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www.ildialogo.org Comunità dell'Isolotto: Due relazioni pubblicate da ADISTA sull'incontro di ottobre per  i 50anni della comunità<br />Luciana,a cura da Comunità dell'Isolotto

Comunità dell'Isolotto: Due relazioni pubblicate da ADISTA sull'incontro di ottobre per  i 50anni della comunità
Luciana

a cura da Comunità dell'Isolotto

Da ADISTA DOCUMENTI – N.5 – 9 febbraio 2019
DOC-2966. ROMA-ADISTA.
Non nostalgia, ma memoria. Non apologetica, ma rigorosa ricostruzione di un percorso e di un patrimonio ecclesiale e politico tra i più significativi della storia ecclesiale del nostro Paese e per l’incontro ed il dialogo tra laici e credenti, comunisti e cattolici, parrocchia e quartiere-territorio. È ciò che ha fatto, il 27 ottobre 2018, la Comunità dell’Isolotto, con la giornata di dibattito e riflessione sul tema: “1968-2018: eppure il vento soffia ancora”.
La giornata si è aperta in una prospettiva “internazionale” che ha collocato la vicenda dell’Isolotto nella dimensione delle grandi trasformazioni sociali, ecclesiali e politiche dell’epoca. E nel contesto fervido e straordinario del cattolicesimo fiorentino del dopoguerra, segnato da grandi figure come quelle di don Lorenzo Milani, don Luigi Rosadoni, don Giulio Facibeni, p. Ernesto Balducci, p. David Maria Turoldo, don Bruno Borghi, ecc. Lo ha fatto con la presentazione di un vecchio libro di Jacques Servien (pseudonimo di Philippe Renard, studioso e giornalista, docente presso il titolato Istituto francese di Piazza Ognissanti di Firenze e corrispondente di Le Monde). Il libro si intitolava L’experience chretienne de l’Isolotto e uscì nel 1969 per i tipi delle Editions du Seuil. La Comunità lo ha ristampato per l’occasione e la mattina del 27 ottobre lo ha presentato ed illustrato grazie ad Anna Scattino, ricercatrice presso il Dipartimento di Studi storici e geografici dell’Università di Firenze. E curatrice dell’opera.
Alla presentazione del libro è seguita una tavola rotonda coordinata dal nostro redattore, Valerio Gigante, alla quale hanno preso parte Pietro Giovannoni (che ha ricordato la stagione di La Pira a Firenze, al tempo stesso premessa e interlocutrice di quei fermenti ecclesiali e politici), Sergio Tanzarella (che ha analizzato il modo con cui l’esperienza dell’Isolotto abbia messo solide e feconde radici nella Chiesa e nella società italiana) e infine con Alessandro Santagata, storico contemporaneista particolarmente attento ai temi ecclesiali e redattore di Adista (che ha offerto una riflessione sulla “memoria” del Sessantotto attraverso i documenti che le Comunità Cristiane di Base hanno elaborato nel corso dei “decennali” in cui hanno successivamente riflettuto ed analizzato quegli eventi). Di questa intensa giornata presentiamo la breve relazione introduttiva di Valerio Gigante e il saggio di Santagata.
TRE VOLTE GRAZIE! Valerio Gigante
Buongiorno. Sono Valerio Gigante, da tanti anni parte del collettivo redazionale di Adista. Io, al contrario degli altri relatori a questa tavola rotonda, non sono uno storico nel senso “accademico” del termine, ma mi sono spesso occupato di storia, e di storia del movimento cattolico in Italia. E di storia dell’Isolotto. Introduco brevemente i lavori auspicando – come è nello specifico di ogni tavola rotonda e come è nella tradizione dell’Isolotto – che ci sia da parte dell’assemblea la più ampia partecipazione possibile. Chiedo quindi a Sergio Tanzarella, Alessandro Santagata e Pietro Giovannoni un primo giro di brevi interventi affinché loro possano poi più agevolmente interloquire con le sollecitazioni che arriveranno da chi li ascolta. Premetto che mi sono occupato molto di Isolotto, sia perché il fascicolo di Adista, che trovate all’interno della cartellina, è un numero speciale dedicato ai 50 anni della comunità, sia perché la storia di Adista si è spesso intersecata, talvolta intrecciata, con quella della comunità dell’Isolotto. Proprio per questa ragione sono venuto a dire grazie alla comunità dell’Isolotto da parte del collettivo di Adista. Anzi, per la verità sono venuto a dire tre volte grazie! Il primo grazie lo dico perché Adista è stata “convertita” dall’Isolotto. Adista nasce nel 1967, un po’ prima della nascita “ufficiale” della Comunità di Base, come organo di informazione della Sinistra Indipendente che Adriano Ossicini e Ferruccio Parri stavano costituendo in Parlamento, come esperienza di sinistra autonoma ma collegata con il Partito Comunista Italiano. Nasce come agenzia di informazione dal taglio abbastanza istituzionale, che doveva rappresentare un ponte nel dialogo tra il cattolicesimo politico e la sinistra, in particolare i comunisti. Ci occupavamo di questioni parlamentari e partitiche, di politica politicienne insomma, oltre che dei rapporti tra settori della Chiesa e istituzioni, ad ovest come nei Paesi dell’est, dove i partiti comunisti erano al governo e dove si stavano aprendo spazi inediti di dialogo anche con i credenti. Poi però, alla fine del 1968, arriva il caso Isolotto. Prima l’occupazione della cattedrale di Parma, di cui Adista pubblica tutti i comunicati redatti dagli occupanti. Poi la lettera di solidarietà ai giovani cattolici di Parma scritta dalla comunità dell’Isolotto, anch’essa integralmente pubblicata da Adista. Poi l’informazione sul putiferio che tale solidarietà scatena da parte del vescovo Florit e dell’istituzione ecclesiastica. Insomma, tra il 1968 e il 1969 proprio il caso Isolotto apre l’informazione di Adista al fervore dei movimenti e soprattutto a quel particolare fermento che stava attraversando il mondo cattolico di base, sottraendo progressivamente la rivista a quell’informazione un po’ “paludata” che l’aveva sino ad allora caratterizzato. E non a caso Adista, progressivamente, ma ineluttabilmente, si staccherà dalla Sinistra Indipendente per diventare, tra la metà e la fine degli anni ‘70, l’espressione di un cristianesimo “plurale”, nella Chiesa, tra le Chiesa cristiane, dentro il popolo di Dio. E veniamo al secondo grazie. Noi oggi siamo qui per fare “memoria” dei 50 anni dell’Isolotto; il che significa che ricordando criticamente trasformiamo questo ricordo in elemento di azione feconda nel presente. E allora non possiamo ignorare che questi 50 anni abbiano rappresentato quella che mi verrebbe da definire, se non fosse troppo trionfalistico, una vittoria delle ragioni che hanno caratterizzato il nostro impegno politico ed ecclesiale. Se non abbiamo ottenuto una vittoria abbiamo prodotto delle trasformazioni indelebili nel tessuto della Chiesa e della società italiana. Se la Chiesa e la società italiana sono quelle che sono, è anche e soprattutto grazie ad esperienze come quelle dell’Isolotto. Pensiamo alla dialettica tra una Chiesa intesa come istituzione-autorità e una Chiesa intesa come “comunità”; oppure l’idea del “pastore che pascola il gregge” contrapposta a quella del popolo di Dio in cammino. Sono istanze fortemente collegate a quelle portate avanti a partire dal 1968 dalla Comunità dell’Isolotto e da altre esperienze analoghe. L’opinione pubblica cattolica, sollecitata da questo tipo di istanze, ha trasformato profondamente la Chiesa istituzione, inducendola ad operare delle discontinuità rispetto al passato che solo poco prima degli anni ‘60 sembravano inimmaginabili. Lo stesso è successo nella società italiana, che in pochi anni ha indotto il Parlamento a varare leggi come quella sul divorzio e sull’aborto, fino al testamento biologico e alle unioni civili, arrivato in seguito ai casi Welby ed Englaro che hanno prodotto non un dibattito parlamentare asettico e scollegato da quanto avveniva nella realtà quotidiana, ma hanno raccolto quanto il mondo laico – ma anche gran parte del mondo cattolico – innervava la società e il dibattito pubblico. Diceva Enzo Mazzi che la Chiesa si è sempre molto preoccupata di tutto ciò che avviene prima dell’inizio della vita e di quello che avviene quando la vita finisce. Ma assai poco si è preoccupata di tutto quello che sta in mezzo, che invece dovrebbe essere ciò che in ultima analisi deve stare veramente a cuore ad una comunità viva e vera di credenti. Ebbene, è stata questa parte della Chiesa, quella che voi rappresentate, a portare i problemi della vita, quella vera degli uomini e delle donne crocifissi della storia, alla ribalta ed alla attenzione di un potere che li aveva tradizionalmente ignorati. Di questo movimento l’Isolotto non è però stato solo “parte”, ma è stato parte preponderante perché qui all’Isolotto avviene un processo che raramente si riscontra in contesti diversi da questo, ossia una saldatura tra comunità eccelsale e quartiere, legata credo anche alla composizione sociale e di classe di questo territorio, una unità tra credenti e non credenti, comunità parrocchiale ed organizzazioni della sinistra diffusa che precorre di molto la fine di quella unità dei cattolici in politica, che è un altro dei grandi successi della stagione di lotta e di impegno delle comunità cristiane di base e che noi dobbiamo continuare 14 Adista 9 FEBBRAIO 2019 • N. 5 a rivendicare. Nonostante i tanti arretramenti e le sconfitte, ci sono conquiste, diritti, avanzamenti nella coscienza collettiva, progressi nella società e nella Chiesa che restano e che difficilmente potranno essere cancellati. E questo noi dobbiamo continuare a rivendicarlo. Poi, il terzo grazie: è il grazie per il “noi”. Ho chiesto di titolare il numero speciale di Adista dedicato all’isolotto “Il noi che si fa storia”. Quello che di questi 50 anni resta come testimonianza incredibile, oltre che ineliminabile, è il superamento dell’idea di comunità come realtà guidata da una forte personalità, o da una serie di “singoli” dotati di particolari doti o carismi – come Enzo, o Sergio Gomiti – che tentano di cambiare lo stato di cose presenti; l’Isolotto realizza attraverso la sua peculiare vicenda l’idea che solo in una dimensione collettiva, dove ogni “io” si scioglie nel “noi”, i grandi obiettivi possono essere realizzati. Per quanto Enzo Mazzi sia stato un gigante della storia ecclesiale e politica di questo Paese, senza la comunità che lo ha sostenuto, senza le circa 400 persone che si sono autodenunciate nel celebre processo terminato nel 1971; senza la scelta di un’intera comunità che smette di partecipare alle celebrazioni dentro la chiesa parrocchiale – mura che ormai rappresentavano il simulacro vuoto di un’istituzione che parla solo a se stessa – per celebrare in piazza e comunicare con il mondo; senza quel “noi” nessun “io” avrebbe mai ottenuto tutto ciò che l’Isolotto (e il movimento delle Comunità di Base, e i tanti altri “noi” che dentro la Chiesa si sono ritrovati assieme), è riuscito, dopo molti sforzi e a caro prezzo, a ottenere. L’identità individuale, ci insegna l’Isolotto, si realizza pienamente solo in quella collettiva. Ed è questo l’ultimo e il più profondo grazie che io – proprio perché lo faccio non come singolo individuo, ma come parte del collettivo di Adista – mi sento di rappresentarvi qui oggi.
lL’ISOLOTTO E LA MEMORIA DEL SESSANTOTTO Alessandro Santagata
In questo intervento mi propongo di fare alcune considerazioni su come la Comunità dell’Isolotto ha coltivato la sua memoria della frattura del Sessantotto: un momento costituente per una comunità che pure aveva già alle spalle una storia pastorale e politica. Prima di entrare nel merito, vorrei osservare che una delle caratteristiche di questo cinquantenario è stata la tendenza a recuperare un’immagine complessivamente positiva del Sessantotto, dopo gli attacchi violenti della fine degli anni Novanta. In questo contesto si è parlato, più che in passato, anche dei cattolici, con alcune operazioni tese a mettere in secondo piano le esperienze della sinistra post-conciliare per fare posto, per esempio, a Gioventù studentesca. Ecco allora che mi sembra particolarmente importante tornare a occuparsi dell’Isolotto, non solamente per la sua connessione evidente con le parole d’ordine di una certa visione del post-Concilio, ma anche perché l’Isolotto è stato un laboratorio della memoria del Sessantotto, già a partire dai primi anni Settanta e fino alla più recente messa a disposizione di un importante archivio storico sulle Cdb in Italia (si veda la guida Tracce di percorsi comunitari, a cura di Barbara Grazzini che offre una mappatura degli archivi delle Cdb in Italia). Come cercherò di mostrare, la comunità ha riflettuto e scritto molto sul proprio percorso, facendo dei decennali un’occasione importante per tirare di volta in volta nuove conclusioni. Si tratta quindi di una memoria dinamica, come del resto lo è sempre la memoria, ma che presenta anche una sua organicità. Proverò a elencare i tratti principali. Le prime riflessioni I primi documenti che ho preso in esame risalgono agli anni Settanta. Dopo l’uscita, a breve distanza, dei due famosi testi editi da Laterza (Isolotto 1954/1969 e L’Isolotto sotto processo), nel 1973 viene pubblicato Liberarsi e liberare, che riproduce la documentazione delle assemblee svoltesi dopo la conclusione del processo e dedicate alla discussione sul futuro della comunità. L’introduzione è di Marco Bisceglia. Negli interventi si parla del cambio di strategia della Chiesa, che dopo il tentativo di repressione della comunità nel 1968 sarebbe passata alla strategia del «soffocamento lento», lasciando la comunità nel silenzio e nell’isolamento e procedendo alla «restaurazione» della parrocchia. Enzo Mazzi, che dell’Isolotto è ancora la personalità di maggiore spicco, ricorda che la comunità non si può più considerare come un passaggio provvisorio in vista di un inserimento nelle lotte sociali, ma, nello stesso tempo, invita ad andare avanti senza sovrapporsi alle organizzazioni del movimento operaio. Nel corso dei lavori assembleari si stabilisce che si proseguirà con la messa in piazza e con l’assemblea del mercoledì. Insomma, sono i primi passaggi di una comunità che ha iniziato ad assumere una nuova fisionomia, la stessa che cerca di condividere a livello nazionale nella rete delle Cdb. Per trovare un primo vero e proprio bilancio, anche in relazione al Sessantotto, bisogna arrivare al primo decennale. Relativamente alle celebrazioni del ventennale, è stato scritto che il Sessantotto fu riletto nella memoria pubblica in maniera più articolata, ma con un esercizio retorico volto a tracciare una divisione netta tra un Sessantotto “buono” – quella della modernizzazione dei costumi – e uno “cattivo”, quello politico, che aveva portato al terrorismo. Ecco, niente del genere è ravvisabile nell’articolo “La comunità dell’Isolotto venti anni dopo”, pubblicato da Mazzi sulla rivista La Sinistra. L’autore scrive che «la riappropriazione dal basso della memoria storica costituisce la stella polare del nostro orientamento esistenziale». Il concetto di “riappropriazione” viene esteso alla Parola, ai sacramenti, all’ecclesia come comunità. È interessante notare che il discorso di Mazzi si muove an- cora pienamente nella cornice dell’emancipazione operaia e della realizzazione di una società socialista. Dal punto di vista strettamente politico è invece il decennale successivo a segnare una discontinuità. Nel 1998 siamo ormai nel pieno degli attacchi alla memoria dell’antifascismo e alla Resistenza, dopo la fine della guerra fredda e Mani Pulite. Mentre il Sessantotto è di nuovo sotto accusa, l’Isolotto continua a riflettere su se stesso in un libro uscito per la Lef, Oltre i confini, che contiene l’ottima prefazione di Michele Ranchetti. Nell’introduzione si evidenziano i tratti di crisi del tempo presente, dominato dall’ideologia individualistica e neo-liberista, ma anche i successi ottenuti delle comunità, per esempio per il ruolo che ha avuto Incontro a Gesù (il “catechismo” dell’Isolotto) nella riforma catechetica nazionale. Nel testo che chiude il libro, a firma della comunità, si ribadisce che «il tempo dell’utopia non corrisponde a quello della storia». Del biennio ‘68-‘69 si legge: «Noi quelli anni li abbiamo vissuti come segni di un processo di trasformazione dal basso, un immenso tentativo di unificazione del mondo nel segno della speranza». Colpiscono le parole con le quali si propone anche un primo ripensamento storico-critico delle origini: «Riponevamo forse troppa fiducia nel fatto che il movimento operaio avesse in sé le potenzialità per alimentare i movimenti di trasformazione. La sensazione è che alla fine non abbiamo potuto partecipare fino in fondo né ai processi di trasformazione della Chiesa, perché lo ritenevamo insufficiente, né a quelli della società, perché così la nostra identità l’avevamo persa». Potrei dilungarmi su questo punto, che già Girardi nel 1982 individuava come il limite principale della sinistra cattolica post-conciliare, cioè la paura dell’integrismo che, a suo avviso, avrebbe impedito alle Comunità di Base di portare un contributo qualitativo, e non solo quantitativo, al movimento operaio italiano. Ma arriviamo ai tempi più recenti. La memoria negli anni Duemila I quarant’anni dal Sessantotto sono stati celebrati piuttosto in sordina e in maniera abbastanza ripetitiva rispetto agli schemi retorici che vi ho sopra descritto. Ancora una volta, questo discorso non vale per l’Isolotto, che già nel 2000 pubblica un libretto, Il mio ’68, che contiene le testimonianze dei suoi attivisti. La premessa è di Lidia Menapace. Le conclusioni sono un racconto di Mazzi che presenta alcuni concetti sui quali tornerà in Cristianesimo ribelle (2008) e in una serie di articoli usciti nel corso del quarantennale. Provo a elencarli in sintesi: il parto dell’Isolotto come figlio del Sessantotto; le comunità come “segno” e “profezia” di un cristianesimo diverso, non più comandato dal sacerdozio e che non esclude più le donne; la repressione di fronte a un’esperienza che ha fatto paura per il suo essere avanguardia e che è stata colpita, per questo motivo, da un «intreccio perverso fatto di massoneria pidduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo e mafia». Mazzi ricorda che la magistratura non ha mai inquisito i neofascisti che attaccarono l’Isolotto, mentre si è ricorso alle stragi per fermare il movimento. Scrive Mazzi: «si era venuti a sapere perfino che bruciavano per troppo intensità i collegamenti fra il Comando della Nato e i comandi territoriali dell’Esercito a causa delle vicende dell’Isolotto. Si temeva un cedimento del baluardo anticomunista costituto dalla Chiesa». Il discorso prosegue nella critica alla storiografia dominante, che avrebbe rappresentato un solo Sessantotto, ignorando per esempio, i cattolici di base. Così come sarebbe stato sottovalutato il rapporto locale/globale (che invece era distintivo dell’Isolotto) e che dovrebbe spingere (tra gli altri fattori) a non considerare il “dissenso cattolico” come separato dal Sessantotto tutto. Per Mazzi, la speranza, la cui gestazione planetaria è stata l’anima del Sessantotto globale, non è morta ma rimane come forma di “segno” nella comunità, la cui storia non è ancora conclusa. Come ho accennato all’inizio, in tempi ancora più recenti Mazzi e la comunità sono tornati a battere sul tasto dell’importanza della memoria come fattore di resistenza culturale contro l’omologazione neoliberista (si veda il saggio “La frontiera della memoria” in Il processo dell’Isolotto, edito da manifestolibri nel 2011, l’anno della scomparsa di don Enzo). Sono nati da questa convinzione anche l’autobiografia collettiva a firma di Sergio Gomiti, L’Isolotto una comunità tra Vangelo e diritto canonico e il lavoro per la valorizzazione degli archivi. Negli ultimi dieci anni si è accentuata anche la consapevolezza della crisi complessiva che ha travolto sinistra e cattolicesimo sociale. E su questo punto vorrei spendere alcune parole di conclusione. In questa breve relazione spero di essere riuscito almeno a indicare gli elementi principali della memoria dinamica del Sessantotto elaborata all’Isolotto: la consapevolezza del ruolo di “avanguardia” della comunità; la percezione di essere stato per questo oggetto di una repressione ecclesiastica e politica; la graduale presa di coscienza dei limiti dell’esperienza comunitaria e gli sforzi per implementare il deposito originario dal punto di vista teorico e pratico; l’importanza crescente attribuita alla conservazione della memoria in direzione ostinata e contraria rispetto alle dinamiche della memoria pubblica del Sessantotto, e con alcune intuizioni interpretative sul rapporto tra “contestazione ecclesiale” e Sessantotto che solo recentemente sono state accolte pienamente anche dalla storiografia. È chiaro che agli occhi dello storico i testi che ho analizzato sono da leggere come frammenti di un lungo processo di autorappresentazione e come tali vanno anche decostruiti nel quadro di una comunità in cui sono confluite più generazioni, ma che proprio dopo i “lunghi anni Sessanta” ha incontrato difficoltà crescenti di ricambio generazionale. Solo in questo modo penso che sia possibile anche provare a interrogarsi sulla crisi della sinistra cattolica di base e, più in generale, sui caratteri della fine della parabola politica del Novecento, al cui interno si inserisce pienamente anche la storia dell’Isolotto. La comunità si è sempre percepita come un “segno” in un mondo molto più ampio del quartiere, della città e della diocesi. Il fatto stesso oggi di essere qui a discutere del suo passato e dalla sua memoria, liberamente e senza preconcetti, non è solo una bella opportunità, ma anche una testimonianza cha ha un valore in quanto tale.



Martedì 26 Febbraio,2019 Ore: 15:34
 
 
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