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www.ildialogo.org L'ERGASTOLO OSTATIVO? ... UN REGALO FATTO ALLA MAFIA O UN'OFFESA A FALCONE E BORSELLINO? LA POSIZIONE DELLA CORTE EUROPEA E DI QUELLA COSTITUZIONALE ITALIANA, ' UNA NORMA DISUMANA,' DI GIANNINO PIANA, DA ROCCA DI NOV. 2019,A CURA DI CARLO CASTELLINI

L'ERGASTOLO OSTATIVO? ... UN REGALO FATTO ALLA MAFIA O UN'OFFESA A FALCONE E BORSELLINO? LA POSIZIONE DELLA CORTE EUROPEA E DI QUELLA COSTITUZIONALE ITALIANA, ' UNA NORMA DISUMANA,' DI GIANNINO PIANA, DA ROCCA DI NOV. 2019

A CURA DI CARLO CASTELLINI

A distanza di due settimane dall'intervento della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo che ha chiesto all'Italia di riformare l'articolo 4 bis comma primo dell'ordinamento penitenziale relativo al cosiddetto “ERGASTOLO OSTATIVO”. LA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA, ne ha dichiarata l'incostituzionalità. Il motivo di tali prese di posizione consiste nella considerazione che tale norma, la quale impedisce al condannato di alcuni reati particolarmente allarmanti sul piano sociale – dalle mafie al terrorismo - di usufruire di benefici sulla pena se non collabora con la giustizia, viola il diritto – come recita la DICHIARAZIONE DEI GIUDICI DI STRABURGO - “a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti”.
La sentenza della CORTE Europea e quella successiva della nostra CONSULTA hanno suscitato (e non potevano che suscitare) forti reazioni in una parte consistente dell'opinione pubblica. La norma che ha introdotto l'ergastolo ostativo è nata infatti negli anni 1990 a seguito delle STRAGI di CAPACI e di via D'AMELIO, dunque in un momento particolarmente drammatico per l'Italia, ed ha favorito – lo si deve ricordare – la crescita dei collaboratori di giustizia, che hanno contribuito negli ultimi decenni, in maniera consistente, a sconfiggere fenomeni criminosi come quelli ricordati.
LE RAGIONI DELLE SENTENZE.
Molte delle critiche sollevate da ambedue i provvedimenti, che riguardano circa 1250 ergastolani (un terzo di quelli condannati alla massima pena), appaiano contrassegnate da allarmi eccessivi, dettati da disinformazione o da interpretazioni precipitose ed aberranti. Per questo è anzitutto fondamentale dare spazio, al di fuori di facili scandalismi, ad una lettura oggettiva (ed onesta) del contenuto dell'art. 4 bis e delle motivazioni che hanno indotto i giudici europei ed italiani ad assumere le decisioni ricordate.
Il dispositivo 4 bis, che è stato introdotto nel 1992 nell'ambito delle legge penitenziaria del 1975, esclude dalla possibilità di acceso ai benefici penitenziari, come i permessi di uscire, il lavoro all'esterno del carcere, la liberazione condizionale e le misure alternative alla detenzione, chi ha commesso delitti efferati come quelli citati, a meno che collabori con le autorità per la ricostruzione dei fatti, e l'identificazione di altri responsabili.
La mancata applicazione dei criteri normali di gestione della giustizia, è dunque legata al rifiuto di un contributo ancora utile alle esigenze investigative, anche a distanza di molti anni dal reato commesso.
Gli interventi della CORTE EUROPEA e della CONSULTA ITALIANA non mettono certo in discussione l'importanza della collaborazione fornita dagli ergastolani all'autorità di polizia o a quella giudiziaria, ma intendono affermare che loS tato non può imporre il carcere a vita a persone condannate all'ergastolo solo sulla base della decisione di non collaborare; escludono in altre parole, che la collaborazione, possa essere considerata come l'unico criterio di valutazione che consente gli sconti di pena, e rifiutano pertanto di ritenere chi non collabora come un non pentito dei suoi atti o un soggetto ancora in contatto con gruppi criminali così da costituire un pericolo per la società.
La motivazione fondamentale sta nel fatto che il rifiuto a collaborare, non nasce sempre (e necessariamente) dal mancato distacco dall'associazione criminosa, ma può essere motivato da altre ragioni: dalla paura che la collaborazione comporti un serio pericolo per la propria vita o che esponga a gravi ritorsioni i propri familiari, o ancora dalla volontà di non barattare la propria libertà con la reclusione di persone che hanno in passato compiuto azioni criminose, ma che da tanti anni non delinquono.
D'altra parte, inversamente, non è detto che la collaborazione indichi in maniera automatica un vero percorso di revisione critica della propria condotta; che significhi, in altri termini, che colui il quale collabora sia veramente pentito ed abbia abbandonato ogni rapporto con il mondo del crimine, o che la decisione di collaborare sia totalmente libera ed esente da qualsiasi motivo opportunistico.
Inoltre, e non è una ragione di poco conto, - la normativa italiana attuale, - quella del 4 bis, - impedisce al TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA di accettare il percorso rieducativo compiuto dal detenuto in carcere – percorso che spetta al giudice in tutti i casi (non escluso quello dei detenuti che offrono la loro collaborazione) accertare – per valutare caso per caso, l'effettiva rieducazione avvenuta e la possibilità di accesso ai benefici concessi dalla legge.
Le richieste della CORTE EUROPEA e della CPONSULTA ITALIANA sono finalizzate a ripristinare, anche per chi non collabora (ma non è necessariamente un non pentito) il percorso normale; percorso che suppone il passaggio attraverso il giudice di sorveglianza, mettendo fine ad un automatismo che, oltre a costituire una vera lesione dell'art. 27 della nostra COSTITUZIONE che vieta i maltrattamenti contrari al senso di umanità, finisce per impedire l'esercizio di un discernimento che è garanzia di un giudizio il più possibile oggettivo.
TRA PROTESTE INCONSULTE E LEGITTIME PREOCCUPAZIONI.
Si è già accennato alla molteplicità delle reazioni negative che soprattutto la sentenza dei giudici europei ha suscitato. Si va dalle proteste dei politici di maggioranza e di opposizione, che non hanno esitato a parlare di “ REGALO ALLA MAFIA” o di “OFFESA FATTA ALLA MEMORIA DI FALCONE E BORSELLINO” e delle tante altre vittime della mafia” - vi è persino chi come Giorgia Meloni ha definito la sentenza della Corte europea “scandalosa” - alle osservazioni più serie e sofferte dei familiari delle vittime e dei magistrati impegnati da più anni ui fronti avanzati della criminalità organizzata, i quali hanno messo in evidenza l'apertura di varchi pericolosi, che possono mettere a repentaglio, o quanto meno ad allentare la lotta alla mafia o ad altre forme gravissime di attività criminale. Il rimprovero che viene avanzato da questi ultimi riguarda in primo luogo l'incapacità di tenere in considerazione la specificità del “caso italiano”, cioè la unicità (e dunque la singolarità) delle mafie rispetto alle normali organizzazioni europee, e soprattutto, di non valutare i modo adeguato la portata del contributo fornito dai pentiti, i quali sono serviti a scardinare “dall'interno” l'organizzazione mafiosa. Il pericolo consisterebbe in questo caso, secondo diversi esponenti della magistratura, nel fatto che il superamento del regime particolare riservato ai reati ricordati, l'assenza cioè della fruizione dei benefici consentiti a tutti gli altri detenuti, e perciò il passaggio anche per mafiosi e soggetti appartenenti a pericolose organizzazioni criminali a una detenzione “normale”, scoraggerebbe ogni forma di dissociazione e di pentimento. Non ostante la rilevanza di queste osservazioni, non si può negare che l'introduzione nell'ordinamento italiano dell'art. 4 bis costituisse un'anomalia, e che pertanto le prese di posizione della Corte europea e della Corte Costituzionale italiana rappresentino una correzione ineccepibile, in quanto tese a ripristinare il principio dell'eguaglianza di tutti i cittadini (non esclusi gli autori di delitti efferati) di fronte alla legge e a porre il nostro Paese in linea con la CONVENZIONE DEI DIRITTI UMANI e con la maggior parte dei Paesi europei. In questo senso non si può che convenire con chi definisce l'intervento dei giudici di Strasburgo come una decisione di “civiltà giuridica” o con chi – come l'associazione NESSUNO TOCCHI CAINO – parla a tale proposito di “pietra miliare” dell'ordinamento penale.
LE IMPLICAZIONI DI ORDINE MORALE.
D'altra parte, anche non sottovalutando la natura speciale del caso italiano, le ricadute negative ventilate non vanno maggiorate. Molte paure sollevate non hanno ragion d'essere; nascondono motivazioni pretestuose o del tutto infondate. Così l'introduzione della correzione voluta dalla Corte europea e fatta propria dalla nostra Consulta non comporta – come qualcuno ha ipotizzato – la scarcerazione automatica dei 1250 ergastolani – il giudizio sul percorso rieducativo deve essere formulato caso per caso, dal Tribunale di Sorveglianza - ; come, a sua volta, è del tutto ingiustificato l'allarme di chi ha parlato di soppressione del regime dell'art. 4 bis, il quale non viene assolutamente toccato dalla sentenza. In realtà al di là del livello strettamente giuridico, esistono (e rivestono un'importanza particolare) le motivazioni più profonde che stanno ala base della necessità di superare l'ERGASTOLO OSTATIVO; motivazioni che chiamano in causa i fondamenti etici del diritto penale, sui quali si radica la civiltà europea (e non solo).
Ciò che con l'abolizione dell'art. 4 bis comma primo si intende affermare è infatti l'offerta a tutti della possibilità di percorsi di redenzione e di inserimento sociale, indipendentemente dalla gravità del reato commesso, dunque anche per i criminali più pericolosi. Se infatti l'obiettivo della condanna è il recupero della persona, non si può dare (in nessun caso) una detenzione disumana come quella dell'ergastolo ostativo, che introduce di fatto, dove non vi sia collaborazione, l'”ergastolo senza speranza”.
La compatibilità dell'ergastolo con i Principi della DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO e con la Costituzione Italiana sussiste infatti solo nel caso in cui risulti prevista a distanza di tempo (non più di 25 anni) una valutazione del percorso educativo effettuato, con l'accesso, nel caso di giudizio positivo, ai benefici previsti dalla legge.
Negare rilevanza all'atteggiamento complessivo del detenuto nel corso della esecuzione della pena o vincolarla a condizioni rigide e automatiche, impedisce l'opera di rieducazione. Come giustamente afferma LUCIANO EUSEBI, ordinario di DIRITTO PENALE all'Università Cattolica di Milano - “recuperare il detenuto contribuisce alla prevenzione. Una società è giusta e ha futuro se sa esprimere i criteri delle sue azioni in termini di valori antitetici a quelli della prevaricazione e della violenza”. (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019, pag. 4).
Agire per il recupero e la responsabilizzazione , restituendo ad ogni detenuto il “diritto alla speranza” non è soltanto un atto umanitario di grande significato, è anche opera di rilevante interesse sociale. La rieducazione è infatti la via per il recupero e il rafforzamento della legalità. La costruzione di una vera civiltà giuridica non può farsi strada attraverso le logiche di ritorsione, ma sempre soltanto mediante la capacità di motivare e di conseguire consenso anche da parte di chi ha commesso gravi violazioni della legge, il quale dimostra tuttavia di pentirsi disponendosi a rispettare i precetti normativi.
Uno Stato che imbocca questa strada, lungi dal poter essere considerato uno Stato debole, è piuttosto uno Stato forte. Che riconosce la dignità di ogni persona umana. E testimonia di credere fino in fondo (senza alcuna esitazione) ai valori della libertà e della democrazia. (GIANNINO PIANA, a cura di Carlo Castellini).



Mercoledì 08 Gennaio,2020 Ore: 19:06
 
 
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