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www.ildialogo.org NON DIMENTICO DI GHIANNIS RITSOS,di Sebastiano Saglimbeni

NON DIMENTICO DI GHIANNIS RITSOS

di Sebastiano Saglimbeni

Quasi un trentennio è caduto nella caligine del tempo da quando ad Atene ho fatto conoscenza di una grande voce poetica, di una esistenza combattiva in nome del marxismo al quale aveva aderito verso la metà degli anni Trenta del secolo scorso. Mi riferisco a Ghiannis Ritsos. Un fine traduttore delle sue 19 opere nella nostra lingua, Crescenzio Sangiglio, aveva curato l’incontro che avevo desiderato dopo che avevo fatto editare da Niccolò Giannotta i Diari d’esilio e, dopo che, con le Edizioni del paniere, che avevo fondato a Verona, una breve silloge di poesie, con traduzione dello stesso Sangiglio, dal titolo Il valore delle cose nude ed un’altra, dal titolo Lotteria tradotta da Nicola Crocetti con una nota introduttiva di Giulio Galetto. Una conoscenza di un uomo illuminante, che avevo caratterizzato nel mio scarno testo poetico come prologo all’introduzione alla silloge Il valore delle cose nude, “cariato dentro /fuori impeccabile, dritto/ come pertica di castagno - / la barba d’un biondo tabacco -”. L’attributo “cariato” per quelle persecuzioni politiche subite, culminate in due lunghi periodi di prigionia e di torture, dal 1948 al 1952 e dall’aprile del 1967 sino a poco prima della caduta del regime dei colonnelli. E così l’uomo offeso era assurto a più grande uomo, a più grande poeta. E qui mi rifiorisce la memoria di una eccelsa frase di Elio Vittorini che dice: “Uccidete un uomo, egli è più uomo”. Fra tantissimi testi poetici di Ritsos uno scarno, “Li-ber-tà”, compreso nella silloge Il valore delle cose nude, recita:
 
Ridirai la stessa parola
nuda
quella
per la quale hai vissuto
e sei morto
per la quale sei risorto
(quante volte?)
proprio per nulla.
Così tutta la notte
tutte le notti
sotto le pietre
sibila a sillaba
come la fontana che gocciola
nel sonno dell’assetato
goccia a goccia
ancora e ancora
sotto le pietre
tutte le notti
contate sulle dita
semplicemente
come quando dici: ti amo
così semplicemente
respirando
davanti alla finestra
li-ber- tà!”.
 
Qui l’uomo dalle parole asciutte, aguzze, l’uomo non sconfitto, ma vincitore con il ricorso alla poesia, pure vincitore con le sue pietre dipinte, l’uomo che poté passare tra l’interesse di molti lettori, traduttori ed editori nella sua Grecia libera e fuori.
Il poeta ci ricevette in una stanza molto ordinata della sua piccola abitazione di Atene, in via Michail Koraka, dov’era sorvegliato dagli sbirri della dittatura, e sicuramente anche noi sorvegliati. In un angolo di questa spiccava un piccolo cumolo di pietre che aveva raccolto nelle isole di deportazione (Limnos, Leros, Ajos Efstratios, Macrònissos e Jaros), in riva al mare, dipinte magistralmente. Mi volle fare dono di una pietra, una piccola scultura, riproducente una immagine muliebre, forse ispirata dalla privazione dell’eros, un gioiello che conservo e che spesso contemplo rivedendo, come per incanto, la cara immagine del poeta. Lo rividi, dopo quel mio breve soggiorno in Atene, a Milano dove l’aveva invitato il traduttore Nicola Crocetti. Era stanco. Quasi ottantenne si dichiarava, espressosi in lingua francese, fatigué. Era nato a Monemvasià nel 1909 e ad Atene nel 2009. Ora egli vive nella memoria degli uomini liberi, dei veri poeti del suo Paese e di altri del nostro pianeta. Per tutte le sue opere rinnovanti, alcune, la grandezza dei classici dell’antica Grecia.
Aveva, fra l’altro, scritto di lui il francese Louis Aragon parole che recitano: “Credo che mai dei versi, per quanto belli, per quanto commoventi fossero, mi abbiano fatto piangere. Senza dubbio, ero più sensibile alla bellezza delle parole, al gioco sonoro, che non all’emozione provata, alla tragedia dei termini”. Si riferiva Aragon alle poesie del 1968-1969, dal titolo Pietre, Ripetizioni, Sbarre, a cura di Nicola Crocetti, poesie editate da Feltrinelli nel 1978. Si diceva dei traduttori, oltre a Sangiglio e a Crocetti, che sono stati vicini al poeta, un altro suo traduttore è Filippo Maria Pontani, uno tra i più grandi grecisti e neo-grecisti del nostro tempo. Indimenticabile quella sua cura all’opera Prima dell’uomo, edita in Italia da Mondadori. Ritornando ai Diari di esilio tradotti da Sangiglio, le poesie che dicono di quelle prigioni infami, vi si legge nella versificazione prosastica, di una singolarità incisiva, l’uomo esiliato, che si estrae, abituato come i suoi compagni di sventura, che si immerge nell’osservazione della stagione autunnale. Così riesce a poetare: “Ci siamo quasi abituando al filo spinato e ai visi ai rovi./ Non occorre raderci tanto spesso./ Sono inerti i giorni e le mani. Ci siamo abituati./ A poco a poco si sono ingiallite le foglie delle vigna./ Si sono fatte marrone e vermiglie./ Ci affanniamo ad associare la nostra attenzione a un colore a una pietra/ all’andatura della formica(…)/ Ampie distese di sole sopra i mandorli ignudi”. Parole-poesia di un uomo vessato per la privazione della sua libertà, macerie di vita distrutta, ma che conserva la forza del canto, dell’armonia, che “vince di mille secoli il silenzio”, come poetava il mezzo greco Ugo Foscolo. Il canto che annienta la terribile esperienza. E piace, infine, ricordare alcuni tratti di versi, come: “(…) fratello mio, cantiamo non per distinguerci dalla gente/ noi cantiamo per unire la gente”, e :“Sempre così è stato e così sarà./ Laddove non ti pieghi/ esisti / tu noi /tu la storia”. E non si piegò il poeta, non si avvilì tra gli anni tra i muri del sanatorio per guarire il mal sottile, non si piegò negli anni di cattività dentro gli spazi recintati dal filo spinato. E per chiudere piace ricordare che l’opera di Ritsos venne proposta al Premio Nobel per nove volte, ma l’ambitissimo guiderdone non gli arrise, gli arrise quello sovietico, il Premio Lenin per la pace nel 1975-76. Il poeta lo giudicò di gran lunga superiore al Premio Nobel.



Martedì 04 Settembre,2018 Ore: 22:11
 
 
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