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www.ildialogo.org LA GIORNATA DELL’AMMALATO,di Sebastiano Saglimbeni

LA GIORNATA DELL’AMMALATO

di Sebastiano Saglimbeni

Exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst…*
Tito Lucrezio Caro
“La cosa più sconosciuta al mondo, la più mutevole e inafferrabile è il corpo umano, chi può mai impararlo”. Lo scriveva nella sua tragedia Fedra, un monologo, Ghiannis Ritsos, il poeta che patì in Grecia quell’ignobile dittatura militare del 21 aprile del 1967. Il corpo umano, il corpo umano. Che in uno dei miei testi poetici, dedicato all’amico medico Salvo Agnello, avevo definito un ”despota”. Tale, perché domina i mortali dalla loro nascita alla loro morte definita dal sopraddetto poeta “l’unica giustizia definitiva, benché sempre in ritardo giunga”.
Mentre in questo autunno 2020 continua ad imperversare e ad uccidere potenti e deboli un’ennesima peste in tutto il nostro pianeta, c’è chi in quiescenza, con più mali, pure gravi, ma autosufficiente, non giacente in un nosocomio o nel suo letto, sdegna la giornata chiuso dentro i muri domestici. Così, pure dominato da certo assillo, esce da casa e si ritiene un diverso, un altro, un libero o perché i suoi occhi “cercan morendo/ il Sole”, per dirla con Ugo Foscolo.
Nella via XXIV Maggio di Verona, dove vivo da anni e sopporto una troppo minata vecchiaia, le foglie gialle degli alti tigli, una maestosità nella primavera e nell’estate, contrastano, straziate, complice il nubifragio agostano, quelle verdognole. Piogge ed umido non contano per l’ammalato. Egli, difatti, nella mattinata, lento pede, esce e riesce ad acquistarsi il cibo ed altro, indugia, un po’ nei caffè del quartiere. O siede, preferendo l’aperto, sulle panche lignee. Se con la mascherina passeggia distanzia chi pure la indossa e chi inconsciamente la evita come un impaccio o per volere sfidare la peste. La domenica si reca in chiesa per ascoltare la messa. Nelle belle chiese della città, nonostante la peste, si recano parecchie persone, non solo quelle ammalate, ma quelle sane e quelle giovani. Dopo la funzione, l’ammalato si ritiene mutato, elevato, per aver pregato, con nella mente il risuono di parole armoniose come:
… andrò a veder Maria
mia gioia e mio amor.
L’ammalato che legge si sceglie del tempo per recarsi in qualche libreria della città, dove acquista libri di varia cultura. E così la sua giornata si consuma un po’ con l’assaporare tipi di narrazione, le parole scritte. Che pure coglie pesanti, bastarde in quanto straniere, in luogo delle nostre. L’ammalato trascorre del suo tempo negli odiati uffici di credito dove riscuote la pensione e dove amaramente risparmia.
In questo autunno, con rare schiarite, la sua giornata in casa trascorre con fatiche, che sono quelle riguardanti la mano e la mente delle grandi, insostituibili donne, spose e madri. E qui non posso non ricordare quanto il 15 maggio del 1952 scrisse su di loro l’umanista Concetto Marchesi. Vale a dire: “L’epoca triste della guerra, questa nostra epoca grandiosa e funesta, ha devastato e ha scoperto. Ha scoperto la viltà, l’ignavia, il tradimento, la santità, l’eroismo; ha scoperto l’anima, anzi la forza dell’anima femminile”. E questa forza dell’anima femminile, mentre dura questa peste, non è venuta meno. L’ha intesa l’ammalato uomo, invero, uomo. Che sa faticare in casa e difende la sua donna.
Dall’’ammalato, la televisione è molto seguita, soprattutto, dopo la cena; concilia spesso al sonno. Egli apprende dal telegiornale gli scempi della peste ed altro di degno e tragico. Una sorta di sollievo le voci che riceve al telefono dagli amici e che esprime per loro. E valuta l’amicizia bella, generatrice di affetto di forte respiro. La giornata dell’ammalato si consuma per i controlli nei vari reparti dell’ospedale. E se il male con il quale convive non l’ha distrutto ed è ancora autosufficiente è come se avesse conquistato la grandezza della vita. Così pensa pure di renderla creativa, descrivendola, poetandola.
Io con una troppo minata vecchiaia, scrivevo prima, continuo a scrivere, a poetare. Mi nutro dell’efficacia intramontabile della letteratura classica, come, ad esempio, quella latina di Tito Lucrezio Caro. Così la mia giornata di ammalato si riempie pure leggendo e rileggendo una mia traduzione, molto riduttiva, nella nostra lingua del De rerum natura. E concludo, pertanto, con la citazione di 15 versi di questa mia fatica. A chi li leggerà si lascino gli effetti che ne deriveranno.
“Scipione, fulmine di guerra, incubo di Cartagine,
affidò le ossa alla terra come se fosse un servo
ripugnante, similmente gli scienziati e gli artisti,
non esclusi coloro che prediligono le Muse,
Omero, fra questi, l’unico, dopo che venne
insignito dello scettro, si allontanò, allo stesso
modo degli altri. E ancora, dopo che la tarda
vecchiaia ammonì Democrito che gli perivano
le memoria e la mente, volle sua sponte,
incontrare la morte e affidare il proprio capo.
Lo stesso Epicuro morì, dopo che si completò
con una eccelsa vita, e, per ingegno, si distinse
fra gli uomini oscurandoli, come il sole, sorgendo,
nell’etere oscura le stelle. E tu invero indugerai
e proverai sconcerto a morire?
*Si spinge spesso fuori dal palazzo sfarzoso
l’uomo che dentro si è annoiato…



Giovedì 05 Novembre,2020 Ore: 18:39
 
 
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