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www.ildialogo.org Domenica 3a Quaresima –C– 3 marzo 2013,di Paolo Farinella, prete

Domenica 3a Quaresima –C– 3 marzo 2013

di Paolo Farinella, prete

La 3a domenica di Quaresima dell’anno C non è di facile accesso, perché i testi non sono di immediata comprensione, ma devono essere «ruminati» e interpretati. Sintetizzando in uno slogan potremmo dire che la liturgia ci chiede di passare dalla Scrittura intesa quale ricettario di risposte automatiche alla Scrittura come «codice» per leggere la vita: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119/118,105). Ammessa la rivelazione scritta, la Parola di Dio è incarnata nelle parole umane una volta per tutte: non si può più capire la prima senza comprendere le seconde. Dio accetta il «principio di relativizzazione» perché si condiziona, accettando il metodo umano della ricerca di senso che non sempre è immediato. Da ciò nasce l’esigenza dello studio non solo delle lingue bibliche, ma anche di tutto il contesto in cui le parole umane che compongono la Bibbia nascono e si sviluppano: linguistica, storia, geografia, archeologia, liturgia, strutture sociali, economia, usanze e culture contemporanee. La questione è tanto importante che il Talmud [1] dice che tra le dieci cose che furono create al crepuscolo del sesto giorno della creazione vi sono «le lettere dell’alfabeto», cioè la «scrittura» come scienza con cui Dio avrebbe scritto la Toràh. Se l’alleanza è il contenuto, la cultura umana ne è la custodia e la forma con cui bisogna fare i conti.

       La 1a lettura narra del primo incontro di Mosè con il Dio della montagna, Yhwh, venerato dai suoi antenati. Il brano è centrato sulla «conoscenza del Nome»; a questa conoscenza si sottrae il Dio della Bibbia il quale si rifiuta di rivelare il proprio «Nome» per non restare in balìa degli uomini. Si pongono problemi d’interpretazione che svilupperemo nell’omelia, perché è un momento determinate sia per la comprensione del difficile testo, sia per la vita di fede e per la nostra spiritualità. In breve: Dio si rifiuta di rivelare il suo «Nome» a Mosè, mettendo così un argine alla manipolazione di lui e della sua volontà, e nello stesso tempo rinvia alla storia dei patriarchi, svelandosi come Dio «storico», un Dio cioè talmente immerso negli avvenimenti umani che lo si può conoscere solo attraverso «Abramo, Isacco e Giacobbe».

Per il mondo semitico, cui appartiene la Bibbia, il «nome» indica la natura intima, profonda di chi lo porta e ne determina la consistenza. Conoscere il «nome» significa «possedere» il proprietario del nome, avere su di lui potere di vita e di morte. Adam nel giardino di Eden può dare il nome agli animali perché li domina e ne dispone (cf Gen 2,19; 1,28). Egli vuole impossessarsi anche di Dio e disporre «del bene e del male», cioè del destino delle cose, ma Dio nessuno può possederlo, perché sfugge a qualsiasi classificazione e dominio da parte dell’uomo. Davanti a Dio l’uomo può solo inginocchiarsi. Gli Ebrei, per sommo rispetto, non pronunciano mai il Nome tre volte santo di «Yhwh»[2] che sostituiscono con uno dei tanti sinonimi (ne riportiamo alcuni nella nota in calce)[3].

La 2a lettura è una lezione di esegesi che Paolo fa ai Corinzi usando il metodo del midràsh. Egli legge tre fatti dell’esodo, che sono la manna, la roccia e la nube, alla luce degli avvenimenti nuovi della vita di Gesù Cristo, che così diventa la chiave per capire il senso della storia passata. Ciò significa che i fatti antichi avevano un significato «nascosto» più profondo di quello che apparentemente dichiaravano e che solo altri fatti «nuovi» successivi hanno evidenziato: il «nuovo» non solo illumina, ma amplia e approfondisce il significato antico: porta a compimento (cf Gv 17,12; 19,28.36; At 1,16; 3,18, ecc.). Non bisogna mai avere paura della novità perché essa potrebbe essere portatrice di senso più profondo. Chi ha paura della novità non comprende nemmeno il passato perché vive solo nell’ambiguità di ciò che sia giusto e lecito esclusivamente alla luce del passato.

La gerarchia della Chiesa cattolica invece ha paura del futuro perché ha dimenticato il vangelo e quindi non ricorda le parole di Gesù agli apostoli impauriti: «Sono io. Non abbiate paura!» (Gv 6,20; Mc 6,50; Mt 14,27; cf Es 14,23; Dt 1,29; Ger 10,2).  La reintroduzione della Messa di Pio V del 1570 è di fatto non solo una sconfessione di Paolo VI e del concilio Vaticano II, ma il segno evidente della regressione della coscienza che una parte della Chiesa ha di sé stessa: terrorizzata dal futuro, si rifugia nel passato. Il concilio di Trento diventa così l’ultima e definitiva manifestazione dello Spirito Santo, dopo del quale non c’è che il silenzio assoluto se non l’eresia di cui alcuni accusano lo stesso concilio e papa Paolo VI. Ciò significa negare la storia come luogo dell’incarnazione e, cosa ancora più grave, assumere un fatto storico, e quindi contingente, come assoluto e metro unico della rivelazione. Di fatto si dice che la Chiesa e il mondo del concilio Vaticano II sarebbero orfani di Spirito Santo. S. Paolo, in sintonia con la 1a lettura, insegna che la storia e gli eventi che essa conduce sono il luogo primario per cercare con discernimento la volontà di Dio, la quale si manifesta attraverso i «comandamenti» degli eventi e delle persone.

       Nel vangelo Gesù legge tre avvenimenti, due di cronaca e uno agricolo, per parlare di vigilanza e provvisorietà. Una rivolta soppressa nel sangue da Pilato (di cui non sappiamo altro) e un disastro edilizio che provocò diciotto «morti bianche» servono a Gesù per contestare la mentalità corrente che vedeva in questi fatti punizioni di Dio, come se questi si divertisse a mandare disgrazie per saggiare la fedeltà dei suoi figli. Povero Dio, ridotto ad un burattinaio che gioca con la vita dei suoi figli! Un Dio così non è un Padre, ma un carnefice. Abbiamo un concetto assurdo di Dio: quando non siamo in grado di dare spiegazioni razionali a ciò che ci capita, proiettiamo in lui la soluzione più comoda o la responsabilità totale. Poiché Dio «può tutto» (?) per principio, deve anche essere colpevole di tutto.

Gesù invece, con il suo invito alla conversione che è un moto di purificazione del pensiero (gr.: metanoèō – cambio mentalità/pensiero), purifica i criteri del modo di pensare che possiamo avere di Dio e ci rimanda alle nostre responsabilità e alla nostra storia (cf Mc 1,14-15): cogliere il senso di questi fatti significa avere il senso di Dio. Nessuno di coloro che furono coinvolti nella repressione o gli operai che andarono a lavorare pensavano che sarebbero morti in quel giorno, eppure sono morti senza colpa: o perché si sono trovati in mezzo alla sommossa o perché ne erano partecipi; o perché le impalcature erano fatte male e non secondo le norme della sicurezza; o perché il materiale usato era scarso per risparmiare. Da qui l’insegnamento che un incidente può accadere a chiunque, per cui bisogna essere sempre pronti: noi non sappiamo oggi cosa può accadere domani. Nessuno ha la garanzia del domani. Non è un invito a vivere rassegnati, ma al contrario a vivere responsabilmente ogni istante come fosse l’ultimo.

       Celebrare l’Eucaristia è immergersi nel mistero di Dio che, per un verso, ci proietta nell’escatologia e, per l’altro, ci inchioda al presente di cui siamo protagonisti e artefici. Pregare significa imparare a leggere gli eventi alla luce della Parola per assaporarli e viverli ascoltando la Parola, mangiando e bevendo la Parola che diventa Pane e Vino, cioè alimento di vita. Vivere l’Assoluto nel provvisorio è la dimensione costante e comune del cristiano. Per questo l’invocazione allo Spirito Santo deve sempre precedere l’inizio della celebrazione dell’Eucaristia, se vogliamo apprendere e aggiornare le coordinate esatte per navigare nei mari della vita, dove è facile smarrirsi camminando senza bussola e senza mèta. Entriamo dunque nell’ascolto del Lògos con le parole del salmista (Sal 27/26,8-9): «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto».

Spirito Santo, tu guidasti i passi di  Mosè vero la montagna del Signore,                  Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei la fiamma di fuoco che avvolgeva il roveto ardente,           Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu vivificasti la coscienza di Mosè affinché percepisse la santa Shekinàh,    Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu aiutasti Mosè a togliersi i sandali davanti alla maestà di Dio,             Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu rivelasti a Mosè il Nome del Dio dei santi patriarchi,                   Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sveli a noi il Nome del Dio dei padri e di Gesù Cristo,                  Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu santifichi l’anima nostra per benedire il Nome santo di Dio,              Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu riversi in noi la misericordia e la grazia del Padre,                Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci fai beneficiare dei meriti dei padri e delle madri d’Israele,             Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci guidasti nel deserto riparandoci alla nube che è il Cristo,              Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci battezzasti nelle acque del Mare Rosso, immagine di Cristo,            Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci nutristi con la manna nel deserto che è il corpo del Signore,            Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci disseti all’acqua della roccia che è Cristo Signore,                   Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci insegni a leggere la storia, «segno» della Presenza di Dio,              Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci insegni i criteri per leggere gli eventi alla luce della Pasqua,            Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci educhi al senso della provvisorietà, invito alla conversione,            Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci doni un supplemento di tempo come tempo di conversione,           Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci poti perché portiamo frutto e frutto abbondante,                     Veni, Sancte Spiritus!

La nostra vita è un evento dove si manifesta e si esprime la Presenza di Dio che gli Ebrei chiamano la santa Shekinàh - Dimora. Il tempo di Quaresima è il tempo della verifica di questa Presenza. Come viviamo la nostra esistenza? Ci lasciamo vivere rassegnati o siamo consapevoli che noi siamo «il luogo» dove Dio parla a quanti c’incontrano? Quale cognizione abbiamo di Dio? Ci ricordiamo di lui solo nel bisogno o siamo consapevoli che la sua Presenza è il dinamismo che dà senso e direzione a tutto ciò che facciamo e scegliamo? Come Mosè, togliamoci i  sandali dai piedi perché la terra dell’Eucaristia nella quale stiamo entrando è terra santa:

(ebraico)

Beshèm

ha’av

vehaBèn

veRuàch

haKodèsh.

Amen.

(italiano)

Nel Nome

del Padre

e del Figlio

e dello Spirito

Santo.

Tutto ciò che siamo, che viviamo, che speriamo, che pecchiamo, che desideriamo, che temiamo, tutto è nel segno di Dio perché noi siamo la Dimora della Trinità santa. Ne abbiamo consapevolezza? Quando preghiamo ci rifugiamo in uno spiritualismo astratto così da sfuggire le nostre responsabilità nel tempo e nello spazio dove la Provvidenza ci ha chiamato a vivere? Ci educhiamo ogni giorno a leggere gli avvenimenti, anche quelli che apparentemente valutiamo come banali, come «Parola di Dio»? Quale segno particolare poniamo per distinguere questa Quaresima, che potrebbe essere l’ultima Quaresima, dagli altri giorni? Ho preso in esame la possibilità che il digiuno a cui ci richiama la liturgia possa essere quello di limitare l’uso della tv che è la madre di tutte le dispersioni e banalità? Esaminiamo la nostra coscienza.

 [Seguono alcuni momenti effettivi e congrui di silenzio]

Signore, ti sei rivelato a Mosè: manifestaci il tuo volto di misericordia,                         Kyrie, elèison!

Cristo, ti sei manifestato a Mosè nel fuoco ardente: brucia ogni nostra impurità,                  Christe, elèison!

Signore, hai sfamato e dissetato Israele nel deserto: sfama la nostra fame di te,                  Pnèuma, elèison!

Cristo, non hai esitato a diventare provvisorio per noi: donaci il senso dell’Assoluto,             Christe, elèison!

Signore, lento all’ira e misericordioso: trasformaci in segno della tua tenerezza,                 Kyrie, elèison!

Dio onnipotente, che ha convocato il profeta Mosè sulla santa montagna per prepararlo alla missione di liberazione del suo popolo, per i suoi meriti e i meriti dei santi patriarchi, ma specialmente per i meriti del Signore nostro Gesù Cristo, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Preghiamo (colletta). Padre santo e misericordioso, che mai abbandoni i tuoi figli e riveli ad essi il tuo Nome, infrangi la durezza della mente e del cuore, perché sappiamo accogliere con la semplicità dei fanciulli i tuoi insegnamenti, e portiamo frutti di vera e continua conversione. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Mensa della Parola

interlinea

Prima lettura Es 3,1-8a.13-15. Formato alla scuola governativa egiziana, Mosè viene introdotto gradualmente nella complessa macchina dell’amministrazione: egli riceve l’incarico di sorvegliante degli Ebrei (Es 2,11-15). Intervenendo in difesa di un Ebreo, uccide il sorvegliante egiziano; scoperto e ricercato dalla polizia, deve  fuggire. S’inoltra nel deserto e  arriva nella tribù di Màdian nel territorio del monte Sinai. Sposa la figlia del capo tribù, Jetro, che lo introduce nella storia dei suoi antenati e dei riti che essi praticavano come la circoncisione (cf Es 4,24-26). Questo è il contesto della lettura di oggi che narra come Mosè ritrovò la coscienza delle sue origini e la conoscenza del «Nome» del Dio dei suoi padri. Conoscere il Nome, nella Bibbia, significa possedere l’anima e l’intima natura di chi lo porta. Dio non può essere posseduto e per questo resta evasivo  e si fa conoscere attraverso la storia dei suoi  eletti: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Incontrare Dio per Mosè significa cambiare radicalmente la sua vita proiettandola a servizio di un popolo che ancora non ha. L’Eucaristia è il nuovo Sinai della conoscenza e dell’incontro, il sacramento della sperimentazione della Presenza.

Dal libro dell’Esodo 3,1-8a.13-15

1In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». 5Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». 6E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. 7Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. 8Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». 13Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». 14Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”». 15Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Parola di Dio.  Rendiamo grazie a Dio.

Salmo responsoriale 103/102, 1-2; 3-4; 6-7; 8.11. La liturgia riporta solo 8 versetti dei 22 di cui si compone questo inno, il quale sviluppa alcuni dei tredici attributi di Yhwh descritti nel libro dell’Esodo (34,6-7)[4], in modo particolare la misericordia e la bontà (vv. 3-4; cf anche i  vv.17-18, qui non riportati, con  Es 20,6). L’inno all’Amore di Dio è una proclamazione solenne che invita gli angeli e il creato (vv. 20-22, qui assenti) a partecipare alla «berakàh-benedizione» che l’anima eleva al suo Signore dall’inizio alla fine  del salmo (v. 1 e v. 22, qui assente). Il v. 8 riportando quattro dei tredici  attributi di Dio elencati nel libro dell’Esodo (cf Es 34,6-7), anticipa il vertice di tutta la rivelazione antica e nuova: «Dio è Agàpe» (1Gv 4,8). L’Eucaristia è la grande «berakàh-benedizione» riversata dal Padre sul mondo perché essa non è altro che il Figlio suo benedetto nell’atto di dare sé stesso per amore. Alle sorgenti dell’Eucaristia noi sperimentiamo l’abisso di misericordia e di perdono in cui siamo immersi, perché la grazia del Signore è il nome nuovo della giustizia. Noi che ascoltiamo ne siamo parte e beneficiari.

Rit. Il Signore ha pietà del suo popolo.

1 1Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
2Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici. Rit.

3 6Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
7Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele. Rit.

2 3Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
4salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia. Rit.

4 8Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
11Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono. Rit.

Seconda lettura 1Cor 10,1-6.10-12. San Paolo legge gli eventi di Cristo da vero ebreo, e applica il metodo esegetico del midràsh che legge la Scrittura alla luce della Scrittura. Nel testo di oggi Paolo rilegge alcuni eventi dell’esodo come la manna, l’acqua della roccia e la nube, alla luce della persona di Gesù. Gesù stesso diviene la chiave d’interpretazione dell’evento fondativo d’Israele, che così diventa parte integrante del messaggio cristiano. La tradizione giudaica da sempre ha letto i tre miracoli come altrettante tappe dell’èra messianica e Paolo, attraverso il suo maestro Gamaliele, discepolo del grande Hillel, trasmette ai Corinzi lo stesso insegnamento: c’è un’unica storia della salvezza[5] e Cristo ne è il solo punto di arrivo.

Dalla prima lettera di Paolo apostolo ai Corinzi 10,1-6.10-12

1Non voglio (infatti?) che ignoriate, fratelli e sorelle, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. 6Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 10Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. 11Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

Parola di Dio.  Rendiamo grazie e Dio.

Vangelo Lc 13,1-9. Due fatti di “cronaca nera” servono a Gesù per invitare i suoi uditori non a chiedere segni straordinari, ma a leggere i segni che la storia e la vita ordinaria offrono. Una repressione nel sangue (v. 1) e il crollo improvviso di una costruzione (v. 4) pongono il problema della subitaneità e della provvisorietà. Perché loro e non noi? La morte è parte integrante della vita, e ci deve insegnare ad essere vigilanti perché «oggi» è il giorno della salvezza, mentre «domani» potrebbe non arrivare mai. Il tempo che si aggiunge a «oggi» è un tempo supplementare, che Dio concede perché sia impegnato per la conversione del cuore. Partecipare all’Eucaristia significa prendere parte all’ultimo pasto, perché è già premessa di quello conclusivo della fine della storia. Avere questa consapevolezza significa immergersi nell’«oggi di Dio» alla luce della Parola (cf Lc 4,21). Il fico sterile è una parabola che riguarda ciascuno di noi: «Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto» (cf Gv 15,2).

Canto al Vangelo Mt 4,17

Lode e onore a te, Signore Gesù! Convertitevi, dice il Signore, / il regno dei cieli è vicino. Lode e onore a te, Signore Gesù!

Dal Vangelo secondo Luca  13,1-9

In quel tempo 1si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». 6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. 8Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”». Parola del Signore.      Lode a te o Cristo.

Canto al Vangelo Mt 4,17

Lode e onore a te, Signore Gesù! Convertitevi, dice il Signore, / il regno dei cieli è vicino. Lode e onore a te, Signore Gesù!

Dal Vangelo secondo Luca  13,1-9

In quel tempo 1si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». 6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. 8Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”». Parola del Signore.      Lode a te o Cristo.

Tracce di omelia

La liturgia di oggi, attraverso le letture, ci vuole insegnare il criterio della ricerca della volontà di Dio. La 1a lettura e il vangelo ci insegnano il 1° pilastro del discernimento: tutti gli avvenimenti della vita, ordinari, straordinari, banali  e quelli imprevisti, sono i comandamenti ovvii attraverso i quali possiamo scorgere il disegno di Dio sulla nostra storia. La 2a lettura ci insegna l’altro pilastro della spiritualità cristiana: la Parola di Dio è il codice d’interpretazione della vita. Oggi si direbbe che è la password per accedere al file di senso della vita. Abbiamo così due elementi che formano un solo criterio di discernimento: la vita e la Parola, gli avvenimenti e la Scrittura. Gli avvenimenti della vita offrono la materia di riflessione, la Parola di Dio la prospettiva e l’orizzonte di significato. Ciò che accade nella nostra vita non è separato da Dio o a lui estraneo, nemmeno quelle realtà che scioccamente chiamiamo «banali», come se nella vita di ciascuno di noi, che vale il sangue del Figlio di Dio (cf Ef 2,13; Gal 2,20; Ap 1,5), potesse esserci qualcosa di banale.

       Mosè è un ebreo educato alla corte del re egiziano secondo la cultura, la religione e i costumi egiziani. Egli non sa nulla della storia del suo popolo d’origine. Immesso nell’amministrazione, è forse incaricato di gestire la sorveglianza degli Ebrei che fabbricano mattoni. Viene a diverbio con un suo sottoposto che uccide in un alterco. Accusato di omicidio, cade in disgrazia. Deve scappare, inseguito dalla polizia di stato.

Si rifugia nel deserto di Madian[6]. Qui viene a contatto con la religione dei suoi antenati e per la prima volta conosce il Nome del dio della montagna: «Elohim» o «Elyon». Durante questa permanenza presso il sacerdote Ietro, che presto diventerà suo suocero, compie una specie di noviziato, un corso di apprendistato veloce sulle tradizioni degli Ebrei. Pascolando il gregge, egli ha molto tempo a disposizione per pensare e riflettere. Questo è il contesto in cui bisogna leggere la lettura di oggi che non è proprio facile.

Il racconto del roveto ardente non deve essere preso alla lettera, ma bisogna interpretarlo. Come spesso accade nei deserti del Medio Oriente, è probabile che un violento e improvviso temporale estivo abbia colto di sorpresa Mosè che si rifugia come può ai piedi di un monte insieme alle pecore che sta pascolando. Un fulmine forse colpisce un arbusto che resta miracolosamente illeso. Mosè resta impressionato da questo fatto e si avvicina, ma si accorge di avere oltrepassato il confine che delimitava la montagna sacra dedicata al Dio del luogo. Preso dal terrore di avere profanato la santità del luogo con i suoi calzari di pelle di animali morti, si toglie i sandali e si butta a terra implorando il perdono di Dio. Non sappiamo che cosa sia successo, ma è certo che Mosè vive una esperienza mistica che lo segnerà per tutta la vita.

Tutti i suoi dubbi, tutti i suoi interrogativi, tutte le sue perplessità di colpo spariscono e gli appaiono chiari la dimensione della storia passata, le scelte che deve fare e il senso del futuro. Se Dio ha fatto un’alleanza con i patriarchi, essa non può compiersi finché il popolo ebreo è schiavo in Egitto. Bisogna liberarlo in «Nome» del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ora capisce che tutto quello che gli è successo: l’omicidio, la disgrazia davanti al Faraone, la fuga, l’incontro con Ietro, il temporale e il fulmine non sono avvenimenti casuali, ma fatti che lo hanno condotto a prendere coscienza. Egli non può vivere per sé stesso, ma deve dedicare la sua vita alla liberazione del popolo che Dio ha scelto per portare la sua alleanza nel mondo intero. Riflette sugli avvenimenti della sua vita e scopre di essere stato guidato a quel punto da un disegno divino che lo conduce ad una missione superiore alle sue forze, ma che egli ora è determinato a realizzare.

La scoperta del «Nome» di Dio è la chiave della lettura. Presso gli orientali il nome indica la natura di chi lo porta: il «nome» è la «cosa». Conoscere il Nome significa possedere chi lo porta. All’epoca di Mosè le divinità erano legate ai confini dei rispettivi popoli per cui gli «dèi» d’Egitto non avevano efficacia fuori dei confini d’Egitto, così per gli dèi assiri, babilonesi, cananei e così anche per il «dio della montagna» di Mosè[7].  Inaspettatamente, però, questo «Dio» si mostra nello stesso tempo in cui si cela agli occhi di Mosè: non dice nulla di sé perché non può essere posseduto dall’uomo, che non può quindi disporre di Dio a suo piacimento (lontananza), e nello stesso tempo si manifesta nel suo agire «storico», cioè nei suoi interventi dentro gli avvenimenti umani dei patriarchi: per questo si manifesta come «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe».

L’espressione «Io sono colui che sono» ha generato un’infinità di elucubrazioni dovute prevalentemente alla non conoscenza della lingua ebraica e ai suoi costrutti sintattici, preferendo leggerla con la mentalità occidentale, propensa all’astrazione filosofica, che nulla ha a che vedere con la Bibbia. Dire che con l’espressione «Io sono colui che sono» si afferma l’«Essere» di Dio è dire una sciocchezza: è fare eisegesi (mettere dentro) e non esegesi (tirare fuori).

Il testo ebraico dice esattamente: «‘eheyeh ‘ashèr ‘eheyeh» (Es 3,14), che formalmente è un imperfetto ripetuto due volte e unito da un pronome relativo: una costruzione straordinaria e impossibile da risolvere se non nel contesto dell’intero racconto e osservando la funzione dei verbi all’interno del testo. In breve, dando per scontata l’analisi testuale, l’espressione significa letteralmente: «Io sarò chi sono stato» che al tempo stesso è una risposta evasiva nel senso di «Che t’importa chi io sia?» oppure «Io sono io» che di fatto non significano nulla e, per altro verso, è un rimando alla storia e alla ricerca di senso attraverso gli avvenimenti. Dicendo infatti, «Io sarò chi sono stato», Dio mette in relazione il futuro che ancora non c’è con il passato che è già accaduto: Chi io sarò da ora in avanti, tu lo scoprirai negli avvenimenti che accadranno, e se vuoi proprio saperlo interroga gli eventi del passato quando sono intervenuto con i tuoi padri, i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. In altre parole: come ho agito con i patriarchi così agirò con te: «Io-sarò chi fui».

Il greco della LXX traduce il futuro con il presente che collega con un participio sempre presente: «Egô eimì ho ôn»; alla lettera si traduce «Io sono l’Essente/Colui che è» che la Vulgata di san Girolamo rende con «Ego sum qui sum – Io sono colui chi (non è che?) sono». Greco e latino hanno creato così l’equivoco filosofico riferito alla natura di Dio come l’aveva sviluppata la filosofia cristiana, perdendo di vista la prospettiva biblica. La traduzione che più si avvicina all’ebraico è quella data dall’Apocalisse: «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4.8; 48) in quanto esprime la dinamica dell’essere divino nella storia della salvezza.

La rivelazione (nascondimento) del Nome di Dio ci insegna che nessuno di noi può pretendere di possedere Dio o di ridurlo ai propri schemi o alla propria ideologia, perché Dio non è riducibile a nessuna categoria di possesso. Lo si può e lo si deve cercare nella storia e negli eventi attraverso la fatica della ricerca e il discernimento dello Spirito, perché Dio non è uno spiritello che ubbidisce ai nostri capricci, ma è una «persona seria».

La stessa prospettiva di fondo troviamo nel vangelo dove, di fronte all’eterna richiesta di «segni» straordinari, Gesù risponde con i segni di Dio che chi vuole può trovare: basta saperli cogliere nelle pieghe degli avvenimenti. Uno dei segni più evidenti è la morte (vv. 1-4), in questo caso la morte violenta e prematura, in cui sono coinvolte anche persone incolpevoli. Si tratta di una repressione dei Romani (di cui non sappiamo nulla, trattandosi di una delle innumerevoli sommosse) e di un incidente che fece notizia, cioè il crollo di una torre in costruzione (oggi si parlerebbe di «morti bianche»). Gesù dice chiaramente che le vittime avrebbero potuto essere chiunque e quindi coloro che ne sono stati colpiti non sono colpevoli più di quelli che sono rimasti in vita. La casualità fa parte della vita e gli incidenti sono il segno della fragilità dell’esistenza, ma anche delle condizioni della libertà umana. La repressione avrebbe potuto essere evitata con una buona politica come anche l’incidente se nella costruzione si fossero osservate le regole della buona costruzione (materiale e progetti).

Inoltre la Galilea era considerata la patria degli «zeloti» che si ribellavano con la forza e le armi all’invasore romano, per cui «Galileo» e «rivoltoso/pianta grane/anarchico» erano sinonimi. Gesù è un Galileo e viene visto come un facinoroso, uno dei soliti rivoltosi che è bene tenere sotto controllo. Il brano di oggi non si capisce se non si legge il capitolo precedente, Lc 12, dove Gesù invita i suoi discepoli davanti a «migliaia di persone, al punto che si calpestavano a vicenda» a stare in guardia dall’influsso malefico dell’autorità religiosa: «Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia» (Lc 12,1). Inoltre aveva spinto le folle ad acquisire il discernimento per valutare gli eventi attraverso la categoria dei «segni dei tempi» (cf Mt 16, 2-3; Mt 5, 25-26), assicurando così l’autonomia di giudizio sulle cose della terra: «54Diceva ancora alle folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: ‘Arriva la pioggia’, e così accade. 55E quando soffia lo scirocco, dite: ‘Farà caldo’, e così accade. 56Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? 57E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?”» (Lc 12,54-57).

Questi discorsi sono sempre pericolosi per l’istituzione ecclesiastica o religiosa di ogni tempo la quale per sua natura teme che i fedeli abbiano la conoscenza e la connessione tra eventi e parola, fatti e spiegazione. Un popolo che conosce e sa non è più una massa manovrabile a piacimento «in nome di Dio», ma bisogna dare spiegazioni, offrire ragioni e motivazioni dell’agire. I farisei vedono in Gesù un pericoloso sobillatore che insegna l’autonomia della valutazione morale e l’assunzione di responsabilità di fronte a ciò che accade nella storia. Se il contesto è questo, l’avvicinarsi di «alcuni» (generici) che vengono a riferirgli o meglio a richiamargli alla memoria un caso violento di repressione ha tutta l’aria di essere un avvertimento, quasi a dire: stai attento che se continui su questa strada, tu e i tuoi discepoli potreste fare la stessa fine.

Gli «alcuni» sembrano emissari mandati dai farisei. Il testo greco infatti non dice «Allora» (gr.: tòte: cf Mt 2,7; 4,1)  oppure, come si usa in molte altre circostanze, «In quel tempo» (gr.: en ekèinōi tôi kairôi; cf Mt 12,1; 14,1, ecc.); o anche: en ôi kairôi; (cf At 7,20), ma usa la formula precisa: «En autôi tôi kairôi – In quel medesimo/stesso tempo», che indica una contemporaneità tra due azioni o quantomeno una sequenza logica: Gesù invita la folla a diffidare delle autorità religiose e invita a giudicare da sé fatti, eventi e persone. Oggi diremmo che Gesù invita a valutare «secondo coscienza» e quindi ad acquisire una capacità di discernimento autonomo. «Nello stesso tempo», cioè come conseguenza di questo insegnamento, l’autorità religiosa che si vede esautorata del suo potere di imporre il «volere di Dio» alle folle, e quindi il potere di manipolazione della libertà, manda ad avvertirlo che sta percorrendo una strada in discesa. Gesù deve sapere che i potenti del tempo non staranno con le mani in mano e danno «un segno»: ricordati di cosa accadde a quei diciotto Galilei facinorosi; come sono stati massacrati loro, potremmo massacrare te e i tuoi che siete anche in numero inferiore.

Gesù non ci sta e risistema la teologia. I suoi contemporanei avevano l’immagine del Messia giustiziere che viene a punire i peccati, com’è accaduto ai diciotto considerati colpevoli; infatti si ritieneva la loro morte un castigo di Dio per i peccati loro o dei loro antenati. Tra questa teologia del peccato – colpa – sanzione e gli eventi della storia c’è una certa analogia, una relazione: non c’è differenza tra un Dio che punisce i peccati e il Messia che viene a fare piazza pulita dei peccatori. Sarebbe nella logica. Ebbene, proprio in relazione a tutto questo, Gesù dà una nuova interpretazione e nel contempo annunzia la parabola del fico. In questo modo spezza la connessione di causa-effetto tra morte e peccato; tra morte e colpa. I morti non sono colpevoli, perché Dio non punisce i suoi figli che ama,  con malattie e morte.

Bisogna leggere i fatti per quello che sono. A chi guarda dall’esterno appaiono due incidenti e nulla più. Bisogna andare più a fondo e domandarsi non solo perché ciò accade, domanda inutile visto che la vita e gli uomini sono imperfetti, ma anche qual è il senso di ciò che accade. Gesù invita a scoprire il nucleo della vita che è la morte. Se non si capisce la morte si smarrisce la direzione della vita. La morte è il segno più evidente della drammatica fragilità dell’esistenza, che dovrebbe insegnarci la misura del limite: ognuno di noi può morire adesso, fra due minuti, fra un giorno, fra un anno o anche mille anni. In ogni caso ognuno di noi è sotto il segno della provvisorietà costitutiva del nostro stesso vivere e questo dovrebbe spingerci a vivere ciò che stiamo vivendo con intensità e senza perdita di tempo. Invece dovrebbe essere un’occasione per mettere a fuoco i motivi che animano la vita e le scelte.

Gesù invita alla conversione, cioè alla ristrutturazione del pensiero: conversione traduce il termine greco «metànoia», che significa «cambio di pensiero/mentalità»: quasi un andare oltre il pensiero per scoprire una dimensione «altra». In ebraico si parla di «teshuvàh», ossia di pentimento come ritorno, cioè un cambiamento di direzione. L’invito alla penitenza che Gesù fa nel vangelo di oggi partendo da due fatti di cronaca non è un invito a gesti penitenziali, cioè a sacrifici fisici o spirituali. Purtroppo abbiamo deformato il senso delle parole con una spiritualità desunta dalla mistica monastica, imprimendo alle parole un senso diverso da quello che effettivamente hanno. Il concetto di penitenza che abbiamo oggi non deriva dalla Bibbia, ma dallo sviluppo del cristianesimo nelle sue incarnazioni. Gesù non parla di pratiche penitenziali, ma della «Penitenza», che significa accettare la misura della morte che è presente in ogni avvenimento, in ogni persona, in ogni progetto fino a superare i confini della propria progettualità per immergersi nel progetto di Dio e farlo diventare proprio. La morte giunge improvvisa e ognuno di noi non è sicuro di giungere alla fine di una giornata. Noi viviamo, ma possiamo morire ad ogni istante: «Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo» (Lc 12,40).

Fare penitenza per Gesù significa accogliere la volontà del Padre come dimensione della propria vita e della propria religiosità, altrimenti si avrà una religione senza Dio e una vita senza prospettiva perché, se non si accetta la morte, sarà questa a dominare la vita. Paradossalmente, accettare la morte di ogni giorno significa svuotare la morte del senso distruttivo che ha in sé e colmarla del senso di pienezza che il progetto del Regno comporta. È qui il mistero della croce. Se siamo in grado di stare ai suoi piedi siamo in grado di affrontare la vita fino alla morte che non diventa più l’ultima parola, ma diventa quello che è: un momento della vita. Tutto ciò significa che in ogni istante dobbiamo cercare il senso di ciò che viviamo: in questo consiste «fare penitenza (conversione)» (cf vv. 3.5).

La parabola del fico è un esempio con cui Gesù spiega tutto questo nel contesto della dimensione di attesa che è proprio della natura umana e che l’evangelista Lc applica al Regno finale. Si spiega così l’attesa del padrone da parte dei servi (cf Lc 12,35), il padrone che vigila sul ladro (cf Lc 12,35-40), l’amministratore che attente il giudizio del padrone (cf Lc 12,49-50). Non solo, in questa attesa Gesù arriva con il fuoco in mano (cf Lc 12,49-50) per bruciare le scorie della storia, per cui urge riconciliarsi con i nemici perché manca il tempo (cf Lc 12,57-59). Tutto il capitolo 12 è in questa prospettiva, per  sfociare nel nostro testo che è l’invito alla grande penitenza (conversione). Dio concede ancora un supplemento di tempo, un anno di grazia, come abbiamo già visto nella sinagoga di Nàzaret (cf Lc 4,19) a commento del testo del profeta Isaia che annuncia «un anno di grazia» (Is 61,2).

La parabola del «fico infruttifero» deve essere ben contestualizzata, altrimenti se ne svia il senso. Probabilmente la parabola fu pronunciata all’inizio della vita pubblica nel contesto della predicazione iniziale, ma ben presto fu estrapolata dal suo ambito originario per essere applicata al Regno nella sua globalità. Anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008) sceglie la traduzione erronea che trae in inganno; essa traduce: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò» (Lc 13,6). Il testo greco invece dice [trad. letterale]: «Uno aveva un fico piantato nella sua vigna e venne cercando frutto in esso e non [ne] trovò». La differenza è tra «albero di fico» e «un fico» che ad occhi superficiali possono apparire uguali o almeno simili, mentre la differenza è grande. Un «albero di fico» è un albero qualsiasi senza alcuna connotazione etica; al contrario dire «Un fico piantato nella vigna» sta a significare Israele citato due volte. Il «fico» è immagine di Israele come lo è la «vigna» (Os 9,10; Ger 8, 4-13; 24,1-10). Nel profeta Geremia il riferimento è chiaro ed inequivocabile: «non c’è più uva sulla vite né fichi sul fico, anche le foglie sono avvizzite» (Ger 8,13).

Gesù, in missione a nome del Padre, viene a cercare i frutti di giustizia (cf 2Cor 9,10) in Israele, ma non trova nemmeno foglie avvizzite. Ciononostante concede un tempo supplementare, «l’anno di grazia» (Lc 4,9), per dare la possibilità a Israele di riprendere la via del deserto, la via di Osea, per ritrovare il Dio dell’amore (cf Os 2). Il tempo concesso al fico è un avvertimento: c’è poco tempo e bisogna impegnarlo tutto e fino in fondo. Le occasioni nella vita e nella grazia non si ripetono: bisogna coglierle al volo se si vuole viverla fino all’ultima goccia. L’alternativa è vivacchiare, ovvero far finta di vivere in attesa della morte come silenzio assoluto. Il riferimento ai «tre anni» senza frutto indica un tempo completo: Israele ha avuto il tempo necessario, ma non è stato sufficiente. Ora è tempo di scelte radicali, non c’è spazio per tergiversare. Concede però ancora un’ ultima occasione, forse quella decisiva.

Interessante la funzione del vignaiolo che supplica ancora un tempo di dilazione; richiama Abramo che contratta con Dio per la salvezza delle città peccatrici di Sòdoma e Gomorra: Abramo riesce a stancare Dio, ottenendo il massimo da cinquanta giusti fino a dieci, il numero minimo per costituire una comunità di preghiera (cf Gen 18,17-33). Il giusto, la persona credente, è colui che non gode del male del mondo che pure è visibile e grande, ma si pone davanti a Dio e fa scudo con la sua stessa vita per impetrare ancora «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19). Il cristiano non si limita solo alla testimonianza, ma impegna la sua vita perché Dio conceda a tutte le persone un’opportunità di discernimento e di conversione perché nulla vada perduto: «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno» (Gv 6,39).

L’Eucaristia è «l’anno di grazia» supplementare che ogni settimana il Signore ci concede per prendere consapevolezza della morte nella prospettiva della vita. Ascoltiamo e mangiamo per imparare a morire in vista della vita risorta. Il pane è fragile e la parola è tenue, segni di Dio, ma anche della vita nella sua esilità. Possiamo assaporarla se ci immergiamo nella storia per incontrare il Dio di Mosè e di Gesù Cristo nell’incontro con i fratelli e le sorelle e gli avvenimenti che li e ci riguardano. Veramente vivere è morire e morire è vivere.

Professione di Fede (rinnovo delle promesse battesimali)

Nella 3a domenica di Quaresima, sostiamo alla sorgente del nostro Battesimo e rinnoviamo le promesse della nostra fede perché il nostro cammino verso la Pasqua sia segnato dalla fede che illumina i nostri passi e le nostre decisioni, in comunione con i cristiani che oggi in tutto il mondo rinnovano la stessa professione di fede.

Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?  Credo.

Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? 

Credo.

Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna?    Credo.

 Questa è la nostra fede. Questa è la fede della Chiesa. Questa fede noi ci gloriamo di professare in Cristo Gesù nostro Signore. Amen.

Preghiera universale [Intenzioni libere]

LITURGIA EUCARISTICA

Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa liturgia trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna  a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).

Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.

Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.

[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutti della terra, della vite  e del lavoro dell’uomo e della donna; li presentiamo a te, perché diventino per noi cibo e bevanda di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore.

Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.

Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.

Preghiamo (sulle offerte). Per questo sacrificio di riconciliazione perdona, o Padre, i nostri debiti, e donaci la forza di perdonare ai nostri fratelli. Per Cristo nostro Signore. Amen.

PREGHIERA EUCARISTICA II (detta di Ippolito, prete romano del sec. II)
Prefazio della Quaresima 1: il significato spirituale della Quaresima

Il Signore sia con voi.              E con il tuo spirito.   In alto i nostri cuori.   Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.            È cosa buona e giusta.

È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.

Santo, Santo, Santo, il Signore Dio degli eserciti. Kyrie, elèison, Christe, elèison. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Christe, elèison, Kyrie, elèison!

Ogni anno tu doni ai tuoi fedeli di prepararsi con gioia, purificati nello spirito, alla celebrazione della Pasqua, perché, assidui nella preghiera e nella carità operosa, attingano ai misteri della redenzione la pienezza della vita nuova in Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore.

«L’angelo del Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco dal mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava» (Es 3,2).

E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli, ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, proclamiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:

Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene, nel Nome del Signore. Kyrie, elèison. Christe, elèison!


Padre veramente santo,  fonte di ogni santità,  santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.

«Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto…: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”» (Es 3,4-5).

Egli, offrendosi alla sua passione,  prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:  «PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:  QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI».

«Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,4-5).

Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: «PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:  QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE  PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI  IN REMISSIONE DEI PECCATI».

«Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6b). Volgeremo lo sguardo a colui che è stato trafitto (cf Gv 19,37).

«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME».

Disse il Signore a Mosè: “Io sarò colui che sono stato” (cf Es 3,14).  Siamo certi di trovare il Signore negli avvenimenti della storia.

MISTERO DELLA FEDE.

Camminiamo alla tua Presenza, Signore, condividiamo la tua morte e risurrezione, attendiamo il tuo ritorno, o Dio dei nostri Padri, di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio,  ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.

«Il Signore disse a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo… e ho udito il suo grido… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”» (Es 3,7-8).

Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo. «Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi» (Sal 103/102,6).

Ricòrdati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra:  rendila perfetta nell’amore  in unione con il Papa …, il Vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare…  e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.

Tutti fummo battezzati nella nube e nel mare, tutti mangiammo lo stesso cibo spirituale, tutti bevemmo la stessa bevanda spirituale: quella roccia era il Cristo che ci accompagnò lungo la traversata del deserto (cf 1Cor 10,2-4).

Ricòrdati dei nostri fratelli e sorelle, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione  e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.
Donaci, Signore lo Spirito di docilità perché possiamo convertirci con la forza del tuo Spirito.

Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna,  insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,  con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi:  e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.

Con l’aiuto dello Spirito del Signore Gesù, morto e risorto, porteremo frutto per l’avvenire (cf Lc 13,9).

Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]

PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO,  A TE, DIO, PADRE ONNIPOTENTE,  NELL’UNITÀ DELLO SPIRITO SANTO,  OGNI ONORE E GLORIA, PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI. AMEN.

Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

 

Avunà di bishmaià

sia santificato il tuo nome

itkaddàsh shemàch

venga il tuo regno

tettè malkuttàch

sia fatta la tua volontà

tit‛abed re‛utach

come in cielo così in terra.

kedì bishmaià ken bear‛a.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh

e rimetti a noi i  nostri debiti

ushevùk làna chobaienà

come noi li rimettiamo ai nostri debitori

kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà

e non abbandonarci alla tentazione

veal ta‛alìna lenisiòn

ma liberaci dal male.

ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione (Sal 83,4-5):  Il passero trova la casa, la rondine il nido / dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio. / Beato chi abita la tua casa: sempre canta le tue lodi.

Dopo la comunione

Da Jiddu Krishnamurti (1895-1986), La prima ed ultima libertà 

[Fonte: «Giorno per giorno», Lettera dal Barrio, Goiàs, Brasile, 17 febbraio 2007]

Krishnamurti è nato nell’India meridionale, dopo una infanzia difficile e diversi tentativi di conoscenza per arrivare a Dio, scelse di percorrere il mondo da solo, portando per sessant’anni a tutti il suo messaggio di purificazione interiore. Egli si definiva un non-maestro e affermava che la «verità è una terra senza sentieri», e  ad essa «non si perviene per un processo evolutivo, ma per una mutazione, un improvviso cambiamento». Soleva anche dire: «Voi siete esseri umani, non una nazione o un’istituzione; come esseri umani dovete combattere il potere in voi stessi. Potete infatti ribellarvi contro il potere, e poi esercitarlo sugli altri. Cominciate da voi stessi, diventate responsabili di voi stessi, cercate di scoprire se state usando un potere psicologico con le vostre idee e istituzioni. [...] Domandatevi anche se vi sentite legati ad una patria, a un certo colore sulle carte geografiche. Tutte queste cose sono disumane, e, se sono in voi, non raggiungerete la libertà e la verità».

«Per portare la pace nel mondo, per porre fine a tutte le guerre, occorre una rivoluzione entro l’individuo, in voi e in me. La rivoluzione economica non ha significato senza questa rivoluzione interiore, poiché la fame è il risultato dello scarso assestamento delle condizioni economiche determinato dai nostri stati psicologici: avidità, invidia, cattiva volontà, voglia di possedere. Per porre fine all’angoscia, alla fame, alla guerra, occorre una rivoluzione psicologica, e pochi di noi sono pronti ad affrontarla. Parleremo di pace, progetteremo leggi, creeremo nuove leghe, le Nazioni Unite e così via e così via; ma non otterremo la pace, perché non abbandoneremo la nostra condizione, la nostra autorità, il denaro, la proprietà, la nostra stupida vita. Contare sugli altri è assolutamente futile; gli altri non ci porteranno la pace. Nessun capo ci darà la pace; nessun governo, nessun esercito, nessun paese. Ciò che porterà la pace è una trasformazione interiore che comporterà un’azione esteriore. La trasformazione interiore non è l’isolamento, non è ritrarsi dall’azione esterna. All’opposto, vi può essere azione retta soltanto quando vi è retto pensare, e non vi sarà retto pensiero se non vi sarà conoscenza di sé. Senza conoscere noi stessi, non vi sarà pace. Per porre fine alla guerra esteriore, dovremo cominciare a porre fine alla guerra entro noi stessi. Qualcuno, fra noi, assentirà dicendo “Sono d’accordo”, e uscirà di qui e farà esattamente la stessa cosa che ha sempre fatto da dieci o vent’anni. Il vostro accordo è puramente verbale e non ha significato, poiché le miserie e le guerre del mondo non verranno certo impedite dal vostro annuire casuale. Vi porrete fine soltanto quando vi renderete conto del pericolo, vi renderete conto della vostra responsabilità, quando non la lascerete a qualcun altro. Se vi renderete conto della sofferenza, se vedrete l’urgenza di un’azione immediata e non rimanderete, allora vi trasformerete; la pace verrà soltanto quando voi stessi sarete in pace col vostro vicino».

Preghiamo. O Dio, che ci nutri in questa vita con il pane del cielo, pegno della tua gloria, fa’ che manifestiamo nelle nostre opere la realtà presente nel sacramento che celebriamo. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Benedizione e saluto finale

Il Signore che ha convocato Mosè davanti al roveto ardente sia con noi ora e sempre,     Amen.

Il Signore che ha rivelato il suo Nome a Mosè sull’Oreb, ci sveli il suo Volto.

Il Signore che ci chiama alla coscienza della provvisorietà, ci doni la sua Pace.

Il Signore che inviò Mosè a liberare il suo popolo, ci liberi da ogni impedimento,

Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci.

Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.

Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolarci.

E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio

e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                   Amen!

La messa come rito «è compiuta» nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia.

Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.

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© Domenica 3a di Quaresima–C. Parrocchia di S. M. Immacolata e San Torpete – Genova

L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica.

Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete  – Genova Paolo Farinella, prete 3/03/2013

 

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NOTE

[1] Trattato Pirqè ‘Avot/Le massime dei Padri V, 6.

[2] Si chiama anche «sacro tetragramma» perché è composto da quattro lettere «Y_H_W_H» che in ebraico corrispondono a quattro consonanti. Poiché la diaspora portava in sé il rischio di perdere la pronuncia dell’ebraico, considerato «lingua sacra», dal sec. VIII al sec. XI d. C., quindi in pieno Medioevo, sorse un movimento per la preservazione  e la custodia della Bibbia ebraica secondo la tradizione antica. Sorgono i «Masoreti (in ebr.: ba’alei hamasorah – signori della tradizione». Essi misero le vocali sotto le consonanti per fissarne definitivamente la pronuncia corretta. Al nome «Yhwh» non misero le vocali proprie, ma quelle della parola «Adonai» che significa «Signore» in senso generico. Ogni Ebreo e conoscitore dell’ebraico sa che leggendo la Bibbia, ogni volta che si arriva al «santo tetragramma», gli occhi leggono «Yhwh», ma la bocca pronuncia «Adonai».

[3] I «Nomi» alternativi di YHWH. Ancora oggi non sappiamo come si pronuncia il santo tetragramma Yhwh che solo per convenzione pronunciamo Yawèh. Ecco alcuni dei «Nomi» con cui l’Ebreo chiama Dio: Adon ’Olam – Signore [=Creatore] del Mondo; Adonai – Signore; Avinu Malkeinu – Nostro Padre/ Nostro Re; Boré – Creatore; Chai ha-Chaìm – Vita della vita;  Chài olamìm – Colui che vive sempre/Colui che dona la vita ai mondi; Chassìd –Pieno di Grazia; Deòt ha-Shèm – Nome della conoscenza; Ehàd – Uno; Ein Sof – l’Infinito; El Chài – Dio vivente; El –Dio (forma sintetica dei due precedenti);  El Mèlech Neemàn – Dio, Re Fedele (acrostico di «AMEN»); El Shadday/Onnipotente; Eliòn –Altissimo; Elionìm vetachtonìm – Colui che sostiene la parte superiore ed inferiore del mondo; Elòha/Elhà – Dio (forma singolare); Elohìm – Dei (forma plurale di Elòha); Èlokim – Dio vero/Dio Verità; Èmet – Verità; Goalènu – Nostro Redentore/Nostro Liberatore; HaKadòsh BarùchHu – Il Santo e Benedetto/Il Santo, Benedetto Egli sia; Kabòd – Gloria; Kol – Tutto; Lebanòn – Libano (per i cedri del tempio); Maghèn – Scudo; Maqòm – Luogo; Melech Ha-‘Olam – Re del Mondo/Eterno; Memràh – Parola; ‘Olam/Mondo; Rachamanàn o Harachamàn/Clementissimo o Misericordioso; Shabbat – Sabato; Shalom – Pace (in senso pieno e totale); Shalòm–Pace; Pashtùt – Semplicità; Shekinàh – Dimora/Presenza; Yah (abbreviazione del Tetragramma Yhwh); Zaddik – Giusto.

[4] Es 34,6-7: «6Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, 7che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”».

[5] Cf G. Martelet, «Sacrement, figure et exhortation en 1Cor 10,1-10», in Rech Sc Rel 1956, 322-359; 515-559; F. Manns, Le symbole eau-Esprit dans le Judaïsme ancient,  Fanciscan Printing Press, Jerusalem 1983, 257-258.

[6] Oggi è localizzata oltre il golfo del Mar Rosso nell’attuale Giordania. Il deserto è il rifugio naturale e ideale di coloro che hanno problemi con la giustizia; costoro spesso si mettono insieme formando delle bande di predoni che assaltano le carovane o i centri abitati ai margini dello stesso deserto. L’età dell’esodo è fissata approssimativamente intorno al 1250-1220 a.C. ca., alla fine del neolitico.

[7] In questo contesto «territoriale» della divinità si capisce il racconto di 2Re 5,14-17, dove si narra di Naaman il siro che venne guarito dalla lebbra dal profeta Eliseo. Naaman, dopo la guarigione, chiede al profeta di portarsi via una bisaccia di terra; questo era come trasferire il territorio del Dio d’Israele. Salendo sopra quella terra sarebbe stato come se fosse in Israele, infatti  solo «sulla terra d’Israele» poteva pregare il Dio che lo aveva guarito. È lo stesso principio che soggiace all’uso musulmano di usare il tappetino per la preghiera.




Martedì 26 Febbraio,2013 Ore: 18:47
 
 
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