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www.ildialogo.org Dossier sulla vicenda Napolitano-Tribunale di Palermo,a cura di Josè F. Padova

Dossier sulla vicenda Napolitano-Tribunale di Palermo

a cura di Josè F. Padova

Dossier sulla vicenda Napolitano-Tribunale di Palermo


La Repubblica, sabato 26 gennaio 2013
LE SENTENZE SUICIDE
Franco Cordero
Le chiamavano «sentenze suicide». Capitava nelle vecchie corti d'assise, dove le questioni in fatto erano risolte dalla giuria, e può ancora avvenire che decisioni d'un collegio misto, imposte dai componenti senza toga, siano motivate in tal modo da nascere morte, solo che qualcuno le impugni. Rispetto alla Consulta manca un giudice ad quem ma Nómos è Basiléus: la legge vale più del re, sebbene quest'ultimo disponga della forza e in dati contesti i sudditi siano armento docile; finché esistano lettori pensanti, abbastanza indipendenti da manifestare i pensieri, la decisione contro le norme resta prodotto anomalo. Ne abbiamo una sotto gli occhi. Dialoghi del Presidente con un intercettato stanno sui nastri. Il Quirinale pretendeva che il pubblico ministero li incenerisse nel più ermetico segreto. Con una variante (l'atto riparatore compete al giudice), la Corte gli rende ossequio, a prima vista. Nove fluenti paragrafi spiegano che figura singolare sia l'uomo al vertice: stimola, frena, orienta, coordina, equilibra, modera «i poteri dello Stato», anche tra le quinte, in via informale; e quest'indefinito influsso implica scambi verbali riservati, l'«assoluta protezione» dei quali va letta in filigrana nella Carta, dove non se ne parla; Dio sa come, però, il silenzio gli conferisce la qualità d'«inviolabile», quali erano i monarchi, anche se agisse fuori delle sue funzioni. Supponiamo che un pirata insediato sul Colle discuta d' affari poco edificanti (narcomercato, prostituzione et similia): commette delitti giudicabili, fermo restando che i dialoghi siano tabù (l'attuale capo dello Stato va oltre, postulando un'immunità processuale durante l'ufficio); e il divieto vale rispetto alla persona, assolutamente, anche se l'ascolto fosse casuale, nel colloquio con l'intercettato.
Così, volando sull'inespresso, la Corte individua un divieto istruttorio: prove raccolte nello spazio interdetto non sono acquisibili; e siccome i nastri esistono, bisogna disfarsene. Il pubblico ministero li riteneva inutili, quindi avrebbe chiesto al giudice d'obliterarli; in qual modo, lo dicono regole codificate (artt. 268, 269, 271 c. p. p.), una delle quali, capitale, esige il contraddittorio: può darsi che i reperti risultino importanti nel caso de quo o altrove; e gl'interessati devono potervi interloquire. Nossignori: tale conciliabolo svelerebbe quod infandum est, mandando in fumo la prerogativa. Provveda il giudice, da solo. Se accogliamo premesse sospese nel vuoto, la conclusione appare coerente. L'insuperabile difficoltà sta nell' accordare una presunta norma («assoluta protezione» dell'augusta parola e relativi corollari) con tre testi molto visibili: «La difesa è diritto inviolabile» (art. 24 Cost.); l'art. 110 impone il contraddittorio; e definendo obbligatoria l'azione penale, l'art. 112 esclude che siano virtuosamente liquidati reperti d'un delitto perseguibile.
La chiamavano sentenza suicida. Dopo tanto impegno oratorio, la contraddizione sopravviene nelle ultime quattro, righe. Il giudice ascolti i nastri, indi deliberi, considerando «l'eventuale esigenza d'evitare il sacrificio d'interessi riferibili a principi costituzionali supremi». e ne indica tre: vita, libertà personale, Res publica servanda; in tali «estreme ipotesi» adotti «le iniziative consentite dall'ordinamento». Formula evasiva ma quali siano, è presto detto: l'empio materiale confluisce nel processo, in barba all'«inviolabilità»; era fiato al vento l'arringa pro rege. Alla fine salta fuori Nómos Basiléus, più forte dell'ossequio al rex, e qui la Corte incappa nella seconda contraddizione postulando un giudice imbevuto dello Spirito santo, i cui responsi nascano giusti. Supponiamo che ordini l'incenerimento dei nastri: deve motivarlo; e come, se non sappiamo cosa contenessero? Che la distruzione non offenda interessi tutelabili, è da stabilire nel vaglio dei dati, criticamente: la sua parola non basta; può darsi che fosse disattento o abbia mente corta o renda servizi al rex; l'unico meccanismo che garantisca conclusioni relativamente sicure è il contraddittorio, eretto a requisito indefettibile dall'art.111 Cost. Sono anticaglie le mistiche dell'organo onnisciente. Da Nicola Toppi, storico dei tribunali napoletani, sappiamo come se ne parlasse anno Domini 1655: i sacerdoti operano su materie sante, e così noi perché «leges sunt sacratissimae»; infatti, l'uomo in toga appare grave, severo, incorruttibile, «inadulabilis», «terrificus» verso i malfattori. Nel tredicesimo anno del ventunesimo secolo non è seriamente pensabile che la parola nuda tronchi questioni forse decisive, essendo negata ai contraddittori la cognizione dei fatti. Quando Ferdinando IV, Borbone napoletano, guidato dal vecchio ministro Bernardo Tanucci, impone sentenze rudimentalmente motivate (prammatica reale 27 settembre 1774), gl'interessati insorgono: la giurisdizione è affare esoterico; un malaugurato pubblico rendiconto la dissacra. Sua Maestà ribatte e i rimostranti ammutoliscono ma negli anni novanta una monarchia reazionaria revoca l'editto (la regina e Maria Antonietta sono sorelle).
Documenti simili non diventano precedente autorevole. L'illustre consesso ha spiccato un salto indietro nei secoli: torniamo al monologo inquisitorio; e non lo rendono meno repellente i sentori d'una pesante Ragion di Stato. L'unica via d'uscita (interlocutoria) è sollevare la questione di legittimità costituzionale. Letto senza contorsioni, l'articolo 271 c. p. p. non ha niente d'eccepibile ma la Corte impone d'applicarlo in versione arbitraria, violando tre norme d'alto rango; esca dall'equivoco sciogliendo le contraddizioni. Era prevedibile che quello sciagurato conflitto costasse caro. Non se sentiva il bisogno, tanto meno quando l'ex padrone del governo offre futuri voti al candidabile quirinalesco, purché gli garantisca un salvacondotto penale.

“La Repubblica, 8 (?) febbraio 2013
Ordine del gip. Ma Ciancimino jr fa ricorso


Intercettazioni Colle-Mancino

Lunedì la distruzione dei nastri

Alessandra Ziniti

PALERMO —Il giorno fissato per la distruzione è lunedì, ma un ricorso dell'ultima ora di Massimo Ciancimino potrebbe ancora rinviare la definitiva eliminazione delle intercettazioni delle telefonate tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il senatore Nicola Mancino, custodite in un fascicolo stralcio del processo perla trattativa Stato-mafia.

Ieri il gip di Palermo Riccardo Ricciardi, aderendo alla sentenza della Corte costituzionale che ha risolto il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale dando ragione alle istanze del Colle contro quelle della Procura di Palermo, ha convocato per lunedì l'esperto informatico incaricato di eliminare i file con la voce di Napolitano dal server in cui sono conservate. Secondo il giudice che ha ascoltato le quattro telefonate tra Napolitano e Mancino, «si è evidenziata l'assenza nel loro contenuto di riferimenti ad interessi relativi a principi costituzionali supremi che possono essere pregiudicati dalla distruzione delle registrazioni».

Un decreto al quale si oppongono ora i difensori di Massimo Ciancimino, imputato nel processo per la trattativa, che avevano chiesto al gip di poter ascoltare le intercettazioni per valutare se contengano elementi utili alla difesa. Ieri, contemporaneamente al decreto con cui dispone la distruzione delle intercettazioni, Ricciardi ha respinto la richiesta dei difensori di Ciancimino che hanno annunciato un immediato ricorso in Cassazione. Un'iniziativa che potrebbe sospendere la procedura di distruzione. Se infatti i file con le telefonate venissero cancellati lunedì, l'eventuale decisione dei supremi giudici di accogliere l'impugnazione dei legali e di riconoscere loro il diritto di sentire le telefonate sarebbe vanificata. Il gip potrebbe dunque nelle prossime ore decidere di sospendere il suo decreto in attesa della pronuncia della Cassazione.


“La Repubblica”, 12 febbraio 2013
Trattativa Stato-mafia. Si doveva dare corso oggi al provvedimento, ma il ricorso in Cassazione di Ciancimino ha fermato tutto

Intercettazioni di Napolitano, slitta la distruzione

Salvo Palazzolo

PALERMO — Un ricorso in Cassazione di Massimo Ciancimino, testimone e imputato del processo "Trattativa", fa slittare ancora una volta la distruzione delle intercettazioni fra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l'ex ministro Nicola Mancino. Dopo la decisione della Corte Costituzionale, gli avvocati Roberto D'Agostino e Francesca Russo avevano presentato un'istanza al gip incaricato di procedere alla distruzione: Massimo Ciancimino chiedeva di poter ascoltare quei dialoghi, per valutare «eventuali elementi perla sua difesa». Ma il giudice Riccardo Ricciardi aveva rigettato l'istanza. Venerdì scorso, il magistrato aveva così disposto la distruzione delle quattro conversazioni finite agli atti dell'inchiesta sulla trattativa mafia-Stato. Un provvedimento, come disposto dalla Consulta, adottato al di fuori di un' udienza e senza la partecipazione di alcuna parte. «Nelle conversazioni — ha scritto il giudice— si rileva l’assenza di riferimenti a interessi relativi a principi costituzionali supremi che possono essere pregiudicati dalla distruzione delle registrazioni». Espressione giuridica per ribadire che in quelle telefonate non c'è nulla che possa pregiudicare il diritto di difesa di Ciancimino.

Ieri, il tecnico della società Rcs nominato dal gip per cancellare le telefonate dal server della Procura di Palermo era pronto a completare l'incarico. Ma i difensori di Ciancimino hanno presentato ricorso in Cassazione contro il diniego del giudice Ricciardi. E così la cancellazione è stata rinviata, almeno di un mese, in attesa della decisione della Suprema Corte.

Mia nota: e così, per il malato senso di «lesa maestà» del Capo dello Stato, la Cassazione si troverà di fronte al medesimo dilemma. Se poi desse ragione, in termini di diritto, all’impugnazione Ciancimino, ne uscirebbe un magnifico conflitto istituzionale con la Corte Costituzionale (in questa occasione, piuttosto prona). Potrebbe darsi che la Cassazione dilazioni la sua sentenza in attesa che il Napolitano sgomberi la poltrona. La frittata, comunque, è fatta.
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Codice di procedura penale della Repubblica Italiana
268 Esecuzione delle operazioni
1. Le comunicazioni intercettate sono registrate e delle operazioni è redatto verbale.

2. Nel verbale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate.

3. Le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica (90 att.). Tuttavia, quando tali impianti risultano insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza, il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria.

3 bis. Quando si procede a intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche, il pubblico ministero può disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti a privati .

4. I verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pubblico ministero. Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, essi sono depositati in segreteria insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l`intercettazione, rimanendovi per il tempo fissato dal pubblico ministero, salvo che il giudice non riconosca necessaria una proroga.

5. Se dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura delle indagini preliminari.
6. Ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato a norma dei commi 4 e 5, hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche. Scaduto il termine, il giudice dispone l`acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, indicate dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l`utilizzazione. Il pubblico ministero e i difensori hanno diritto di partecipare allo stralcio e sono avvisati almeno ventiquattro ore prima .

7. Il giudice dispone la trascrizione integrale delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, osservando le forme, i modi e le garanzie previsti per l`espletamento delle perizie. Le trascrizioni o le stampe sono inserite nel fascicolo per il dibattimento .

8. I difensori possono estrarre copia delle trascrizioni e fare eseguire la trasposizione della registrazione su nastro magnetico. In caso di intercettazione di flussi di comunicazioni informatiche o telematiche i difensori possono richiedere copia su idoneo supporto dei flussi intercettati, ovvero copia della stampa prevista dal comma 7.

269 Conservazione della documentazione
1. I verbali e le registrazioni sono conservati integralmente presso il pubblico ministero che ha disposto l`intercettazione.
2. Salvo quanto previsto dall`art. 271 comma 3, le registrazioni sono conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione. Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza, al giudice che ha autorizzato o convalidato l`intercettazione. Il giudice decide in camera di consiglio a norma dell`art. 127.
3. La distruzione, nei casi in cui e prevista, viene eseguita sotto controllo del giudice. Dell`operazione è redatto verbale.

270 Utilizzazione in altri procedimenti
1. I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l`accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l`arresto in flagranza (380) .
2. Ai fini della utilizzazione prevista dal comma 1, i verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono depositati presso l`autorità competente per il diverso procedimento. Si applicano le disposizioni dell`art. 268 commi 6, 7 e 8.
3. Il pubblico ministero e i difensori delle parti hanno altresì facoltà di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento in cui le intercettazioni furono autorizzate.

271 Divieti di utilizzazione
1. I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 commi 1 e 3.
2. Non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni delle persone indicate nell`art. 200 comma 1, quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati.
3. In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato (253).

Art. 200
(Segreto professionale)
1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria:
a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano;
b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai(1);
c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;
d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.
2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga.
3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell'albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell'esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni.

Dispositivo dell'art. 271 Codice di Procedura Penale

FontiCodice di Procedura PenaleLIBRO TERZO - ProveTitolo III - Mezzi di ricerca della prova (Artt. 244-271) Capo IV - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni

1. I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati [191] qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli articoli 267 e 268 commi 1 e 3.
2. Non possono essere utilizzate [191] le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni delle persone indicate nell'articolo 200 comma 1 (1), quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati [103] (2).
3. In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato[253 2].

Note

(1) Sono i ministri di confessioni religiose, gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici, i notai, i consulenti del lavoro, i geometri, i ragionieri e, commercialisti, i medici, i chirurghi e i farmacisti, tutti coloro che svolgono una professione sanitaria ed ogni altro al quale la legge conceda la facoltà del segreto professionale [v. 202].

(2) L'eccezione al divieto di utilizzazione è costituito da un'eventuale testimonianza resa sugli stessi fatti oggetto delle conversazioni ovvero dalla divulgazione avvenuta attraverso i mezzi di comunicazione. La stessa eccezione è contenuta al comma 7 dell'art. 103.


MICROMEGA, 10 DICEMBRE 2012

Ingroia: “Povera Italia… La sentenza è un pasticcio politico. Legittimo criticare la Consulta”

Con questo articolo Antonio Ingroia apre oggi il suo blog su MicroMega – "Partigiani della Costituzione" – spiegando la sua dura critica alla decisione con la quale la Corte Costituzionale ha dato ragione al Quirinale nel conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo.

di Antonio Ingroia

Apro oggi un blog da quaggiù, in Guatemala, terra difficile ed assai lontana dal Paese cui ho dedicato la mia vita, per una semplice ragione. Sento l'esigenza di far sentire la mia voce. Anche per non darla vinta a quelli che pensavano di essersi liberati di me col mio trasferimento in America Centrale...

Perché questo titolo? Perché "Partigiani della Costituzione"? Per tante ragioni.
In primo luogo, perché mi piace ricordare quei partigiani che hanno fatto la democrazia nel nostro Paese e che per combattere meglio la loro battaglia per la libertà scelsero di fare resistenza lontano dalle loro città. Andarono in montagna. Ed io sto qui, sull'altopiano dove sorge Città del Guatemala.
In secondo luogo, per ribadire la mia non neutralità. Io sono stato ed ancora mi sento, anche se nel diverso ruolo di funzionario dell'ONU, magistrato indipendente, ma rispetto ai valori non sono neutrale. Sarò sempre dalla parte dei principi di giustizia e di eguaglianza. Partigiano in nome del diritto. Ed il diritto è il regno del giusto, non dell'opportuno.
In terzo luogo, perché mi sento partigiano della Costituzione, come ho più volte rivendicato pubblicamente. Dalla parte della Costituzione, dei suoi principi fondamentali e dei suoi valori fondanti.

Già, la Costituzione. E quale miglior modo per aprire questa mia rubrica da "partigiano della Costituzione", quale miglior modo per ricordare la mia fedeltà alla Costituzione, che spiegando la mia critica, anche aspra, nei confronti della recente decisione con la quale la Corte Costituzionale, custode della Costituzione, ha dato ragione al Presidente Napolitano nel conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo? C'è chi si meraviglia, autorevoli esponenti delle istituzioni e perfino la magistratura associata. Perché – dicono – la Corte Costituzionale non si tocca, non può essere criticata. Mi chiedo dove sta scritto. Il diritto di critica deve poter essere liberamente esercitato nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione. Guai se non si consentisse il legittimo diritto di critica nei confronti di qualsivoglia provvedimento giudiziario, compresi quelli della Corte Costituzionale. Altra cosa, ovviamente, sono le invettive e gli insulti delegittimanti spesso piovuti addosso alle magistrature di ogni ordine e grado. Ma non confondiamo le due cose. Perché, altrimenti, si corre il rischio che il cliché dell'invettiva berlusconiana contro i provvedimenti giudiziari a lui non congeniali venga equiparato con ogni forma legittima di esercizio del diritto di critica, a discapito della libertà di espressione. Guai a trarre dall'abuso del diritto argomenti per limitare l'esercizio legittimo del diritto.

E poi: non cambiamo le carte in tavola. Chi è stato (ingiustamente) accusato di avere violato la legge, addirittura ledendo le prerogative della più alta carica dello Stato, sono i magistrati della Procura di Palermo, non i giudici della Consulta. E chi ha sollevato il conflitto fra poteri, accendendo il fuoco delle polemiche che ne è conseguito e si è propagato, non è stata certamente la Procura di Palermo...

E che dire di chi oggi, ringalluzzito dal tenore di un contraddittorio e parziale comunicato stampa della Corte costituzionale, pretende ancora di impartire lezioni di diritto costituzionale e di procedura penale ad alcuni fra i più illustri studiosi della materia come Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero ed Alessandro Pace? Ebbene, questi commentatori, alcuni dei quali giuristi improvvisati (siano o meno laureati in giurisprudenza poco importa) che rivelano scarsa dimestichezza con codici e Costituzione, oggi discettano sulle prime pagine di autorevoli quotidiani delle cantonate di cui si sarebbero resi responsabili i magistrati palermitani. Ignorando, fra le altre cose, che il meccanismo che la Corte vorrebbe applicarsi alle intercettazioni indirette del Presidente della Repubblica, e cioè la distruzione immediata senza il contraddittorio delle parti, non è in alcun modo previsto dalla legge, avendo la Suprema Corte di Cassazione più volte ribadito che anche l'ormai famigerato art. 271 del codice di procedura penale (peraltro applicabile solo a ministri di culto, avvocati, ed altre categorie professionali ben distinte dal Capo dello Stato) impone che le intercettazioni illegittime, prima della distruzione, vengano depositate a disposizione delle parti.

Il risultato è dunque che la decisione della Corte non ha risolto affatto il problema ed il GIP che verrà investito dalla Procura di Palermo sarà punto e a capo, perché la Consulta non è intervenuta in alcun modo sulla legge, com'era invece necessario. Ha invece soltanto dato ragione, platealmente, al Capo dello Stato, per bacchettare altrettanto platealmente la Procura di Palermo. Ma che farà il GIP, visto che il vuoto legislativo che già c'era è rimasto? Dovrà tornare alla Corte Costituzionale sollevando stavolta la questione di legittimità costituzionale perché la Consulta questa volta intervenga con le regole del diritto, e non con una decisione "politica". Un vero pasticcio che poteva essere evitato...

Ma di questo nessun "autorevole" commentatore sembra finora essersi reso conto. Sono tutti troppo presi dal suonare le fanfare. Così frastornati che c'è chi sembra non saper distinguere ancora oggi le intercettazioni accidentali dalle intercettazioni dirette. Provavo a spiegare ieri il "nostro" conflitto di attribuzioni ad un alto magistrato dell'America Centrale. Ebbene, perfino in Guatemala è ben chiara la differenza fra le intercettazioni dirette nei confronti di una persona, quando cioè si mette sotto controllo un suo telefono (ovviamente vietato nei confronti del presidente della Repubblica), e le intercettazioni accidentali, quando cioè sotto controllo è il telefono di altra persona che, appunto, accidentalmente telefona al Capo dello Stato. In Guatemala la distinzione è chiarissima, in Italia no. Povera Italia...

(6 dicembre 2012)


“la repubblica”, 6 dicembre 2012, pag. 35

LA GEOMETRIA DEL DIRITTO

Franco Cordero

Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell'ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall'estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s'intravedono fondi cupi della recente storia d'Italia. Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l'oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l'esito favorevole all'attore, tale conclusione non essendo motivabile nell'ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.

La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell'art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l'inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l'augusto beneplacito. Idem quando l'incauto conversatore s'infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l'arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d'ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre the President in preda all'alcol collutta con un'amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell'art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M'ero permessa una citazione dalle avventure d'Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l'«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l'Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera. La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d'ancien régime., gli negano l'immunità processuale che, senza fondamento, l'attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l'autore dell'omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d'esumarli.

I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull'art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L'art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l'ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d'atti giudiziari). L'art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l'unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l'ombra. Pour cause i comunicanti tacciono sull'art. 7,1. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l'intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all'intercettazione mirata (le distingue l'art. 61.20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).

In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l'immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl'interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disant inviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L'art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio . Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d'utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c. 3, dov'è ovvio il rinvio all'art. 269,c. 2, sull'udienza camerale, art. 127). Supponiamo che N stia scontando l'ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l'inverso, che costituiscano notitia criminis: va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio. Ormai sa d'ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l'evento pesa in sede culturale e politica. Era l'ultimo accidente augurabile all'Italia devastata dai quasi vent'anni d'egemonia berlusconiana.


Conflitto Quirinale-Procura di Palermo

Non siamo tutti uguali davanti alla legge: le prerogative di Re Giorgio

ARTICOLI CORRELATI

di Paolo Becchi*, da byoblu.com

La Corte si è schierata a favore delle “prerogative” di Re Giorgio. Questo è il verdetto della Consulta, espresso per ora in un breve «comunicato stampa»[1], in attesa del deposito delle motivazioni. Ciò non ha, tuttavia, impedito ad Eugenio Scalfari di spiegare le ragioni giuridiche della decisione della Corte, nell’editoriale pubblicato su “La Repubblica” (E. Scalfari, Le ragioni del diritto, 5-12-2012). Senza neppure che siano state ancora pubblicate – e, presumibilmente, redatte (sono previste, infatti, per Gennaio 2013) – le motivazioni della Consulta, Scalfari svela quello che, a suo dire, sarebbe stato l’iter argomentativo della Corte, a difesa delle “ragioni del diritto” e di Re Giorgio contro i «fascisti di sinistra» che avrebbero preteso di ledere le sue prerogative regali. Pardon, repubblicane, naturalmente…

La tesi di Scalfari, in breve, è la seguente. La Corte avrebbe stabilito che le intercettazioni devono essere immediatamente distrutte in forza della previsione dell’art. 271 del codice di procedura penale che dispone questo trattamento per gli avvocati e per tutti i casi analoghi che prevedano l'assoluta segretezza delle notizie connesse alla loro professione. Le prerogative del Capo dello Stato, scrive Scalfari, avrebbero pertanto «la stessa natura e quindi lo stesso grado di protezione che non deriva soltanto dall'articolo 271 ma dalla stessa Costituzione».

Secondo Scalfari, la Corte avrebbe indicato come la richiesta del Capo dello Stato di distruzione delle intercettazioni sarebbe stata giustificata non soltanto da disposizioni «ricavabili dall’ordinamento costituzionale e giudiziario», ma anche da «specifica normativa», ossia quella dell’art. 271 c.p.p. Ciò confuterebbe, pertanto, la tesi della Procura di Palermo (Messineo – Ingroia) secondo la quale «non esisteva alcuna norma specifica in materia» e che non poteva essere, di conseguenza, compito dei magistrati quello di «cimentarsi con interpretazioni ardue e comunque dubitabili».

La tesi di Scalfari è dunque la seguente:
a. i Pubblici Ministeri avrebbero tentato, sostenendo l’inesistenza di norme specifiche in materia di intercettazioni del Capo dello Stato, di far valere soltanto «la norma che prevede per la distruzione di intercettazioni non rilevanti ai fini processuali in un'udienza davanti al Gip insieme alle parti interessate e ai loro avvocati. Il che ovviamente equivale a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione»;
b. il comunicato della Corte «stabilendo invece che una specifica norma esiste, spazza via il ragionamento della Procura di Palermo con un effetto ulteriore e definitivo: la sua sentenza si affianca e addirittura si sovrappone all'articolo 271 rendendone esplicita l’applicabilità anche al Capo dello Stato».

Queste tesi sono, a mio avviso, contraddittorie ed infondate, per una serie di ragioni che – scusandomi anticipatamente per la “cavillossità” cui mi esporrò – ritengo qui di dover precisare.

Anzitutto, a scanso di equivoci, diciamo che la sentenza della Corte non ha avuto ad oggetto l’interpretazione costituzionale dell’art. 271 c.p.p., ma un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. In altri termini, la Corte non è stata chiamata a verificare il dettato dell’art. 271 c.p.p. e la sua eventuale illegittimità costituzionale. Diversamente, si è dovuta unicamente esprimere sul quesito se la Procura di Palermo avesse agito in conflitto con le prerogative del Capo dello Stato di cui all’art. 90 Cost. oppure no.

Ma veniamo in ogni caso all’art. 271 c.p.p.. La disposizione è citata nel comunicato della Corte, la quale scrive che alla Procura «neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, c.p.p.». Il riferimento è al comma 3 dell’articolo, il quale si limita a prevedere che «in ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato». Cosa significa allora che alla Procura non spettava di omettere di chiedere al giudice la distruzione? Significa, probabilmente, che la Procura non avrebbe potuto seguire, per la distruzione delle intercettazioni, la procedura prevista in caso di «intercettazioni inutilizzabili», ossia la procedura prevista proprio per i casi di cui all’art. 271 commi 1-2 c.p.p.

La legge distingue due ipotesi di intercettazioni che debbono essere distrutte: quelle «non necessarie» (art. 269 c.p.p.) e quelle «inutilizzabili» (art. 271 c.p.p.). Diverse sono, tuttavia, le modalità stabilite per la procedura di distruzione. Nel primo caso (art. 269 c.p.p.), gli interessati possono chiederne la distruzione, a tutela delle riservatezza, al giudice che ha autorizzato o convalidate l'intercettazione, ed egli decide in camera di consiglio. Per quanto riguarda invece le «intercettazioni inutilizzabili», l’art. 271 c.p.p. (cui Scalfari si richiama), indica il giudice competente ad ordinare la distruzione, ma non stabilisce espressamente la procedura che occorre seguire. Ciò si spiega, secondo la consolidata giurisprudenza (Cass. sez. II, 26 maggio 2009, n 25590), con il fatto che «la questione della inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita è una questione processuale che va risolta secondo le regole ordinarie». Ove, pertanto, su di essa sorga contestazione davanti al GIP, la procedura che egli deve seguire non può che essere, anche in tal caso, quella camerale, «l’unica in grado (in questa fase) di garantire il più ampio contraddittorio fra le parti e dal quale non si può prescindere stante la particolare rilevanza ed importanza della decisione che il giudice deve assumere».

Questa è, allo stato, l’interpretazione consolidata in giurisprudenza in relazione alle modalità di distruzione delle intercettazioni di cui all’art. 271 c.p.p. Ed è su questo punto che la Consulta è intervenuta, affermando che, per quanto ri-guarda le intercettazioni del Capo dello Stato, la Procura non avrebbe potuto seguire quel procedimento, ossia seguire proprio quanto disposto dall’art. 271 c.p.p.. Per questa ragione la Corte specifica, nel comunicato, che la Procura avrebbe dovuto richiedere la distruzione «con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti». La Consulta ha, in questo senso, accolto la richiesta di Napolitano, il quale, nel ricorso, aveva infatti osservato che lo svolgimento di un’udienza per ottenerne l’acquisizione o la distruzione non sarebbe stato «applicabile alla fattispecie, perché produrrebbe un grave vulnus alle prerogative del Presidente della Repubblica, operando senza tenere di esse alcun conto e alterando in concreto e in modo definitivo la consistenza dell’assetto dei poteri previsti dalla Costituzione».

In altri termini: Napolitano ha ottenuto che l’art. 271 c. 3 c.p.p. – nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Cassazione – non trovasse applicazione nei suoi confronti, in quanto un’udienza per decidere sulla distruzione o meno delle intercettazione sarebbe stata lesiva delle sue “prerogative”. Scalfari sostiene invece l’opposto, ossia che le prerogative del Capo dello Stato avrebbero trovato copertura nella specifica normativa di cui all’art. 271 c.p.p. Anche qui, occorre distinguere:

a. un conto è sostenere che l’inutilizzabilità delle intercettazioni riguardanti il Presidente della Repubblica si giustifichi, oltre che in forza dell’immunità prevista dall’art. 90 Cost., anche ai sensi dell’art. 271 commi 1 e 2 c.p.p. (i quali tutelano le intercettazioni di professionisti su fatti appresi nell’esercizio della loro attività);
b. un altro è sostenere che la Consulta abbia “smentito” la tesi della Procura di Palermo – secondo la quale non esisteva una disciplina specifica per la eventuale distruzione delle intercettazioni del Capo dello Stato inutilizzabili – facendo applicazione dell’art. 271 c. 3 c.p.p.

Presumibilmente, è avvenuto proprio il contrario. La Corte, cioè, dovrà probabilmente sostenere che l’immunità del Capo dello Stato non consente di ricorrere, per la distruzione delle intercettazioni dirette o indirette di sue conversazioni, al procedimento che l’art. 271 c. 3 c.p.p. richiama.

Questa precisazione sembra poco interessante, ma in realtà svela l’autentico problema che era in gioco nel conflitto deciso dalla Consulta. Era, infatti, molto probabile, se non certo, che la Corte Costituzionale avrebbe dichiarato che il Capo dello Stato non può essere intercettato, né direttamente né indirettamente (ne avevo già parlato in un intervento a Luglio, Napolitano vuole distruggere le prove). Ciò che era in questione era, tuttavia, come le intercettazioni già acquisite andassero distrutte. E questo Scalfari lo spiega bene: se si fosse seguita la procedura dell’art. 271 c. 3 c.p.p., si sarebbe dovuta tenere un’apposita udienza, nel contradditorio tra le parti. E, come Scalfari fa notare, ciò sarebbe, di fatto, equivalso «a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione».

È proprio questo che si è evitato. E lo si è evitato cancellando l’applicabilità dell’articolo al Capo dello Stato. Perché non gli è applicabile? A questa domanda la Corte risponderà solo con il deposito delle motivazioni. Certo è che, contrariamente a quanto scrive Scalfari, siamo davanti non all’applicazione di una norma ordinaria al Capo dello Stato ma, al contrario, ad una deroga particolare di quella norma a favore delle “prerogative” del Presidente della Repubblica.
Non si faccia, pertanto, passare l’idea che siamo tutti uguali di fronte alla legge. Si è trattato di una rivendicazione di “prerogative”, proprie ed esclusive del Capo dello Stato. E tali prerogative gli sono state riconosciute.

* docente di Filosofia del Diritto all'Università di Genova, filosofo e giornalista

[1] Il testo del comunicato è il seguente: «La Corte costituzionale in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08 e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti».

(6 dicembre 2012)




Domenica 17 Febbraio,2013 Ore: 16:41
 
 
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