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UNA SUORA ED UN ERGASTOLANO SI SCRIVONO
  Voci da silenzi diversi

Due giovani attrici scalze, vestite da monache, invitano gli spettatori a entrare nella sala. “Prego, abbiamo un po’ di tempo”, ripetono a mo’ di cantilena. Non siamo in un teatro. E gli spettatori non sono giunti dalle loro abitazioni, ma dalle celle circostanti. Siamo dentro la casa circondariale di Santa Maria Maggiore, il carcere maschile di Venezia.

La sala della struttura penitenziaria per un giorno diventa palcoscenico di una singolare “prima”: va in scena “Il silenzio”, piece teatrale della compagnia pugliese il “Teatro della fede”. Vi si rappresenta la quotidianità, i pensieri, i sentimenti delle donne che hanno scelto la vita monacale. La clausura, recitata davanti a chi è costretto a un’altra clausura, stavolta forzata, punitiva. Due realtà lontanissime tra loro, che in comune, però, hanno più aspetti: spazi angusti, regole e tempi precisi, dettati da altri e il silenzio, appunto, che può essere liberante, ma anche tormento notturno.

L’incontro tra questi due mondi è stato pensato dal regista e fondatore della compagnia, Alfredo Traversa, che ha preso spunto dal libro “Silenzio amico” del giornalista Giampiero Beltotto: un’intervista alle monache trappiste dei monasteri di Valserena e Vitorchiano e le risposte delle religiose al popolo della rete, tramite un blog. “Ho portato in scena le parole di queste donne che prendono corpo grazie alle attrici”, spiega il regista. Ne esce l’immagine di persone che, ben lungi dall’essere fuori dal mondo, delle “sepolte vive”, amano, soffrono e gioiscono, pregano e lavorano. Le monache parlano senza falsi pudori di amore, sessualità, Dio, maternità e contemplazione, scardinando luoghi comuni. “Abbiamo voluto iniziare la tournee dalle carceri, cercando un dialogo tra chi vive in convento e chi è recluso in prigione. Questo è il teatro civile che prediligo”, conclude il regista.

Abbiamo chiesto a una monaca di clausura di Valserena e a un ergastolano ostativo (quello senza benefici, che condanna a una morte lenta) di raccontarsi, di gettare un ponte sul vuoto che separa prigione e convento. La lettera di Carmelo Musumeci è un manifesto contro l’ergastolo; quella di suor Francesca un ponte realizzato col solo mattone che può reggere la tensione di un arco così esteso: la preghiera.

Alberto Laggia

Sorella Francesca,

anzitutto mi presento: sono per legge un cattivo e colpevole per sempre. Non sono né morto né vivo. Sono uomo ombra (così si chiamano gli ergastolani ostativi fra loro) prigioniero nell’Assassino dei Sogni di Padova (così i prigionieri chiamano il carcere) condannato alla “Pena di Morte Viva” (così è chiamato l’ergastolo ostativo, che esclude qualsiasi possibilità di morire un giorno da uomo libero).

Sorella Francesca, la mia vita è un inferno perché per me non ci sono più speranza, futuro e compassione. Solo sofferenza perché il tempo passa e non abbiamo più nulla da aspettare. Siamo destinati per tutta la vita a stare nell’ombra e a morire di vecchiaia murati vivi nelle nostre celle.

Sorella Francesca, nel medioevo ti ammazzavano, ti cavavano gli occhi, ti tagliavano un braccio, ma il dolore non durava per sempre. Ora invece l’ergastolo ostativo è nello stesso tempo una pena di morte, una tortura e un dolore all’infinito. Un vero e proprio incubo a occhi aperti, in cui non è possibile svegliarsi.

Sorella Francesca, ho due figli, due nipotini e una compagna che mi stanno aspettando da ventidue anni inutilmente, perché di me avranno solo il cadavere. Per questo, a volte, la sera quando chiudo gli occhi spero al mattino di non aprirli più. E ieri sera ho parlato tutta la notte con la mia ombra proiettata sul muro della cella. Lei si specchiava nel mio cuore. Io nei suoi occhi. Lei si sentiva me. Ed io mi sentivo lei. A un tratto abbiamo fatto un profondo respiro tutte e due. Poi ci siamo guardati negli occhi. E le ho sussurrato: “È una buona serata per morire.” La mia ombra mi ha risposto: “Non è però un buon posto”. Le ho ripetuto: “Un luogo vale l’altro”. Lei mi ha replicato: “Questo lo dici tu”. Poi siamo scoppiati a piangere. E ci siamo abbracciati.

Sorella Francesca, devi sapere che gli uomini ombra vivono al buio. E di Dio non possono che vedere solo la sua ombra. Per questo ti chiedo di non pregare per me. Io non lo merito (e poi credo di non credere). Ti chiedo di pregare per tutti gli uomini ombra, perché dopo venti anni, o anche trenta, molti di noi vivono ormai una vita vegetativa senza volontà, né desideri, né sogni.

Sembriamo umani azzerati, non più figli di Dio, ma solo frutto della malvagità degli uomini che ci hanno condannati senza speranza ad essere, e a rimanere, cattivi e colpevoli per sempre.

Sorella Francesca, puoi dire tu ai “buoni” che la migliore difesa contro l’odio è l’amore e la migliore vendetta è il perdono? Diglielo tu che dopo tanti anni di carcere non si punisce più quella persona che ha commesso il crimine, ma si punisce un’altra persona che con quel crimine non c’entra più nulla.

Sorella Francesca, mi ha fatto bene scriverti, hai un bel nome che mi ricorda San Francesco. Un sorriso fra le sbarre.

Carmelo Musumeci

Carcere di Padova giugno 2013

 

Carissimo fratello carcerato,

è con timore e tremore che mi accosto a te. Non so da che esperienza vieni, non so perché sei dove sei, non so come vivi questo tempo di privazione della cosa più grande e che fa la persona umana immagine di Dio sulla terra: la libertà. Non voglio offendere il tuo dolore, né poco considerare il tuo cammino, ma una parola di speranza e di amore vi potrà venire forse da persone che hanno scelto liberamente, per amore, alcune limitazioni che voi vivete per legge.

Le monache di clausura vivono in uno spazio fisicamente ristretto e non usciamo dal monastero. La nostra giornata è delimitata da un orario comunitario, che scandisce il nostro tempo, segnando il momento in cui ci raduniamo in chiesa per pregare insieme con il suono, sempre così bello per me, della campana che diventa la voce del Signore che raduna il suo gregge. Abbiamo scelto la povertà di vita: non possediamo beni. Quelli che servono per la comunità sono amministrati dal monastero e provengono dal nostro lavoro, non da donazioni o beneficenza. “Sono veri monaci quando vivono del lavoro delle loro mani”, ci dice san Paolo e ci ricorda la regola di San Benedetto che abbiamo scelto. Facciamo tanti lavori, anche quelli umili che nella nostra società ormai sono riservati agli immigrati, ai più poveri, come la coltivazione della terra. Viviamo così, perché il Signore ha vissuto così.

Non abbiamo una famiglia. Abbiamo scelto il Signore: o meglio il Signore ha scelto noi, è Lui la nostra famiglia; la nostra fecondità femminile, il destino sponsale che ogni donna sente nel profondo dell’anima come suo proprio è occupato dalla Sua persona e di coloro che sono i suoi privilegiati, la sua chiesa, le sorelle con cui ci chiama, i suoi fratelli nel mondo, quelli che come voi portano un pezzettino della sua croce. Abbiamo accettato di avere il cuore libero da un amore particolare perché potesse dilatarsi a un amore universale.

Siamo qui perché qui abbiamo intravisto la possibilità di costruire un pezzo di mondo nuovo, aperto ad accogliere la misericordia di Dio, nelle condizioni umane povere come sono quelle di un gruppo di donne senza particolari mezzi, salvo quelli di un progetto di fraternità; un piccolo segno della redenzione di Cristo. Quella che aspetta te per esser compiuta. Quella redenzione che è la speranza di ogni uomo.

Caro fratello carcerato, conosci già il Signore? In questo spazio chiuso che è il monastero c’è la realtà della sua chiesa viva che trasforma un pezzo di terra in un angolo di cielo. I nostri mezzi non sono diversi da quelli che potreste avere voi: la Parola di Dio, la solitudine, il cuore abitato dalla preghiera. Anche lo spazio chiuso del tuo carcere può diventare uno spazio di cielo, se lasci che lì abiti il Signore. Tanti testimoni della fede hanno vissuto in carcere per essa. Anche la tua vita può trasformarsi in una grande testimonianza di fede. Ti auguro ciò con tutto il cuore.

Suor Francesca

Da Famiglia Cristiana n.36, 08 Settembre 2013



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Venerdì 06 Settembre,2013 Ore: 15:42
 
 
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