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www.ildialogo.org I nazareni,di Ernesto Balducci

I nazareni

di Ernesto Balducci

I nazareni[1]
 
Geremia: 1,4-5.17-19/ 1 Corinti: 12,31-13,13/ Luca: 4,21-30
Ogni volta che ascolto o leggo questo notissimo inno alla carità di Paolo, sono preso da un doppio sentimento: quello del consenso caldo, lieto, sicuro e quello della diffidenza che quasi mi suggerirebbe un contro-inno, per cantare le malefatte della carità.
Avviene sempre così: i valori più grandi, quelli che toccano i vertici delle nostre possibilità e ci dischiudono il mistero dell’assoluto, non appena entrano nel contesto delle nostre strutture individuali e collettive si tramutano nell’opposto. «La corruzione - disse lo stesso Paolo - di ciò che è ottimo è pessima». Potrei ricordare che molti delitti si sono compiuti molte ingiustizie sono state consacrate, molte dipendenze sono state ribadite in nome della carità. Si è detto ai poveri di essere riconoscenti verso i loro benefattori, si e detto agli schiavi di sopportare la loro schiavitù, e così la carità è diventata la lubrificazione del1’ingiustizia.
Questa degenerazione ha una sua radice ed un suo processo. Noi potremmo ben comprenderli ricollocando questo sommo valore non nelle concezioni astratte che se ne hanno, ma nella sua matrice profetica. Stonano, in apparenza, i due brani che abbiamo ascoltato prima e dopo l’inno di Paolo. Il profeta Geremia è chiamato ad essere come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese. Dov’è la carità? Perché deve essere contro i sacerdoti? Contro i capi del popolo? Contro tutti? «Tutti ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno». Lo spettacolo che ci viene offerto in questa tipologia del profeta - «muro di bronzo contro tutti» - non è lo spettacolo che si confà ad un concetto diluito e convenzionale della carità. L’uomo caritatevole è quello arrendevole, pronto al compromesso, che non scende alla radice dei conflitti, pensa di conciliare due contendenti portandoli solo ad abbracciarsi e lasciando intatta la ragione del loro contendere, l’oggettiva ragione della loro diversità. È la «carità ideologica» - così mi piace chiamarla - che è funzionale a mantenere le cose come sono, «prò bono pacis» come si dice tante volte. In questo brano abbiamo un profeta che mette l’accetta alla radice e si trova contro tutti.
Gesù - ed ecco l’altro brano - si trova ad affrontare, in maniera frontale, i suoi concittadini, condannando in maniera diretta e precisa la loro presunzione che li porta a lapidare i profeti. In un altro brano del Vangelo, Gesù dirà: «I vostri padri lapidarono i profeti e voi li mettete nelle nicchie!». I suoi concittadini tentarono di uccidere Gesù, ma Lui esce dal loro gruppo ed entra nella sua libertà, nella sua solitudine.
Queste due immagini prof etiche, collocate dentro la questione che adesso vorrei approfondire con voi, sono estremamente stimolanti. Innanzitutto diciamo con Paolo che fra i tre valori - fede, speranza e carità - che caratterizzano l’esistenza del cristiano il più importante è la carità. Nella prospettiva del futuro remoto, nella fine dei tempi Paolo vede dissolversi tutti gli altri valori che invece sono così preminenti nella nostra esistenza storica - la scienza, la conoscenza, le lingue, la fede e la speranza - e restare solo la carità. Questo valore di permanenza infinita della canta è però anche un valore di primato su tutto il resto per cui la carità diventa criterio di giudizio anche sulla fede e sulla speranza. Questo è il discorso specifico che ci riguarda oggi.
Siamo in un tempo in cui - ma questo è sempre stato vero - siamo spettatori di espressioni di fede molto intense ma senza la carità. Esiste una fede senza carità. La fede fanatica è tipica: è una fede che è svuotata di amore. Proprio per questo vuoto interno, questa fede riempie se stessa di appassionate professioni, di sottomissioni assolute a Dio, di riferimenti ossessivi alla parola di Dio, ma quello che le manca è l’amore. Ne conosciamo di queste espressioni, al di fuori dell’area cristiana, ma anche dentro. Questa fede senza amore è uno dei mali tragici del nostro tempo perché ospita dentro di sé, dissimulandolo, una specie di odio del genere umano, di volontà di distruzione degli altri. È una forma sublimata della volontà di distruzione del nemico, è una ricerca di sicurezza che non ripudia nemmeno l’idea dell’arma e della distruzione. Sappiamo che in una certa politica del riarmo molto peso hanno avuto questi gruppi di cristiani con molta fede e senza amore.
È naturale che una fede senza amore rattrappisca anche la speranza. La speranza, l’attesa dei beni che si ritengono necessari, prende le misure di questa fede e perciò si fa una speranza funzionale alla distruzione del nemico e quindi diventa un progetto egoistico, di gruppo, di popolo e diventa anche la copertura sacra delle forme più sfrenate di nazionalismo La storia ne è piena. Quando si sfogliano le pagine della storia del passato si rimane come increduli di fronte a questo terribile potere di sterminio che portano in se la tede e la speranza senza amore, che si fanno omogenee alla volontà di potenza di gruppi umani e di nazioni intere. Questo vale anche per la Chiesa come tale. Le chiese - il peccato, anche in questo caso, è ecumenico - diventano principi di distruzione ogni volta che si assumono come punto di riferimento del tutto; cioè subordinano a sé anche la predicazione e l’esercizio della carità. E così l’amore è funzionale alla coesione del gruppo e non deve varcare le frontiere. Questo peccato della Chiesa è evidente, ormai ce ne accorgiamo anche se superarne i sedimenti è difficile. Come tanti di voi, io sono vissuto in un tempo in cui la passione della Chiesa per la difesa dell’uomo - che è una forma di amore – aveva i suoi confini all’interno del perimetro istituzionale. La difesa dell’uomo, per la Chiesa cattolica, era la difesa dei diritti cattolici, il resto non c’era, per cui era possibile stabilire alleanza anche con i tiranni purché questi promettessero il rispetto dei diritti dei propri fedeli.
Per rimettere nel giusto ordine le cose, secondo la volontà del Cristo, dobbiamo interrogarci su che cosa sia questo amore, quali siano i suoi principi generativi e quali le sue dimensioni. Il principio generativo dell’amore è la dedizione di sé all’intera creazione, perché questo è lo spazio del disegno di Dio. È un amore che non ha per oggetto qualsiasi cosa, ma ha per oggetto il disegno del padre, cioè il disegno della creazione. Ora che siamo sotto la tragica rappresaglia scatenata dalle nostre presunzioni di dominatori del mondo è bene dirci che questo amore investe la creazione intera ed è un amore costruttivo perché non scivola sulla realtà così com’è per conservarla ma l’afferra nella sua radice e quindi nel suo dover essere. L’amore è innanzitutto una virtù conoscitiva. La riduzione dell’amore ad una attività puramente pratica lo rende del tutto condizionato dai modi di conoscere che abbiamo e che consideriamo intangibili. Diciamo: c’è il padrone e c’è il servo. Il servo ami il padrone ed il padrone ami il servo. Non ci preoccupiamo di sapere se il rapporto servo/padrone è un rapporto conforme al disegno di Dio, lo diamo per certo. Una carità che rinunci alla sua competenza profonda di conoscenza intuitiva del dover essere della creazione, in rapporto alla parola di Dio, diventa una carità giustificativa. La carità è innanzitutto l’atto di consenso al disegno di Dio che è il disegno di una creazione portata alla sua pienezza, liberata da ogni forma di contaminazione, di sopruso, di sperequazione, di violenza. La carità afferra la realtà non nel suo modo attuale di essere ma nel suo dover essere e quindi mi apre una prospettiva che è quella profetica.
La carità è sempre profetica, se è vero che per profezia si intende una conoscenza che riconduce il reale attuale al suo dover essere futuro. Se così è, la carità scuote le cose, diventa una parete di bronzo contro cui niente può il potere. La carità ci libera dal timore. C’è questo passaggio, estremamente eloquente, nel brano di Geremia: «Non spaventarti alla loro vista altrimenti ti farò temere davanti a loro». La carità non ha timore di nulla perché appena ha timore essa diventa strumento manipolato dal potere che ci incute timore. La forza della carità che non ha timore, che va avanti con coraggio verso l’obiettivo che ha percepito, è una forza di trasformazione del mondo purché si mantenga fedele a questa sua radice conoscitiva. Essa abolisce i confini. Ecco perché Gesù, nella sua patria, dice che l’amore del Padre va fuori dei confini. Non ci dimentichiamo che questo racconto viene poco dopo quello delle tentazioni nel deserto, quando Satana lo abbandona in attesa della sua ora. A Nazareth Satana ha la sua rivincita, prende corpo sostanza, volti e parole nei suoi concittadini i quali vogliono che quest’uomo straordinario - che si dice abbia fatto miracoli nei dintorni – faccia miracoli anche a casa sua. Nazareth ne avrebbe tratto un prestigio straordinario. Gesù è un muro di bronzo contro i suoi. Ricorda che l’amore del Padre va fuori i confini. Quando ci fu la carestia il Padre si ricordò della vedova di Zarepta e quando ci fu la lebbra il Padre si ricordò di Naaman il Siro. La carità di Dio va oltre i confini, mira ad umiliare la presunzione di chi si reputa prediletto davanti a Lui. Questo e tutto il Vangelo: l’annuncio del Vangelo è 1’annuncio di un amore senza confini
Se così stanno le cose e mi interrogo che cosa sia, nell articolazione prospettata da Paolo in questo brano - fede, speranza e carità - il giusto posto della fede, quale sia cioè il rapporto fra fede e carità, devo affermare che noi lo abbiamo capovolto. Per questo amiamo tanto distinguere cristiani e non cristiani. Noi diciamo che i cristiani sono quelli che hanno fede. Ma se io dicessi che i cristiani sono quelli che hanno carita? Sarei più nel giusto. Però lo schema di distinzione a cui siamo così attaccati cadrebbe, il che ci dà insicurezza. È questa l’insicurezza che il Signore vuole. Se io assumo come principio di distinzione la fede mi riesce piuttosto facile poter distinguere chi e cristiano e chi non lo è. Pronuncio il Credo: chi consente è con me, l’altro non è con me. E se invece prendessi - data questa gerarchia - come criterio di riferimento l’amore? Le cose si confonderebbero. Se chiamo cristiani tutti coloro che amano, che hanno premura per il prossimo e mirano a modificare il mondo così come è per ricondurlo alle misure dell’amore è evidente che scompare ai miei occhi ogni possibilità di discriminare con precisione, e scompare nell’istituzione ogni sicurezza nella sua pretesa di gestire i credenti. Come si fa a gestire quelli che amano?
È così che il cristianesimo viene liberato dalla sua crisalide storica di carattere culturale ed ideologico, liberato anche dalla piramide istituzionale che spesso presume di contenerlo nei propri confini e di gestirlo, e si identifica con quella porzione dell’umanità in cui l’amore è la prima legge. Non l’amore purchessia, ma questo amore che mira a modificare un mondo senza amore, a distruggere nel mondo le strutture dell’odio a tutti i livelli. Giunti come siamo all’ultima sponda della civiltà dell’odio dopo la quale c’è l’abisso del morire collettivo, siamo portati a ripercorrere, come in una anamnesi medica, tutta la struttura storica del genere umano e percepire i luoghi in cui si è sedimentato questo veleno dell’odio: rapporti uomo/donna, rapporto uomo/natura, rapporti di classe, rapporti fra i popoli... Noi vediamo che nelle giunture c’è questa oscura solidificazione dell’odio diventato struttura, modo di agire, di pensare. Allora la carità diventa una virtù - uso il termine nel modo contestuale al mio discorso - rivoluzionaria, costruttiva. Mette in luce tutto ciò che di positivo, di conforme all’amore c’è nel mondo. La carità ha questo di proprio, che anche nel guardare l’uomo più efferato, che ispira risposte violente, riesce a scorgere il residuo di amore che c’è in lui. Anche nel delinquente che non ha, di fronte ad un tribunale umano, nessuna attenuante, la carità riesce a scorgere la scintilla residua che potrebbe divampare. La carità è contagiosa. Se mandate un uomo zeppo di virtù e con grande senso di giustizia di fronte ad un peccatore, ad uno che ha commesso crimini, il delinquente si consolida nella sua negatività per una specie di naturalità dialettica. Di fronte ad un virtuoso troppo virtuoso ci affezioniamo ai nostri difetti. Ma se l’amore ci guarda dentro, suscita in noi le potenzialità represse e menomate dalla nostra degenerazione l’amore cambia il mondo.
È questa la logica della nonviolenza. La nonviolenza non è solo un metodo per rispondere nei conflitti, è anche un modo di conoscere il lato nonviolento che c’è anche nell uomo più violento. Essa veramente può cambiare i rapporti intersoggettivi senza molte parole e senza provvedimenti di legge, ma per pura propagazione esistenziale del valore dell’amore. La nuova maniera di vivere la vocazione cristiana è il primato dell’amore che intreccia nel mondo quella comunione tra le creature. Il vero obiettivo dell’annuncio di Gesù Cristo non è di fare una chiesa, ma di fare un’umanità, di cui la chiesa è segno e strumento.
Se c’è un motivo di serenità nel guardare la realtà storica di quest’ultimo scorcio è che la razionalità della forza e del fanatismo appaiono sempre di più infondate e quindi si squalificano da sé. Nei rapporti tra i popoli, 1’esigenza di abbattere le pareti, i muri, di disarmare, di moltiplicare gli scambi culturali è un esigenza nel segno dell’amore. Sul piano personale il nuovo rapporto uomo/donna, il bisogno di rispettare la natura perché essa non sia contaminata e resa violenta dalla nostra violenza rientrano nelle esigenze dell’ amore. La parola «cristiani» può essere pronunciata in due modi: uno di differenziazione – quando dico cristiani penso a quelli che non lo sono e mi distinguo da loro - un altro invece in cui la parola indica un’apertura a tutti gli uomini. Questo era il sentimento del Signore. Attorno a lui si sono sempre alzate siepi di fanatici, durante la sua vita, e dopo che Egli è scomparso il fanatismo istituzionale lo ha come seppellito in un recondito spazio dove soltanto la forza delle coscienze ha potuto raggiungerlo. È un miracolo storico che Egli non sia rimasto chiuso nella tomba dei fanatismi dei nazareni.
In quest’ultima frase del Vangelo - «passando in mezzo a loro se ne andò» - ho sempre colto, anche visivamente, un segno stupendo del mistero di Gesù. Gesù è passato in mezzo a noi e se ne è andato. Questa parola, se non fosse presunzione, potrei annunciarla in molti luoghi dove ci sono tutti i segni del Cristo. Potrei dire: se n’è andato! Se n’è andato lontano dove la logica dell’amore vive, dove la speranza non è retorica domenicale.

NOTE
[1] Ernesto Balducci, «I nazareni». Omelia pronunciata alla Badia Fiesolana la 4a domenica del tempo ordinario. Pubblicata in “Gli ultimi tempi- Vol. 3° anno C 1985/1986 o 1988/1989 - Borla editrice, 1991; pag. 238-246.



Giovedì 31 Gennaio,2019 Ore: 21:48
 
 
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