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www.ildialogo.org PER LA NATURA DI TITO, TITO LUCREZIO CARO E LA PESTE,di Sebastiano Saglimbeni

PER LA NATURA DI TITO, TITO LUCREZIO CARO E LA PESTE

di Sebastiano Saglimbeni

La peste, la peste che distrugge indiscriminatamente. Si allontana e nel tempo ritorna. Quella che scoppiò ad Atene, tra il 430 e il 425 a. C., dopo Tucidide, la descrisse Lucrezio. Ricordare questo poeta può stimolare ad una conoscenza umanistica, proprio oggi che quella lingua delle scritture dei Padri latini non viene più valutata come si deve. Nel De rerum natura di Lucrezio si legge la Poesia, che comprende la scienza della natura. Basti un solo riferimento, quello che riguarda il VI libro del poema nel quale il racconto sulla peste che si diffuse in Atene si fruisce minuzioso, dai toni grandiosi e sconvolgenti. Così il poeta, vissuto nella solitudine, elevò, con costante dedizione, quella sua breve vita, tutta sacrificata sul pensiero filosofico di Epicuro ritenuto il salvatore dell’umanità, in quanto l’aveva liberata dalle terrificanti paure delle superstizioni. Ignoto il luogo della nascita di Lucrezio. L’umanista e narratore Luca Canali alla fine del secolo scorso nel suo romanzo Nei pleniluni sereni (Milano, 1995), ha contribuito, dopo quel suo armonioso lavoro di traduzione del De rerum natura, a riscoprire ancora questo classico misterioso ed assai attuale.
Lucrezio aveva interpretato lo smarrimento dell’uomo ascrivibile alla colpa della natura (culpa naturae). Esplicitamente aveva dichiarato che tutta l’esistenza umana è un groviglio di sciagure, aprendo alle voci del pessimismo ricorrenti nella scrittura poetica dall’ Ecclesiaste al Leopardi. Le bestie, prive di ragione, sono più felici dell’uomo, né esse reclamano vestimenti diversi secondo le stagioni (nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli). Probabilmente, era nato in Campania, a Pompei, tra il 98 e il 54 a. C. e probabilmente si era formato a Roma. Lo ricordano bene l’architetto scrittore Vitruvio e Ovidio. Quest’ultimo ne vaticinò la lunghissima fama negli Amores (I, 15, vv. 23-24) cantando: “Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti,/ exitio terras cum dabit una dies”. (Allora la poesia del sublime Lucrezio sarà destinata a morire quando un solo giorno distruggerà la terra).
Oggi l’assoluta grandezza di Lucrezio viene comprovata dagli studi e dalle traduzioni. Non pochi. Da non dimenticare quella traduzione integrale, tanto sofferta, che eseguì Mario Rapisardi. Traduzione con una resa di versi endecasillabi sciolti, canzonata durante la famosa polemica che Rapisardi ebbe con il Carducci. Uno studio sul De rerum natura, di spiccato valore, divulgato nel 1994 dall’editrice milanese Garzanti, va valutato quello a firma di Francesco Giancotti, che ha tradotto nella nostra lingua, con ricca cura, i migliaia di esametri. Una fatica estenuante che ha raggiunto la settima edizione nel 2008.
Si accennava nell’incipit di questa nota alla peste che Lucrezio descrisse. Trascriviamo qui di seguito i versi tradotti nella nostra lingua da chi questo testo redige.
“Su corpi estinti di fanciulli, corpi senza anima di genitori,/avresti potuto vedere e, viceversa, figli/ lasciare la vita sulle madri e sui padri. / E quell’afflizione non si diffuse per poco dai campi/ in città: la propagò la folla languente dei contadini,/che infetta dal morbo arrivava da tutte le parti./Ingombravano tutti i luoghi e le case e, per giunta,/nella calura, ammassati, la morte li accumulava./ Una quantità di corpi distrutti dalla sete per le vie/e stramazzati vicino alle fontane giacevano distesi,/con affanno, per la troppa delizia dell’acqua;/e avresti potuto vedere in quantità, per le aree pubbliche,/per le strade, misere membra nel corpo semimorto/, spaventose per lo squallore, avvolte nei cenci, finire/ nella sozzura corporale, sulle ossa soltanto la pelle,/già presa dalle spaventose piaghe e dalla lordura/. La morte, infine, si era insediata nelle sacre sedi/ con quei corpi esanimi e tutti i templi dei numi/dovunque rimanevano strapieni di cadaveri,/ per l’afflusso degli ospiti voluti dai custodi/ Né già la fede, né la potestà degli dei/ contavano tanto: il dolore presente trionfava”.
E questa narrazione, tutta grande ed amara poesia, ci richiama la peste di questo 2020. Le cronache di ovunque ne hanno parlato moltissimo, sino alla nausea. Ne parleranno ancora. Abbiamo sentito sconosciuti, ora noti, medici e scienziati. Chi non è stato colpito non potrà ritenersi fortunato in questo prossimo fine anno 2020, mentre si spera la scoperta di una panacea.
Certamente non si vedranno, “per le strade misere membra nel corpo semimorto,/spaventose per lo squallore, avvolte nei cenci”, ma ci sarà, se non è stata colpita dall’orrido virus, gente che ha perduto il valore di vivere e con quei mali che martellano il cervello, la disoccupazione e la depressione; ci saranno ancora genti che moriranno nel nostro Paese e nel resto del nostro pianeta. Saranno, soprattutto, genti già colpite da altri mali. Ci orneremo ancora, ironia della mala sorte, con la maschera. E chi l’adopera sarà una doppia persona. *
*Maschera in lingua latina si traduce persona



Lunedì 07 Settembre,2020 Ore: 17:27
 
 
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