventisette piani che sovrasta Bombay – una megalopoli in cui più della metà degli abitanti continuano a vivere in tuguri.

Si è arrivati al punto che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) se ne preoccupa… Dopo avere a lungo proclamato che la «dispersione dei redditi» è un fattore d’emulazione, di efficienza, di dinamismo, fa ora osservare che il 93% dei guadagni realizzati negli Stati Uniti grazie alla crescita durante il primo anno di ripresa economica sono andati a finire nelle tasche del solo 1% di americani più ricchi. Perfino al FMI questo sembra troppo. Perché, mettendo da parte ogni considerazione di carattere morale, come assicurare lo sviluppo di un Paese della cui crescita approfitta un gruppo striminzito che non compra più granché, tanto dispone già di tutto? E che, di conseguenza, tesaurizza o specula, alimentando ancora un po’ più un’economia finanziaria già parassitaria di suo. Due anni fa uno studio del FMI gettava quindi le armi, ammettendo che favorire la crescita e ridurre le ineguaglianze costituiva «le due facce di una stessa medaglia (10)». Gli economisti d’altronde osservano che settori del mondo industriale dipendenti dai consumi della classe media cominciano a mancare di sbocchi, in un mondo nel quale la domanda globale, quando non è asfissiata dalle politiche di austerità, privilegia i prodotti di lusso e quelli di bassa qualità.

Secondo gli avvocati della mondializzazione l’accentuazione delle disuguaglianze sociali deriverebbe innanzitutto da un incremento delle tecnologie tanto rapido da penalizzare gli abitanti meno istruiti, meno mobili, meno flessibili, meno agili. La soluzione del problema sarebbe allora già trovata: l’istruzione e la formazione (dei ritardatari). Nel febbraio scorso il settimanale delle “élite” internazionali, The Economist, riassumeva questo racconto legittimatorio dal quale sono assenti politica e corruzione: «L’1% più ricco ha visto i suoi redditi alzarsi di colpo, a causa del premio che un’economia mondializzata a base di alta tecnologia elargisce alle persone intelligenti. Un’aristocrazia che una volta dedicava il proprio denaro “al vino, alle donne e alla musica” è stata sostituita da una élite istruita nelle business school, i cui membri si sposano fra loro e spendono saggiamente i loro soldi pagando ai figli corsi di cinese e abbonamento all’Economist (11)».

La sobrietà, la diligenza e la saggezza dei genitori che formano la loro progenie con la lettura del (solo) giornale che la renderà migliore spiegherebbe così il balzo in alto dei patrimoni. Non è vietato proporre altre ipotesi. Questa, per esempio: il capitale, meno gravato con imposte del lavoro, dedica al consolidamento dei suoi agganci politici una parte delle economie realizzate grazie alle decisioni che l’hanno favorito: fisco accomodante, salvataggio delle grandi banche che hanno preso in ostaggio i piccoli risparmiatori, popolazione messa sotto pressione perché rimborsi prioritariamente i creditori, debito pubblico che costituisce per i ricchi un oggetto d’investimenti (e uno strumento di pressione) supplementare. Le sue innumerevoli connivenze politiche garantiscono al capitale la conservazione di tutti i suoi vantaggi. Nel 2009 sei dei quattrocento contribuenti americani più prosperi non hanno pagato alcuna imposta; ventisette, meno del 10%; nessuno ha pagato più del 35%...

Insomma, i ricchi utilizzano il loro patrimonio per accrescere la loro influenza, poi la loro influenza per accrescere il loro patrimonio. «Col passare del tempo», riassume Fukuyama, «le élite sono in grado di proteggere le loro posizioni manipolando il sistema politico, sistemando i loro soldi all’estero per evitare la tassazione, trasmettendo questi privilegi ai loro figli grazie a un accesso avvantaggiato alle istituzioni di élite (12)». S’indovina allora che un eventuale rimedio avrebbe bisogno di ben più che una toelettatura costituzionale.

Un’economia mondializzata nella quale «il vincente arraffa tutto»; sindacati nazionali a pezzi; un’imposizione leggera per i redditi più pesanti: la macchina delle disuguaglianze rimodella l’intero pianeta. Le sessantatremila persone (delle quali diciottomila in Asia, diciassettemila negli Stati Uniti e quattordicimila in Europa) che detengono una pacchia superiore a 100 milioni di dollari posseggono un patrimonio accumulato di 39.900 miliardi di dollari (13). Far pagare i ricchi non sarebbe più soltanto un simbolo.

«Due ali di un medesimo uccello da preda»

Le politiche economiche che hanno appagato una minoranza non hanno tuttavia quasi mai potuto trasgredire le forme democratiche – il governo della maggioranza. Qui c’è un paradosso a priori. Uno dei più celebri giudici nella storia della Corte Suprema americana, Louis Brandeis, effettivamente dichiarava che «noi dobbiamo scegliere. Possiamo avere una democrazia o avere una concentrazione di ricchezza nelle mani di qualcuno, ma non possiamo avere entrambe». La vera democrazia non si limita pertanto al rispetto delle forme (elezioni pluraliste, cabina elettorale, urna). Essa implica ben più che la rassegnata partecipazione a una votazione che non cambierà alcunché: implica un’intensità, una educazione popolare, una cultura politica, il diritto di pretendere la resa dei conti, di revocare gli eletti che tradiscono il loro mandato. Non è per caso che nel 1975, in un periodo di ebollizione politica, di ottimismo collettivo, di solidarietà internazionale, di utopie sociali, l’intellettuale conservatore Samuel Huntington confessava la sua inquietudine. In un famoso rapporto pubblicato dalla Commissione trilaterale riteneva che «l’operatività efficiente di un sistema democratico richiede in generale un livello di apatia e di non-partecipazione da parte di alcuni individui e gruppi (14)».

Missione compiuta… La Commissione trilaterale, molto conservatrice, ha appena celebrato il suo quarantesimo anniversario ampliando la cerchia dei suoi convitati ad alcuni ex ministri socialisti europei (Peter Mandelson, Elisabeth Guigou, David Miliband) e a partecipanti cinesi e indiani. Non deve vergognarsi del cammino percorso. Nel 2011 Mario Monti e Lucas Papademos, ex banchieri sia l’uno che l’altro, sono stati proiettati da una troika di istituzioni non elettive – il FMI, la Commissione europea e la BCE – alla testa dei governi italiano e greco. Ma capita che popolazioni, il cui «livello di apatia» resta insufficiente, ancora recalcitrano. Così, quando tentò di convertire il suffragio per censo della troika in suffragio universale, Monti subì una disfatta clamorosa. Il filosofo francese Luc Ferry dichiarò di esserne rattristato: «Ciò che mi addolora, poiché nel profondo dell’anima sono democratico, è la costanza con la quale il popolo, in periodo di crisi, sceglie senza fratture interne se non i peggiori, per lo meno coloro che gli nascondono più abilmente e più ampliamente la verità (15)».

Per premunirsi contro questo genere di delusioni la cosa più semplice è non tenere in alcun conto il verdetto degli elettori. L’Unione Europea, che dispensa lezioni di democrazia a tutta la Terra, ha fatto di questo diniego una delle sue specialità. Questo non avviene accidentalmente. Da trent’anni gli ultraliberisti che guidano la danza ideologica negli Stati Uniti e sul vecchio Continente s’ispirano effettivamente alla «teoria delle scelte pubbliche» dell’economista James Buchanan. Fondamentalmente diffidente verso la democrazia, tirannia della maggioranza, questa scuola intellettuale postula che i dirigenti politici sono inclini a sacrificare l’interesse generale – indissociabile dalle iniziative dei capi delle imprese – alla soddisfazione della loro clientela e alla garanzia della rielezione. La sovranità di tali irresponsabili deve di conseguenza essere strettamente limitata. Quello è il ruolo dei meccanismi coercitivi che ispirano in questo momento la costruzione europea (indipendenza delle Banche centrali, regola del 3% di deficit massimo, patto di stabilità) o, negli Stati Uniti, il taglio automatico dei crediti pubblici («sequestro del bilancio»).

Ci si chiede pertanto che cosa i liberisti ancora temono da parte dei governanti, tanto le riforme economiche e sociali che costoro mettono in opera non cessano di coincidere con le esigenze degli ambienti affaristici e dei mercati finanziari. Al vertice dello Stato la convergenza è d’altronde rafforzata dalla stravagante sovra-rappresentazione delle categorie sociali più borghesi e dalla facilità con la quale queste passano dal pubblico al privato. Quando in un Paese come la Cina, nel quale il reddito annuale medio supera appena i 2.500 dollari, il Parlamento conta ottantatre miliardari, si comprende come i ricchi cinesi non manchino di buoni avvocati al vertice dello Stato. Almeno su questo punto il modello americano ha trovato il suo maestro, anche se, in mancanza di elezioni, Pechino non distribuisce ancora le sue ambasciate ai donatori più generosi delle campagne elettorali del presidente vittorioso, come fa Washington.

Le collusioni – e i conflitti d’interessi – fra governanti e miliardari ormai si prendono gioco delle frontiere. Nicolas Sarkozy, che quando era all’Eliseo aveva accordato favori al Qatar mediante un accordo fiscale che esonerava l’emirato dall’imposta sul plusvalore immobiliare, progetta adesso di lanciarsi nella finanza speculativa con l’appoggio di Doha. «Il fatto che egli sia un ex Presidente non significa che deve diventare monaco trappista», ha perorato il suo ex ministro dell’Interno, Claude Guéant (16). Il voto di povertà non s’impone meno agli ex capi di esecutivo Anthony Blair, JeanLuc Dehaene e Giuliano Amato: il britannico è consulente di J.P.Morgan, il belga di Dexia e l’italiano della Deutsche Bank. [ndt.: l’ex Cancelliere Schöder è consulente di Banca Rotschild]. È possibile difendere il bene pubblico badando a non dispiacere a regimi feudali stranieri o a istituti finanziari, quando si calcola che potrebbero essere futuri partner in affari? Quando in un numero crescente di Paesi una simile sfida tocca a turno i due principali partiti, questi diventano per il popolo quello che il romanziere Upton Sinclair chiamava «le due ali del medesimo uccello da preda».

L’Istituto Demos ha voluto valutare gli effetti della prossimità fra responsabili governativi e oligarchia economica. Due mesi fa ha quindi pubblicato un’indagine demoscopica che dettagliava come «il dominio della politica da parte dei ricchi e del mondo degli affari frena la mobilità sociale in America (17)». Risposta: in materia di politiche economiche e sociali e anche di diritto del lavoro i cittadini più privilegiati si accordano su priorità largamente distinte da quelle della maggioranza dei loro concittadini. Ma per veder realizzate le loro aspirazioni essi dispongono di mezzi fuori del comune.

Così, mentre il 78% degli americani ritengono che il salario minimo dovrebbe essere indicizzato al costo della vita e bastare perché il suo percettore non cada nella povertà, soltanto il 40% dei contribuenti più agiati condividono questo parere. Essi si mostrano ugualmente meno favorevoli dei primi ai sindacati e alle leggi suscettibili di favorire la loro attività. La maggioranza, da parte sua, vorrebbe che il capitale fosse tassato con le medesime aliquote che gravano il lavoro e accorda una priorità assoluta alla lotta contro la disoccupazione (33%) piuttosto che a quella contro il deficit (15%).

Risultato di questa divergenza d’opinioni? Dal 1968 il salario minimo ha perduto il 30% del suo valore; nessuna legge (contrariamente alla promessa del candidato Barack Obama) ha addolcito la via crucis per costituire un sindacato in un’impresa; il capitale rimane tassato due volte meno del lavoro (20% contro 39,6%). Infine, Congresso e Casa Bianca rivaleggiano sul terreno dei tagli al bilancio, in un Paese nel quale la proporzione della popolazione attiva occupata è appena precipitata a un livello quasi storico.

Come dire meglio che i ricchi marcano pesantemente con le loro impronte lo Stato e il sistema politico? Essi votano più assiduamente, finanziano le campagne elettorali più degli altri e, soprattutto, esercitano una pressione continua sugli eletti e i governanti. Il decollo delle ineguaglianze negli Stati Uniti si spiega ampiamente con l’aliquota, bassissima, di tassazione del capitale. Ora questo provvedimento [di favore] è oggetto di permanente lobbying al Congresso, mentre del 71% del suo costo (sopportato dall’insieme dei contribuenti) approfitta soltanto l’1% degli americani più ricchi.

Il rifiuto di un’attiva politica per l’occupazione deriva da una stessa scelta di classe [sociale] ed è ritrasmesso pure esso da un sistema oligarchico. Nel gennaio 2013 il tasso di disoccupazione degli americani che dispongono almeno di un diploma non era che del 3,7%. Per contro raggiungeva il 12% per i non diplomati, molto più poveri e il cui parere a Washington non ha gran peso, contrariamente a quello di Sheldon e Miriam Adelson, la coppia di miliardari repubblicani che ha finanziato le elezioni dello scorso anno per un importo superiore al contributo della totalità degli abitanti di dodici Stati americani… «Nella maggior parte dei casi», conclude lo studio di Demos, «le preferenze della schiacciante maggioranza della popolazione sembrano non avere impatto alcuno sulle politiche scelte».

Impotenza dei governi nazionali

«Volete che dia le mie dimissioni? Se questo è il caso, ditemelo!». Il presidente cipriota Nicos Anastasiades avrebbe apostrofato così la signora Christine Lagarde, direttrice generale del FMI, quando costei pretese che egli chiudesse seduta stante una delle più grandi banche dell’isola, grande fonte di posti di lavoro e di redditi (18). Il ministro francese Benoît Hamon sembra anch’egli ammettere che la sovranità (o l’influenza) del suo governo sarebbe strettamente limitata, poiché «sotto la pressione della destra tedesca si impongono politiche di austerità che dovunque in Europa si traducono in un aumento della disoccupazione (19).

Nel mettere in opera le misure che consolidano il potere censuario del capitale e della rendita, i governi hanno ben saputo ricorrere sempre alla pressione di “[grandi] elettori”, non residenti [nel Paese], invocandone l’irresistibile potenza: la troika, le agenzie di rating, i mercati finanziari. Una volta concluso il cerimoniale elettorale nazionale, Bruxelles, BCE e FMI spediscono il loro “programma di viaggio” ai nuovi dirigenti, affinché costoro abiurino seduta stante a questa o quella promessa fatta in campagna elettorale. Perfino il Wall Street Journal se n’è inquietato, lo scorso febbraio: «Da quando è cominciata la crisi, tre anni fa, francesi, spagnoli, irlandesi, olandesi, portoghesi, greci, sloveni, slovacchi e ciprioti hanno tutti votato, in un modo o nell’altro, contro il modello economico della Zona Euro. Dopo queste sconfitte elettorali tuttavia le politiche economiche non sono cambiate. La sinistra ha sostituito la destra, la destra ha scacciato la sinistra, il centrodestra ha perfino schiacciato i comunisti (a Cipro), ma gli Stati continuano a ridurre le loro spese e ad aumentare le imposte. (…) Il problema che i nuovi governi affrontano è che devono agire nel quadro delle istituzioni della Zona Euro e seguire le direttive economiche fissate dalla Commissione europea. (…) Tanto vale dire che dopo il fracasso e il furore di una votazione il loro margine di manovra economica è stretto (20)». «Si ha l’impressione», sospira Hamon, «che una politica di sinistra o di destra dosa diversamente i medesimi ingredienti (21)».

Un alto funzionario della Commissione europea ha assistito a un incontro fra i suoi colleghi e la direzione del Tesoro francese: «Era allucinante: si comportavano come un maestro di scuola che spiega a un pessimo scolaro quello che deve fare. Ho molto ammirato il direttore del Tesoro che ha mantenuto la calma (22)». La scena ricorda la sorte dell’Etiopia o dell’Indonesia al tempo in cui i dirigenti di quegli Stati erano ridotti al rango di esecutori dei castighi che il FMI aveva appena inflitto al loro Paese (23). Una situazione che attualmente l’Europa conosce. Nel gennaio 2012 la Commissione di Bruxelles intimò al governo greco di tagliare più di 2 miliardi di euro dalle spese pubbliche del Paese; entro i cinque giorni seguenti e a pena di ammenda.

Nessuna sanzione minaccia, al contrario, il presidente dell’Azerbaigian, l’ex ministro delle Finanze della Mongolia, il primo ministro della Georgia, la moglie del vice premier russo o il figlio dell’ex presidente colombiano. Eppure tutti costoro hanno domiciliato una parte del loro patrimonio – male acquisito o addirittura rubato – nei paradisi fiscali. Come le Isole Vergini britanniche, dove si elencano società registrate venti volte più numerose degli abitanti. O le Isole Caiman, che contano hedge funds (Fondi speculativi) quanti ve ne sono negli Stati Uniti. Senza dimenticare, nel cuore dell’Europa, Svizzera, Austria e Lussemburgo, grazie ai quali il Vecchio Continente combina un cocktail esplosivo di politiche d’austerità di bilancio molto crudeli e di studi di consulenza specializzati nell’evasione fiscale.

Tutti quanti non si lamentano per questa porosità delle frontiere. Proprietario di una multinazionale del lusso e del decimo patrimonio del Pianeta, una volta Bernard Arnault si è perfino rallegrato per la perdita di influenza dei governi democratici: «Le imprese, soprattutto internazionali, hanno mezzi sempre più potenti e in Europa hanno raggiunto la capacità di mettere in concorrenza gli Stati. (…) L’impatto reale degli uomini politici sulla vita economica di un Paese è sempre più limitato. Per fortuna (24)».

Di contro, la pressione subita dagli Stati aumenta. E si esercita allo stesso tempo per tramite dei Paesi creditori, della BCE, del FMI, della pattugli delle agenzie di rating e dei mercati finanziari. Jean Pierre Jouyet, attuale presidente della Banca pubblica d’investimenti (BPI), due anni fa ha ammesso che questi « in Italia avevano fatto pressioni sul gioco democratico. È il terzo governo che salta su loro iniziativa a causa del debito eccessivo. (…). Il rialzo dei tassi d’interesse del debito italiano è stata la pagella dei mercati (…). A un certo punto i cittadini si rivolteranno contro questa dittatura di fatto (25)».

Nondimeno, la «dittatura di fatto» può contare sui grandi media per confezionare le argomentazioni che ritardano e poi deviano le rivolte collettive, che personalizzano, vale a dire depoliticizzano, gli scandali più lampanti. Chiarire i veri meccanismi di ciò che si trama, grazie ai quali ricchezza e potere sono stati intercettati da una minoranza che controlla allo stesso tempo i mercati e gli Stati, esigerebbe un lavoro continuo di educazione popolare, che ricorderebbe come ogni governo cessi di essere legittimo quando lascia che si scavino ineguaglianze sociali, quando ratifica l’affossamento della democrazia politica e accetta la messa sotto tutela della sovranità nazionale.

Ogni giorno si susseguono manifestazioni – nelle vie, nelle imprese, nelle urne – per reiterare il rifiuto popolare di governi illegittimi. Eppure, malgrado l’ampiezza della crisi, esse tentennano in cerca di proposte di ricambio, convinte a metà che non ne esistono o che comporterebbero costi proibitivi. Da qui l’insorgere di un’esasperazione disperata. È urgente trovarne gli sbocchi.

(Un prossimo articolo rifletterà sulle strategie politiche suscettibili di cogliere vie alternative).

Note

(1) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire. Des origines de la politique à nos jours, Saint-Simon, Paris, 2012, p. 23.

(2) La Vie, Paris, 15 décembre 2011. (3) Lire Christopher Newfield, « La dette étudiante, une bombe à retardement », Le Monde diplomatique, septembre 2012.

(4) Tim Mak, « Unpaid student loans top $1 trillion », 19 octobre 2011, www.politico.com

(5) Robert Frank et Philip Cook, The Winner-TakeAll Society, Free Press, New York, 1995.

(6) « Inequality, exhibit A : Walmart and the wealth of American families », Economic Policy Institute, 17 juillet 2012, www.epi.org

(7) « L’Italie de Monti, laboratoire des “mesures Attali” », Les Echos, Paris, 6 avril 2012.

(8) Lire « Front antipopulaire », Le Monde diplomatique, janvier 2013.

(9) « India’s billionaires club », Financial Times, Londres, 17 novembre 2012.

(10) « Income inequality may take toll on growth », The New York Times, 16 octobre 2012.

(11) « Repairing the rungs on the ladder », The Economist, Londres, 9 février 2013.

(12) Francis Fukuyama, Le Début de l’histoire, op. cit. (13) En 2011, le produit intérieur brut mondial était d’environ 70 000 milliards de dollars. Cf. Knight Frank et Citi Private Bank, « The Wealth Report 2012 », www.thewealthreport.net

(14) Michel Crozier, Samuel Huntington et Joji Watanuki, The Crisis of Democracy, New York University Press, 1975.

(15) Le Figaro, Paris, 7 mars 2013. (16) Anne-Sylvaine Chassany et Camilla Hall, « Nicolas Sarkozy’s road from the Elysée to private equity », Financial Times, 28 mars 2013.

(17) David Callahan et J. Mijin Cha, « Stacked deck : How the dominance of politics by the affluent & business undermines economic mobility in America », Demos, 28 février 2013, www.demos.org. Les informations qui suivent sont tirées de cette étude.

(18) « Chypre finit par sacrifier ses banques », Le Monde, 26 mars 2013.

(19) RMC, 10 avril 2013. (20) Matthew Dalton, « Europe’s institutions pose counterweight to voters’ wishes », The Wall Street Journal, New York, 28 février 2013.

(21) RTL, 8 avril 2013. (22) « A Bruxelles, la grande déprime des eurocrates », Libération, Paris, 7 février 2013.

(23) Lire Joseph Stiglitz, « FMI, la preuve par l’Ethiopie », Le Monde diplomatique, avril 2002.

(24) Bernard Arnault, La Passion créative. Entretiens avec Yves Messarovitch, Plon, Paris, 2000.

(25) « Jouyet : “Une dictature de fait des marchés” », Le Journal du dimanche, Paris, 13 novembre 2011.




Lunedì 06 Maggio,2013 Ore: 21:04
 
 
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