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www.ildialogo.org Ho riletto Paolo Pompei,di Sebastiano Saglimbeni

Ho riletto Paolo Pompei

di Sebastiano Saglimbeni

Un uomo dal temperamento difficile, fendente, amaro quando vuole, raramente, comunicare, Paolo Pompei, con il corpo nella nostra comunità scaligera e l’anima a Roma. Non un ospite in Veneto, come nessuno che sceglie di vivere a sue spese dove crede e potrà essere qualcuno se sa nutrire la costante della dignità e della conoscenza.
Paolo Pompei ha conosciuto e studiato a Roma ad iniziare dagli anni Cinquanta. Si è saputo inoltrare bene nell’epa della capitale d’Italia, dove, sino a tempo fa, l’arte si era seduta al Caffè Greco, fondato nel 1760 da un ebreo romano, mentre alla Libreria Croce, che ha chiuso battenti, credettero di ornarsi maschere di generici e valorosi scrittori con le loro opere. A Roma, il bolognese friulano Pier Paolo Pasolini poté assurgere a grande scrittore e regista. Debbo dire che oltre un ventennio di amicizia con Pompei, per alcuni anni interrotta, mi ha, in qualche modo, stimolato ad indagare più attentamente dentro gli accadimenti del nostro Paese che se dovesse mutare, di quello che è ed è sempre stato da dopo gli anni della Costituente, non potrebbe chiamarsi Italia.
Con Paolo Pompei non poche le conversazioni culturali e di vario genere consumate in alcuni Caffè scaligeri. In lui una messe di opinioni riguardanti, soprattutto, questa nostra ultima temperie sociale, con predilezione alla storia, alla filosofia, all’economia, alle letterature europee, a quella statunitense e all’arte. Negli anni giovanili romani, con soggiorni in alcuni Paesi stranieri, Pompei scrisse di varia cultura e fu valutato una promessa di spicco da Alberto Moravia, che lo scelse collaboratore del periodico “Nuovi Argomenti”, ancora in vita. Per il prestigioso quotidiano romano “Paese sera”, che chiuse da tempo battenti, Pompei collaborò con testi di varietà, costume, critica culturale. Insegnò pure per alcuni anni Filosofia e Storia nei Licei statali, ma nella scuola italiana si valutava come sprecato e volle riprendersi il suo mondo di uomo diverso non costretto alle recitazioni obbligate per una manciata di denaro che offese e continua ad offendere una pletora di educatori italiani.
Da tempo, Pompei maturava una sua scrittura narrativa, che compose, ricompose, sino a quando si decise a farla divulgare da un piccolo editore di scelte, non di stupidità consuete, Piero Manni di San Cesario di Lecce. Titolo della scrittura narrativa, un romanzo, Il candore dei perdenti. In questa prova nessun indugio a quelle scritture del dopoguerra fortemente impegnate e portatrici di un messaggio che valutava molto le lettere come rapporto pratico per la trasformazione della società. Voglio dire di quella stagione del neorealismo, che per molti è stata significativa e a questa oggi debbono ispirarsi gli scrittori per denunciare la delinquenza dei potenti impuniti nel nostro Paese e il famismo e la disperazione sempre più dilaganti e che colpiscono la società dei giovani e degli anziani. Nemmeno ho ravvisato nella scrittura di Pompei tendenze alle molte esperienze sperimentali. Nella sua scrittura si intravede un po’ di scorcio del secolo scorso e di questo nostro decennio del duemila con i suoi uomini candidi e perdenti, minati da costanti crisi. Ossessione ed autolesione, pertanto: forse quella dell’autore ch’è, poi, quella di mille larve umane verticali pensanti, e dai tratti filosofici ed ironici. Nel romanzo - credo di aver letto - la vita insieme, di Lui, di Lei e dell’ Altro. Il candore dei perdenti vuol dire la delusione deprimente riguardante l’istituzione del matrimonio, istituzione che risulta vacillante e ipocrita. Tutte le maschere o - detto con la lingua dei padri latini - personae fanno parte di una chimera che si è rivelata esaurita, senza prospettive interiori. Dal romanzo Il candore dei perdenti non si coglie una agevole e godibile trama, ma il lettore, non il generico, se la può costruire con certo piacimento. Si leggono tratti sentenziosi e fendenti nel romanzo di Pompei, finemente curato, la cui prima pagina di copertina contempla un’ immagine muliebre che avanza per una distesa grigia e picea. La peculiarità del testo, se posso adoperare un termine usurato, per indicare un’opera insolita, consiste nelle varie proposizioni esplosive che fanno in vero riflettere. Come: “Né potere andare avanti, né indietro”. E mi vengono in memoria: “Undique mare, undique caelum”, “Ovunque mare, ovunque cielo”, le parole con le quali, il grande poeta della latinità Virgilio esprimeva lo smarrimento umano e l’arduità di un traguardo. “Sembra impossibile ma niente, un altro bel niente”, “Viene espulsa la poltiglia gommosa che è stata tormentata dai denti, il rifiuto va a finire in un fazzoletto di carta subito gettato in un cilindro metallico”, “Non esiste un luogo di origine dove poter ritornare”, “Per fortuna tutto finisce: in una fossa o in una urna cineraria c’è il riassunto della vita insignificante”, “Foglio che vuole essere sverginato”, “Ritorniamo a essere adulti quando appaiono i palazzoni periferici con i terrazzini sporgenti per tentare di sfuggire più che si può”.
Riunite questi agenti verbali, non partoriti da una mente generica, ma da una mente inquieta, costituiscono l’essenza della poetica di Pompei, sono questo suo e nostro collettivo esistere invernale grottesco, disumano. Sono l’assalto di un pessimismo, non solo letterario, ma storico. Non vanno, dentro la prosa di Pompei, sottaciuti alcuni spazi di scrittura in versi o quasi, come: “Niente via-vai/ di amici e conoscenti.// Il televisore una presenza cubica/ come un dado spento.// I libri essenziali/ per essere nutrito e consolato.// Solitudine tranquilla esistendo/ l’assegno vitalizio/ concesso a cani e porci/ per farli sopravvivere vivacchiando”.
Credo che questa sua scrittura, pure sfiziosa, sia una risposta forte a quei titoli che sfornano editori grandi e piccoli, titoli dai contenuti e dal linguaggio di intrattenimento e stucchevole. E ne abbiamo a non finire, pure a firma di uomini della politica, i quali spudoratamente vogliono esistere, oltre a pomposamente, come scrittori.
Pompei, che ha voluto sverginare o violentare il foglio bianco per scrivere il suo romanzo della crisi coniugale individuale e collettiva, ha voluto, a ragione, costruirsi la sua identità, ma alla luce di una sua conoscenza. Ed ha fatto bene. Non si contano i titoli di italiani e stranieri che ha letto con puntiglio analitico, titoli riguardanti l’uomo con la sua sconfitta e il suo pianto gelosi, con il suo candore di perdente. E qui nel sostantivo candore tanta ironia e tanta dissacrazione del medesimo autore e collettiva.
Accennavo sopra alla poesia che pure hanno visto altri lettori del libro. La poesia, che mille e mille scrivono ed è un’esercitazione di parole che escono dalle menti, pure atte ad elevarci. Come hanno elevato Pompei quando le ha scritte e pubblicate nel 1985 a Roma, dal titolo “così com’è color lillà”, una silloge di testi, nei quali leggi la sua filosofia dell’esistere. Trattasi di una poesia dove il vero verso non esiste, ma esistono le parole brucianti e il verso (la beffa) è rivolto a questa società che sprofonda in tutte plaghe della terra. Viva allora la scrittura seppure potrà dare fastidio alle menti che intendono il fine dell’esistere fatto di solo profitto abietto. Così ho riletto Paolo Pompei.



Lunedì 09 Dicembre,2013 Ore: 17:07
 
 
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