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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org UN RICORDO E GIUDIZIO INEDITO DI EUGENIO SCALFARI SU ALDO MORO, NEL “RACCONTO AUTOBIOGRAFICO” DEL FONDATORE DI “LA REPUBBLICA”,A CURA DI CARLO CASTELLINI

UN RICORDO E GIUDIZIO INEDITO DI EUGENIO SCALFARI SU ALDO MORO, NEL “RACCONTO AUTOBIOGRAFICO” DEL FONDATORE DI “LA REPUBBLICA”

A CURA DI CARLO CASTELLINI

NOTA BIOGRAFICA: CHI E' EUGENIO SCALFARI?
E' del 1924, dopo aver collaborato al MONDO di Pannunzio, è stato nel 1955, tra i fondatori dell'ESPRESSO, che ha diretto dal 1963 al 1968. Nel 1976 ha fondato il quotidiano LA REPUBBLICA, che ha diretto fino al 1996 e di cui oggi è editorialista. Per EINAUDI ha pubblicato:
“Luomo che non credeva in Dio” (2008);
“La sera andavamo in via Veneto. Storia di un gruppo dal MONDO alla REPUBBLICA (2009);
“La ruga sulla fronte” (2010);
“Per l'alto mare aperto” (2010, 2011);
“Incontro con Io”(2011);
“Scuote l'anima mia Eros”; (2011, 2013);
“L'amore, la sfida il destino” (2013); e (con papa Francesco),
“Dialogo tra credenti e non credenti (2013);
“e in coedizione con la Repubblica.
Ha inoltre pubblicato:
“Alla ricerca della morale perduta”; (Rizzoli, 1995);
“Il labirinto”(1998); e con Giuseppe Turani
“Razza padona” (Feltrtinelli, 1974); e
Baldini Castoldi Delai, (1998);
Con il gruppo editoriale l?Espresso ha pubblicato, raccolti
in cinque volumi, gli articoli scritti tra il 1955 e il 2004.
Nel 2012 Mondadori ha pubblicato nei “Meridiani”
“La passione dell'etica”. Scritti 1963-2012. (A cura di Carlo Castellini).
IL TESTO IN QUESTIONE.
Il gruppo dirigente della Dc ebbe nei confronti di ALDO MORO un'opinione e un comportamento ambivalenti e contradditori. Lo considerò poco meno di un profeta politico, un intellettuale di altissimo livello, un furbissimo tattico ma, al tempo stesso, un appassionato stratega.
Non ostante questo superlativo apprezzamento - che si accrebbe ancora dopo la sua morte, rasentando la beatificazione – il governo del partito non gli fu mai affidato con piena fiducia. Non ebbe mai cambiali in bianco. ALDO MORO fu un leader di garanzia più che un capo carismatico, la sua corrente fu sempre molto piccola in un partito dominato dal correntismo.
Aveva una visione profondamente pessimistica della realtà italiana e le sue strategie furono sempre molto riduttive. Lì anzi, starebbe la sua grandezza: l'aver saputo rinunciare consapevolmente e con sofferenza a progetti più ambiziosi, tutto compreso nel compito di tagliare un vestito a misura sulle gobbe di quel corpaccione che era l'Italia degli anni Sessanta-Settanta, un vestito tuttavia dentro al quale le deformazioni di quel corpo potessero non solo essere nascoste, ma indotte al migliore atteggiarsi nella speranza che questo migliore atteggiarsi producesse infine qualche miglioramento sostanziale.
E' probabile che Moro fosse come i suoi intimi lo descrivono. Del resto, per quel tanto che anch'io l'ho frequentato e conosciuto, quel tratto di fondamentale pessimismo sul carattere degli Italiani, sulle malformazioni della società, sul rischio di adottare una politica di riforme che avrebbe potuto – anziché correggere – aggravare i difetti e le tare congenite del Paese e dello Stato, è risultato evidente anche a me.
Di qui l'esasperante lentezza delle sue decisioni, il suo lessico esoterico, la sua diffidenza verso la gente, la sua rinuncia a farsi comprendere nella certezza che comunque non sarebbe stato compreso, infine il suo gusto per la meditazione. E soprattutto il suo spasmodico bisogno di nulla intraprendere senza essersi assicurato prima il massimo del consenso.
La sua ricerca di consenso non veniva dal desiderio di popolarità, non era il prodotto di una psicologia vanitosa e bisognosa di essere accarezzata come tante se ne sono viste. Il consenso era per lui la condizione stessa dell'operare politico in mancanza della quale non c'è che un pericoloso velleitarismo. In Moro quella ricerca assumeva forme quasi patologiche e finiva on l'inchiodare lui, il suo partito e di conseguenza gran parte della politica italiana a un profilo molto basso e pressoché statico i mutamenti del quale non potevano prodursi che con un processo lentissimo e quasi impercettibile. Quando avvistava un ostacolo cercava solo il modo per aggirarlo, e, se il percorso necessario all'aggiramento si fosse raddoppiato o triplicato, quel percorso egli avrebbe comunque imboccato. Quando scopriva un'opposizione, il suo obiettivo non era tanto di combatterla quanto di annettersela e di comprenderla in un nuovo e più ampio schema di rapporti dialettici. Così fece con il Pci berlingueriano a metà degli anni Settanta e così perfino tentò di fare con le Br nel Settantotto, quando cadde sotto il loro dominio. Era un “bizantino” nella sua profonda natura. Quel volto di pelle scura, quegli occhi lunghi, quel sorriso fine e appena accennato, quella testa quasi sempre leggermente inclinata per la sua solitudine, il suo scetticismo, il suo cinismo, la sua mancanza di amici, il suo sodalizio con personaggi di rango così inferiore, al suo e spesso equivoci, come quel SERENO FREATO che fece e disfece per lui e in suo nome fino a costruirsi una fortuna privata e infine concludere la carriera nelle maglie della giustizia per turpi reati contro lo Stato: tutto ciò denota un personaggio complesso e rilevante. Ma dubito che si tratti di un personaggio meritevole di figurare tra “i padri della patria” per usare un'espressione enfatica ma pertinente.
Se ripenso al Moro che sta tra il congresso democristiano di Firenze del 1959, - quando diventò segretario battendo Fanfani, - e la tragica morte per mano dei terroristi dopo cinquantacinque giorni di terribile pena nel “carcere del popolo” di via Montalcini, mi tornano alla mente alcuni momenti – culmine che possono servire a meglio definire il personaggio e il suo ruolo nella vita italiana.
Il primo è il discorso fiume- durò cinque ore – che tenne a Napoli al congresso della Dc nel '62 per portare all'alleanza di centro-sinistra un partito riottoso e impaurito.. Il secondo è la decisione ostinata con la quale volle ANTONINO SEGNI alla presidenza della Repubblica. Il terzo è il suo comportamento durante l'oscuro episodio Sifar – De Lorenzo, nel luglio del '64 e poi tre anni dopo quando, l'Espresso rivelò quelle trame rimaste nascoste fino ad allora celate.
Il quarto fu la sua fase consociativa il suo rapporto solido con BERLINGUER, culminati con il discorso che pronunciò a Montecitorio nell'aula dove erano riuniti i gruppi parlamentari democristiani, per convincerli ad accettare il Pci nella nuova maggioranza di governo.
Questi momenti culmine definiscono compiutamente il leader democristiano, sia in positivo sia in negativo. Quando prese la parola al congresso di Napoli- me lo ricordo bene – era stanchissimo per le fatiche che aveva sopportato nei giorni e nelle settimane precedenti nel tentativo di vincere le resistenze, mettere d'accordo le correnti, disegnare i nuovi organigrammi del partito e del potere. Infine, era la prima volta dal 1947 che la Dc avrebbe dovuto condividere governo e sottogoverno con un partito vero e non con simulacri di partito come erano allora i tre laici minori.
L'ansia di perdere posizioni rilevanti era diffusa in quella platea: quasi tutti i presenti al congresso avevano cariche da difendere, interessi corposi da tutelare, clientele da rassicurare. Il Psi – questo ai democristiani era chiarissimo – arrivava famelico all'appuntamento. Famelico e stremato insieme, avendo perduto da tempo quell'appoggio comunista che fino ad allora era stata la sua ancora da parecchi punti di vista.
Parlò, come ho ricordato per cinque ore. Alla fine della quarta ebbe un leggero collasso e chiese di poter continuare e parlare seduto; la platea scattò in un applauso di parecchi minuti. Concluse in un trionfo, tutti i capi dorotei andarono ad abbracciarlo.
Fanfani allora presidente del Consiglio, , rimase solo a rimuginare il suo dispetto in un angolo del tavolo di presidenza.
Che cosa aveva detto MORO che piacesse tanto ai capi Dc? Aveva dispiegato con l'eloquenza della necessità che il centro sinistra non soltanto non coincideva con con una fase di declino della della Democrazia cristiana, ma anzi coincideva con il massimo della potenza del partito. Non era un'operazione accettata in stato di necessità, ma deliberatamente compiuta e perseguita. Il sistema dei partiti guidato dalla Dc si annetteva un altro spezzone, il più importante di quelli disponibili, quello essenziale a comporre il domino, perchè i socialisti erano un partito numericamente importante, perchè la maggioranza d'ora in avanti, sarebbe stata al sicuro da ogni da ogni colpo di mano e da ogni disavventura elettorale e infine perchè il Psi forniva quello scudo a sinistra che finora era mancato quasi del tutto.
In quel teatro napoletano in cinque ore di relazione, MORO pagò al suo partito il prezzo del centrosinistra con una dislocazione a destra di tutta la Dc. Pagò, in verità, non é il termine esatto: meglio si deve dire che “fece pagare ai socialisti. Quanto alla dislocazione a destra della Dc, a ben guardare, neppure questo concetto corrisponde alla realtà di quanto avvenne. La Dc non si spostò a destra ma portò pesantemente avanti una trasformazione che era da poco iniziata, sostituendo alla sua rappresentatività speciale una rappresentatività esclusivamente clientelare e di potere. Questa fu l'operazione del centrosinistra di Moro, in cui egli delegò la gestione al gruppo doroteo. La Dc avrebbe poi pagato a durissimo prezzo quello snaturamento della politica quando, quindi anni dopo, in partito socialista rivisitato da un nuovo leader rampante l'avrebbe sfidata e messa quasi alle corse sul suo stesso terreno.
E Moro avrebbe pagato un pezzo ancora più duro, quello della vita e dell'immagine che uscì a brandelli da quelle lettere del “carcere del popolo” perchè, se è vero che il terrorismo degli anni di piombo ha anti padri, è anche vero che il fallimento del centro-sinistra, riformatore e la nascita di un centro-sinistra debole, malamente riformista e fortemente corrotto, non fu certo in elemento marinale tra quelli che portarono il paese alla terribile prova degli anni di piombo.
Dopo il congresso di Napoli Moro mantenne la parola e portò al Quirinale Segni. Qualcuno si stupì di quella operazione politica che invee obbediva ad una lucidissima geometria. Per bilanciare l'arrivo dei socialisti sulla sinistra, la Dc mandava al vertice dello Stato il capo della sua ala moderata. E lanciava lo slogan della delimitazione a sinistra della maggioranza, che voleva sancire la ghettizzazione del Pci e il suo isolamento istituzionale. Moro alzò tutti i ponti levatoi sull'ala sinistra del castello e sbarrò tutti i portoni d'ingresso. Non tanto e non soltanto per mettere fuori gioco il Pci, quanto per mantenere i socialisti in una posizione di ostaggio e poterne dunque liberamente disporre.
Ho già detto prima che un altro momento molto importante della vita politica di Moro e molto rivelatore fu l'atteggiamento che egli assunse nel '64 all'epoca del famoso “rumore di sciabole” di cui parlò PIETRO NENNI durante la crisi di governo di quell'estate. Tre anni dopo l'ESPRESSO rivelò l'esistenza di unPiano SOLO, che fu appunto lo strumento con il quale si produsse quel”rumore di sciabole” utilizzato da Moro per una svolta moderata del centrosinistra.
Segui' a quella nostra denuncia giornalistica un processo che rimase celebre e che noi dell'ESPRESSO imputati per diffamazione dal generale DE LORENZO, perdemmo in prima istanza. Quella sconfitta giudiziaria fu in gran parte dovuta anche a Moro che si battè con tutti i mezzi a sua disposizione per impedire che la natura del “piano SOLO” venisse alla luce. Si batté con tutti gli omissis con i quali mutilò i documenti coperti da segreto di Stato e da noi portati in Tribunale;si battè nel corso dei dibattiti alla Camera e durante l'inchiesta parlamentare.
Ci fu uno scontro personale tra me e lui quando, il Tribunale di Roma, respingendo la richiesta del pubblico ministero, VITTORIO OCCORSIO, che aveva chiesto per i giornalisti dell'Espresso una sentenza assolutoria, ci condannò per diffamazione. Da allora non lo rividi più fino al febbraio 1978 quando, su sua richiesta, andai a trovarlo nel suo studio, dietro piazza Buenos Aires, poche settimane prima dell'ingresso da lui tenacemente voluto e preparato del Pci nella maggioranza parlamentare e poche settimane prima del suo rapimento in via Fani.
Trovai un uomo molto diverso da quello che avevo conosciuto: invecchiato, ma niente affatto spento, anzi combattivo come non mai. Mi parlò della necessità di arrivare alla democrazia compiuta con il Partito comunista dentro il governo: una grande coalizione di forze democratiche (e il Pci per lui era ormai da considerare tale) per ricostruire lo Stato.
“Sono contrario al compromesso storico vagheggiato da Berlinguer”. I nostri sono due partiti alternativi e tali debbono restare. Ma la ricostruzione dello Stato in termini moderni non può che essere fatta insieme., la società italiana non reggerebbe al trauma di un'operazione di così enorme portata se entrambe le due forze popolari non fossero associate all'impresa. Dopo ciascuno riprenderà la sua strada. Io non mi dispero affatto che la Dc per alcuni anni possa stare all'opposizione, anzi me lo auguro che la Dc per alcuni anni possa stare all'opposizione, anzi me lo auguro perchè la Dc deve rigenerarsi”.
Gli ricordai i nostri contrasti di dieci anni prima, e gli chiesi see non avesse avuto un sentimento di rimorso per avere fatto condannare due giornalisti rei soltanto di aver rivelato la verità. Mi fissò per qualche attimo, ed è uno sguardo che ricordo bene perchè non l'ho rivisto mai più, e mi disse :”In quella circostanza ciascuno di noi due non fece che il suo dovere. Lei stampando la verità e io difendendo il segreto di Stato: Ma mi piace dire che la vostra condanna mi costò una notta di insonnia e molto rammarico”.
E' l'ultimo ricordo i ALDO MORO. Dopo la sua morte pubblicai su REPUBBLICA, l'intervista postuma, cioè il resoconto fedele di quel colloquio. I colpi di mitra di PROPSERO GALLINARI e dei suoi accoliti avevano interrotto quella paziente politica che il leader “bizantino” aveva affilato per vent'anni fino a comprendere nell'ordito perfino i suoi cupi carcerieri /Cfr. QUEL CHE MORO MI DISSE IL 18 FEBBRAIO, LA REPUBBLICA, 14 OTTOBRE 1978, EUGENIO SCALFARI, a cura di Carlo Castellini).



Giovedì 05 Settembre,2019 Ore: 22:09
 
 
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