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www.ildialogo.org PAROLE CHIARE DI ANDREA PONSO, CHE SPIEGA GILBERTO SQUIZZATOAUTORE DEL LIBRO “IL DIO CHE NON E' “DIO”, DEI GABRIELLI EDITORI, “CREDERE OGGI RIMUNCIANDO AD OGNI IMMAGINE DEL DIVINO”,A CURA DI CARLO CASTELLINI.

PAROLE CHIARE DI ANDREA PONSO, CHE SPIEGA GILBERTO SQUIZZATOAUTORE DEL LIBRO “IL DIO CHE NON E' “DIO”, DEI GABRIELLI EDITORI, “CREDERE OGGI RIMUNCIANDO AD OGNI IMMAGINE DEL DIVINO”

A CURA DI CARLO CASTELLINI.

CHI E' ANDREA PONSO?
Ultimamente il suo nome è stato ricordato tra i consulenti biblici citati da Roberto Benigni, insieme con Gianfranco Ravasi, prima della Lettura de IL CANTICO DEI CANTICI, di cui Andrea Ponso è uno degli studiosi ed esperti, oltre che profondo conoscitore di Isaia e Qohelet. Andrea Ponso è nato a Noventa Vicentina nel 1975. Si occupa di traduzione di testi biblici dall'ebraico, e poetici dal francese e dall'inglese; di esegesi biblica, teologia e liturgia. Svolge attività di ricerca e di critica, con vari studi apparsi in riviste e convegni in Italia e all'estero; collabora con il Master di studi interculturali dell'Università di Padova e fa parte del comitato scientifico del Monastero di Camaldoli (AR),. Come poeta ha pubblicato nelle maggiori antologie della sua generazione. Il suo primo libro “La Casa” con prefazione di Maurizio Cucchi, è del 2003 per Stampa. Dopo altre uscite presso Mondadori (“Nuovissima poesia italiana” e “Almanacco dello specchio”) è uscito quest'anno il suo secondo libro in versi, “I ferri del mestiere” presso la collana de Lo Specchio di Mondadori. Attualmente, collabora come editor con alcune case editrici, e sta portando a termine una nuova traduzione dall'ebraico dei libri di ISAIA, QOHELET e CANTICO. (L'Editore Emilio Gabrielli).
RACCONTARE DIO NEL RITMO DEI TRE GIORNI: CONOSCERE DIO IN MODO PASQUALE, di ANDREA PONSO.
Uccise il suo simbolo e salvò il suo simbolo.
(Efrem il Siro, Inni pasquali).
La forza e l'importanza di certi libri sta nel fatto che hanno la capacità di bruciare se stessi e anche molte altre opere senza tuttavia cancellarle o renderle nulle. Sono libri e opere pasquali, di passaggio e rinascita. Hanno anche la forza di “distruggere”, di liberare la strada dai detriti accumulati – ma distruggono sempre, come direbbe il poeta RENE' CHAR, con “strumenti nuziali”. Mi pare che questo lavoro di GILBERTO SQUIZZATO possa essere catalogato in tale ambito; un ambito che poco ha a che fare con le opere che pretendono di legiferare e imporre la loro verità, ma che ma – ex-sistendo davvero; perchè la gioia e il dramma dell'incontro è sempre un uscire da sé stessi, sia nei confronti dell'uomo che nei confronti di Dio. Il fatto che un lavoro del genere venga non da un teologo, non da uno studioso accademico delle cose di Dio e della chiesa, ma da un uomo che crede, è un merito ulteriore del libro che vi trovate tra le mani.
Perchè, in questo, c'è tutta la consapevolezza e la fede di chi sente profondamente che la chiesa siamo noi e non l'istituzione; e che la chiesa, con tutte le sue media all'immediatezza della relazione con il Mistero, è chiamata ad una pasqua perenne e mai assicurata, ad un passaggio continuo attraverso i tre giorni che vanno dal venerdì santo alla domenica di risurrezione. Lo schema del triduo pasquale infatti ha anche un valore di tipo conoscitivo irrinunciabile: si passa attraverso la perdita di ogni illusione, di ogni costruzione personale della propria illusione, di ogni costruzione personale dell'immagine di Dio e del Figlio, per arrivare al silenzio del sabato davanti a quel sepolcro che ancora non si apre, per giungere poi alla concretezza di un corpo glorioso che abita il mondo senza tuttavia essere prigioniero dei suoi significati e delle sue teorie.
L'uomo attraversa anche con questo libro, la caduta di tutte le parole che possiamo usare per dire Dio, soprattutto quelle legate alla sua “onnipotenza”, attraversa fino in fondo quella che i teologi chiamano teologia negativa, per approdare al silenzio e all'ascolto fiducioso del sabato, - per essere poi anticipati e scossi dall'evento della risurrezione.
“Dobbiamo fare un salto nel vuoto, provare a ripensare la nostra stessa fede in Dio, e perciò le parole con cui la diciamo” - ci suggerisce l'autore – ma, fortunatamente, questo non è affatto un salto nel vuoto. In realtà, si tratta invece di recuperare in profondità la tradizione e le Scritture, sgravandole di molte incrostazioni inevitabili. Esse infatti, non sono, come si dice di solito semplicemente, “parola di Dio”, quanto piuttosto parola che viene da Dio e che l'uomo ha la possibilità di ascoltare e accogliere anche con tutte le sue inevitabili debolezze, sordità e cecità.
E questo, essenzialmente, perché la nostra conoscenza è simbolica: ciò significa in realtà, che essa non crea dei concetti astratti e immutabili ma che, piuttosto, ogni simbolo è importante in quanto tentativo di relazione che tiene insieme l'uomo e il trascendente facendogli provare, nella pratica e nel corpo vivo, la sua forza e vicinanza; potremmo insomma dire che del simbolo l'importante non è il significato ma il significante, il suo “ come protendersi verso il divino e non il suo “interiore” come verità acquisita e posseduta. Non a caso il contrario del simbolico, di ciò che tiene in relazione, è proprio il dia-bolico.
Potremmo anche dire con l'autore, che il segno supremo sotto cui il Signore rischia continuamente di venire occultato e soppresso è proprio il suo Nome e la sua Croce!
Sono segni linguistici e concretissimi che vengono imposti con la violenza del significato, fino a portare quel corpo sotto il sasso pesante del sepolcro, vero e proprio sistema di verità immobili e mortifere quanto il concetto e il moralismo della legge.
Ma la risurrezione è in fondo proprio l'eccedenza di questo significante che è letteramente il corpo glorioso di Cristo: un corpo! E non uno “spirito”, come erte traduzioni ce lo presentano negli episodi delle apparizioni post-pasquali. Ecco che allora, anche il relegare il divino nello “spirituale” può essere un grave errore: esaltarlo per tenerlo distante e non incontrarlo nell'esteriorità concretissima della vita incarnata di tutti i giorni.
In fondo, l'ateismo, nasce da una eccessiva e sospetta spiritualizzazione dia-bolica di Dio che si libera di queste rappresentazioni, relativizzandola simbolicamente nel senso che abbiamo detto (e non cancellandole), è un Dio che libera l'uomo e lo rende così, responsabile.
E forse Cristo è venuto nel mondo proprio per questo, per salvare e liberare l'umano in quanto umano. Su questo punto, in particolare, Squizzato ci propone una riflessione critica sul “nome di Dio” che, oggi più che mai, ci appare necessaria, in una società e in una cultura dell'immagine e dell'etichetta come auto-realizzazione, come parola che si fonda da sé, quasi che anche l'uomo si sia preso il (falso) attributo divino classico della causa sui.
Il nome di Dio invece, è un evento dinamico di relazione. E l'uso delle metafore e dell'analogia non è un negativo, un “male”: esso è benedetto come la nostra condizione di finitezza. Il lavoro di “traduzione” della tradizione. Che Squizzato ci invita a praticare è perfettamente coerente non solo con il depositum fidei rettamente inteso, ma anche con le Scritture e, in particolare con i Vangeli: Gesù stesso, vale a dire il nucleo vivente e non concettuale o astratto del nostro credere, è consegnato nel momento culminante della sua Passione, e la parola usata è proprio tradere, vale a dire “tradire” ma anche mettere a disposizione.
La tradizione cristiana, nel suo senso più profondo e proprio, è questa continua storia dinamica del “tradurre” e del “consegnare” il nucleo vivente di Cristo. Nel momento in cui questo processo viene bloccato e rinchiuso in formule oggettivanti e immutabili, ecco che il significante Cristo viene di nuovo tumulato e cacciato nel sepolcro del significato codificato e deciso una volta per tutte.
Ritroviamo così la dinamica viva di questo libro. Il passaggio e il suo carattere eminentemente cristiano e pasquale. E, giustamente, Squizzato ci dice che tutto questo non è altro che il Mistero della “glorificazione della corporalità umana”, della vita e della finitezza. E fondamentale, direi davvero ricapitolativo, è questo passo:
“Gesù non potrebbe essere più uomo di così. Eppure i suoi discepoli riconoscono in lui la presenza del “dio” della luce, dell'Indicibile, dell'Inimmaginabile. Sì, l'Inimmaginabile è
accaduto ha preso corpo, e carne, e morte, nell'uomo della “croce””.
Vorrei quindi lasciare il Lettore e l'Autore stesso con una provocazione, che mi pare in linea con la dinamica che questa stessa opera apre e favorisce. Ed è questa: Dio può essere reso con la parola “luce” e, quindi con tutto il corollario del vedere, come giustamente ci propone Squizzato.
Ma, mi chiedo, perchè non potrebbe essere simboleggiato anche con altri sensi ritenuti a torto, nobili? Pensiamo, ad esempio, all'odore/profumo e, quindi l'olfatto. La tradizione patristica ha meditato pagine profondissime su questo senso che, non a caso, è quello dell'estrema vicinanza, dell'invasione del corpo e, nello stesso tempo, quello di qualcosa che non si può vedere, toccare e descrivere pienamente – che è presente ed assente ad un tempo; per i padri è il senso della prescienza della profezia, ma anche quello della memoria fisica del passato, della prossimità e dell'attenzione vigile e senza rappresentazioni (come si potrebbe rappresentare un odore?) rivolta al futuro ma presente qui, ora nel discernimento del presente e del suo contesto.
Ce lo ricorda anche Paolo, nella seconda Lettera ai Corinzi: Cristo “diffonde per mezzo nostro l'odore della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita”. (ANDREA PONSO, a cura di Carlo Castellini).



Martedì 11 Febbraio,2020 Ore: 21:39
 
 
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