Per un nuovo protestantesimo

Riflessioni e visioni  di un "protestante storico"


di Aurelio  Penna

SOMMARIO

Premessa: Chi sono io?       2

Introduzione       5

Parte  Prima

ANALISI DELLA SITUAZIONE

Torna la ricerca  del sacro       6

Il grande banchetto       6

Chiese storiche e chiese carismatiche       8

Aspetti positivi e negativi della chiese carismatiche          9

Aspetti positivi e negativi delle chiese storiche             11

Parte  Seconda

STRATEGIE

          Premessa            14

Uno stato di crisi latente               16

Dare spazio (anche) alle emozioni         17

Centralità del culto               18

Il culto: comparazione tra chiese storiche e carismatiche    19

Segni di ricerca e di rinnovamento         21

Strategie verso l’interno             22

Formazione                 22

Evangelizzazione        22

Preghiera            23

Strategie verso l’esterno             24

Cattolici              24

Evangelici          25

Mondo                         26

L’uso dei media radio-televisivi             27

Premessa: Chi sono io?

Penso sia  opportuno far precedere   questo testo da  una  breve autobiografia, sia perché è doveroso presentarsi, sia  perché può essere utile "storicizzare" quanto dirò. Infine, perché può giovare anche a me riconsiderare il mio percorso di  vita e soprattutto di credente.

Dunque: chi sono io?

Ecco una bella domanda.  Esistenziale.

Sono molti "io", come tutti. 

Ma in questo contesto appare  solo il mio essere  italiano, protestante, nella fattispecie  protestante "storico".  E’ importante la specificazione?

Sì e no.  E’ importante perché essa definisce il mio background culturale, il taglio specifico del mio essere protestante (italiano).  Non è importante, perché non ho mai sentito il denominazionalismo come un valore.  Semmai come un peso, una pietra d’inciampo, uno snobismo.

Definirei la mia personale posizione come "trasversale".

Io mi considero essenzialmente un cristiano, poi protestante (o evangelico, che mi sembra  più consono, anche se il termine "protestante" rappresenta più appropriatamente la radicalità di un atteggiamento).

Aggiungerei: con un’apertura  evangelicale, secondo la lucida definizione che ne dà il McGrath[1]: "Il termine viene ora utilizzato largamente per indicare una corrente transdenominazionale della teologia e della spiritualità, che pone una particolare accentuazione sul ruolo della Scrittura nella  vita cristiana. L’evangelicalismo può essere attualmente identificato in base a un insieme di quattro presupposti:

1. l’autorità e la sufficienza della Scrittura;

2. l’unicità della redenzione mediante la morte di Cristo in croce;

3. la necessità di una conversione personale;

4. la necessità, l’opportunità e l’urgenza della evangelizzazione.

Si tende a considerare tutti gli altri argomenti come adiaphora, "argomenti di secondaria importanza", su cui è possibile accettare una sostanziale  pluralità di posizioni. …L’evangelicalismo non si è mai identificato con una particolare  concezione della chiesa, considerando il Nuovo Testamento aperto a una serie di interpretazioni su questo argomento, e ritenendo le caratteristiche distintive delle singole denominazioni di importanza relativa rispetto all’evangelo stesso".

Classe 1932, sono stato allevato, come la maggior parte degli italiani, in un ambiente cattolico "tiepido", che sembrava l’unica possibilità di affrontare la tematica religiosa.

Fin da bambino sono stato sempre estremamente sensibile alla dimensione di fede, molto meno a quella di struttura ecclesiastica (e di conseguente autorità).

Nondimeno, da ragazzo  ho frequentato con discreta ma abbastanza distaccata assiduità la chiesa (cattolica).

Ho vissuto anche una breve, intensa stagione (fondamentale per la mia formazione e che ricordo ancora in senso molto positivo) di scoutismo - anch’esso cattolico.

Di pari passo con l’attrazione per il divino cresceva in me l’avversione per l’istituzione ecclesiastica conosciuta, soprattutto a causa di alcuni suoi aspetti: autoritarismo, dogmatismo, ritualismo.

Dotato di una grande curiosità, sempre alla ricerca di esperienze e conoscenze nuove, intorno ai diciotto anni fui spinto istintivamente a conoscere il mondo protestante, che dall’esterno mi pareva fortemente alternativo e antagonista, soprattutto a livello di costume; anche se quanto avevo studiato sui manuali scolastici suscitava in me riserve e perplessità (soprattutto la questione della predestinazione).

L’impulso a superare le iniziali riserve  nacque dal desiderio di controllare dal vivo e fu stimolato da un approccio letterario (i romanzieri americani) e anche filmico: mi attraeva la "laicità" dei pastori, il fatto che non erano sacerdoti, ma laici, che vestivano in modo "normale" e avevano una normale vita di relazione (affettiva, sessuale).

Dopo avere consultato l’elenco telefonico di Milano - la mia città, allora - entrai in una chiesa metodista (corso Garibaldi): una scelta casuale, ma il nome metodista aveva per me risonanze più seducenti che non valdese o battista.

Fu amore a prima vista.  Completamente conquistato, con l’entusiasmo e il coinvolgimento con cui ho sempre affrontato - e continuo ad affrontare - le cose che mi attraggono, mi gettai a capofitto nella nuova esperienza. Ebbi intensi colloqui con alcune belle figure di pastori (Leali, Ferrari, più tardi Vergnano) e con un predicatore, eccezionale per vocazione, carisma  e ricchezza umana (Giuseppe Anziani).

Per la chiesa organizzai il punto vendita dei libri, il gruppo giovanile, i contatti con i gruppi giovanili delle altre chiese evangeliche, studiai teologia, divenni predicatore (all’epoca si chiamava "laico") e predicai in numerose chiese del Nord.

Dopo qualche anno  l’iniziale zelo attivistico si attenuò e infine si spense: per due motivi.

Da un lato l’ambiente ecclesiastico mi aveva un piuttosto  deluso (lo trovavo un po’ formale, freddo, ripetitivo, alquanto conformista, lontano dalla "vita").  Dall’altro lato sentivo prepotente lo stimolo di conoscere il "mondo" e di misurarmi con esso.

Affrontai nuove esperienze. Facevo allora un lavoro molto lontano dalle mie aspirazioni (impiegato di banca), studiavo assai faticosamente la sera per conseguire la laurea (che conquistai vari anni dopo: Scienze Politiche), ebbi esperienze sindacali e soprattutto - a lungo - politiche, mi dedicai al giornalismo, che divenne in seguito la mia professione, vissi intensamente la vita di relazione propria di un giovane.

Mi ero allontanato dalla chiesa, ma non da Dio, che era sempre in fondo al mio cuore; tanto che decisi di esercitare il mio impegno politico non nel Partito comunista, perché ispirato a una ideologia ateistica, bensì nel Partito socialista (e in esso nella sinistra).

La mia ansia di sempre nuove esperienze mi ha condotto a vivere una vita professionale estremamente varia e diversificata: non mi interessava la "carriera" e il denaro, quanto piuttosto la conoscenza della multiforme realtà del mondo.

I settori nei quali ho operato sono stati sia quello della comunicazione (tanto come giornalista che come pubblicitario), sia quello del marketing e della gestione aziendale: un patrimonio di esperienze "mondane" che credo di poter mettere a disposizione dell’Evangelo.

Sull’onda del Sessantotto ripresi i contatti con le chiese (quelle storiche, della Federazione), che mi parevano bene inserite nella  decisiva trasformazione che il mondo stava attraversando. A quell’epoca nacque una fervida collaborazione col pastore metodista di Milano, Valdo Benecchi, uomo di grande levatura intellettuale e morale e lavoratore infaticabile. In quegli anni si cementò anche una solida amicizia con Gigi Ranzani, che mi colpì soprattutto per l’acuta intelligenza e la straordinaria capacità critica.

 Ancora predicazione e poi iniziative varie di evangelizzazione, trasmissioni alla radio e alla televisione, conferenze, collaborazioni giornalistiche (per una decina di  anni anche membro del Comitato redazionale del settimanale "La Luce", antenato di "Riforma").

Sono sempre stato convinto che la nostra società ha bisogno più di divulgatori che di "dottori", così progettai un libro sul protestantesimo, destinato a un grosso pubblico esterno, che scrissi a quattro mani con Sergio Ronchi, valente studioso di teologia.

Il libro, dal titolo "Il protestantesimo. La sfida degli evangelici in Italia e nel mondo" fu pubblicato nel 1981 dalla Universale Economica Feltrinelli ed ebbe un’ottima diffusione.

Ancora una volta mi isolai dalle chiese, perché ancora una volta mi parvero affette da burocratismo, formalismo, chiusura in se stesse, mancanza di sprint e di fantasia.  Un nuovo allontanamento, che forse fu  colpa mia, della mia mancanza di pazienza e della incapacità di adattarmi alla realtà delle cose, della voglia di correre e guardare avanti, di una  innata vocazione movimentista, più che istituzionale.

Tornai ad essere un protestante senza chiesa, ma Dio continuò ad essere uno dei valori fondanti della mia vita, anzi  il principale, quello che dava senso a tutti gli altri.

Tanto è vero che, proprio in quegli anni, produssi un altro libro di divulgazione della Bibbia e dei suoi contenuti: "Introduzione alla Bibbia", pubblicato nella collana "Studi" della Mondatori (1986), anch’esso con un buon successo di vendite.

Un’altra esperienza formativa di grande rilievo la ebbi frequentando il campus europeo di una Università americana, che mi condusse al conseguimento della laurea - anzi del Ph.D., dottorato di ricerca - in Psicologia, con  specializzazione nelle nuove psicologie umanistiche e transpersonali.

Successivamente, sempre spinto dall’ansia di divulgare l’Evangelo "tra i gentili", pubblicai con l’editore De Vecchi (1998) "Come leggere la Bibbia",  un’opera in due volumi: Antico e Nuovo Testamento, rinnovando e ampliando notevolmente quanto avevo in precedenza scritto per Mondatori.

E ancora una volta il Signore mi chiamò ad un servizio più diretto, a livello di chiesa (costante oggetto del mio odio-amore).

Trasferitomi intanto  a Varese, dove esiste una validissima chiesa battista, preferii dedicare la mia opera - una esperienza che comunque vedo limitata nel tempo -  a una piccola chiesa di tipo carismatico. Per approfondire il legame spirituale con questa comunità e offrire un segno tangibile della mia partecipazione, mi sono fatto ribattezzare (cosicché oggi io sono un valdo-metodista battista, anzi anabattista!).

Vi era in me il desiderio di conoscere da vicino il tipo di proposta e di comunicazione di questo genere di chiese, soprattutto per capire il perché del loro successo, anche in un paese ostico come l’Italia.

In più ho maturato la  solida  convinzione che il futuro del protestantesimo, a livello dell’Italia e del mondo, sia legato all’incontro di esperienze e allo scambio di doni tra il "sapere" delle chiese tradizionali e l’entusiasmo della chiese carismatiche. Questo, si intende, a livello di operosità umana, ben sapendo che chi decide ed opera nel mondo è lo Spirito.

Così mi sono dato la missione di fare da ponte tra queste due realtà.

Nondimeno, continuo sempre a considerarmi uno "storico", con tutto quello che ciò comporta a livello di approccio alla Bibbia, di teologia e di etica.

Inoltre ho ripreso con sistematicità la predicazione, non solo nelle chiese carismatiche, ma anche nelle chiese storiche (metodiste e valdesi del circuito e battiste).

Nella primavera del 2003, insieme a Doriana Giudici e ad altre sorelle e fratelli, abbiamo costituito  il "Centro culturale protestante dell’Insubria Dietrich Bonhoeffer", di cui sono attualmente presidente, e che ha già realizzato un considerevole impatto sul territorio.

Introduzione

Le riflessioni qui di seguito prodotte nascono dall’esperienza e dall’osservazione personale della realtà,  ma anche dal contributo di esperienze e riflessioni altrui, con  cui mi trovo in sintonia.

Le visioni  rappresentano invece degli auspici e/o delle proposte riguardo a quello che, secondo me, occorrerebbe fare.

Spero che le critiche di certi aspetti della realtà presente non offendano nessuno. Al tempo stesso devo precisare che, con auspici e proposte, non intendo insegnare nulla a chicchessia: so benissimo, per esperienza, che spesso la durezza, le ristrettezze e i condizionamenti della realtà con la quale capita quotidianamente di scontrarsi impediscono di realizzare le cose al meglio.

Vorrei cercare  di analizzare la situazione italiana rapportata ad un’ottica generale, quindi internazionale, vista dalla prospettiva delle chiese storiche, cioè la mia.

Non si tratta di una ricerca scientifica, per la quale occorrerebbero adeguati tempi, mezzi  e strutture; questo vuol essere semplicemente un pamphlet "politico", una provocazione per  aprire un dibattito all’interno del protestantesimo italiano, in modo che attraverso un confronto e l’apporto di contributi altrui - avviando magari una ricerca sistematica ad ampio respiro - sia possibile rendere più significativa, efficiente ed aperta al futuro la nostra presenza nel Paese.

Le osservazioni, riflessioni e proposte che seguono, di rado rientrano in una struttura organica di pensiero; il più delle volte si tratta di flashes che insieme concorrono a costituire uno zibaldone.

Parte  Prima

ANALISI DELLA SITUAZIONE

Torna la ricerca del sacro

Ormai è un dato comune che a partire dagli Anni Ottanta, più o meno, del secolo appena trascorso, praticamente in tutto il mondo si è registrato un consistente e del tutto inatteso risveglio di interesse per la dimensione religiosa. O forse è meglio parlare di dimensione del sacro.

La cultura laica e positivista di marca ottocentesca - ampiamente divulgata dal marxismo ma che aveva avuto un autonomo sviluppo anche all’interno delle società liberali dell’Occidente – era riuscita a rendere pacifico un cliché, secondo il quale la religione (e il sottostante senso del sacro) appariva come un fenomeno residuale, proprio di culture e civiltà superate, destinato come tale in tempi più o meno brevi, se non a scomparire del tutto, certamente ad avviarsi verso una decadenza inarrestabile.

Invece religione e sacro sono per così dire esplosi, esprimendo una enorme vitalità e presentandosi anzitutto come formidabile coagulante, in una dimensione collettiva delle varie identità nazionali e culturali (Islam, Israele, Paesi dell’Est europeo). 

Non solo: ciò è accaduto anche in Occidente, come risposta a una diffusa esigenza a livello individuale, in termini esistenziali di “ricerca di senso”.

Il fenomeno è ben presente anche in Italia ed è costantemente oggetto di ricerche e di interpretazioni.

Al  primo manifestarsi di esso Sergio Quinzio, illustre divulgatore di una teologia laica e anticonformista, affermava che il caso va correlato anzitutto alle delusioni storiche patite dall’umanità, come le rivoluzioni sociali abortite e la perdita di fiducia nella scienza, quale era intesa ancora nei primi decenni del Novecento, allorché sembrava destinata a un avvenire radioso, in quanto capace di svelare tutti i misteri e soprattutto di risolvere ogni aspettativa dell’uomo, angoscia esistenziale compresa. Come  egli scriveva, a un eccesso di progettualità umana, tutta controllata dalla ragione, dalla scienza, dalla politica, dall’economia, si sostituisce ora una ricerca non più nell’orizzontalità della storia, ma in una dimensione diversa, verticale. E’ una compensazione spirituale delle speranze perdute.

Il grande banchetto

A fronte  di questa generalizzata "domanda di sacro", di questi vasti e inattesi spazi che attendevano solo di essere colmati, dagli anni Ottanta l’Italia ha visto lo sviluppo, che si può quasi definire travolgente, di varie entità, con le loro specifiche proposte: Testimoni di Geova, Mormoni, perfino Buddisti (nelle varie accezioni e provenienze) e Musulmani.

In questo quadro va collocata anche la forte ascesa della "New Age", la quale sicuramente non è una religione  (non ha una chiesa, non ha una gerarchia, non ha una dogmatica), ma nei suoi aspetti migliori e non commerciali si manifesta come movimento composito aperto alla valorizzazione dell’entità spirituale dell’uomo e propone una visione globale e integrata dell’essere umano.  Da un punto di vista "spirituale" le sue proposte appaiono generiche e indeterminate; sono però un’apertura, un primo passo al di fuori di una concezione puramente materialistica della vita, quale è quella attualmente imperante nel mondo. Quindi, più che di proposte, si potrebbe forse parlare di domande. Per questo, credo,  essa può costituire un promettente campo di lavoro per  la testimonianza cristiana, se questa sa adottare il linguaggio giusto.

Prima  di prendere in considerazione la situazione delle chiese cristiane a fronte di questa generalizzata domanda di trascendente, vale la pena di esaminare anche un altro fenomeno attuale, che i detrattori definiscono sprezzantemente come "supermarket del sacro", intendendo con tale denominazione svalutarne i contenuti a livello banalmente consumistico.

Esso indica la tendenza, particolarmente diffusa ai nostri giorni, per la quale molti si costruiscono una fede personale composita, cucendo insieme, in maniera a volte arbitraria, brandelli di eterogenee culture del trascendente.

Va detto subito che il fenomeno non è nuovo. Ad esempio, per quanto riguarda il nostro paese, da sempre è stato presente tra le masse l’intento di coniugare insieme il cattolicesimo con  superstiti culti ancestrali (specie nel Sud) e più ancora con astrologia, occultismo  e superstizioni di vario genere.

Nessuna meraviglia quindi che in un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla coesistenza (propiziata anche e soprattutto dai mass media) delle più variegate  proposte culturali, gli individui siano indotti a cogliere elementi disparati che più si attagliano alle singole esigenze e personalità, e a tentarne una sintesi.

Del resto è quanto è accaduto anche agli albori del cristianesimo, allorché la tradizione culturale giudaica è stata innestata in quella ellenistica, subendo talora delle vere e proprie violenze e venendone anche parzialmente snaturata.

Nessuno scandalo quindi se oggi il cristianesimo viene contaminato, ad esempio, dalle raffinatissime tecniche di meditazione orientale, che ne costituiscono un indubbio arricchimento, oppure dai nuovi saperi in psicologia.

Ad onta dei "puristi delle fedi", oggi il sincretismo nel campo della fede - come del resto nel campo della cultura in generale - è un  fenomeno esistente e ineliminabile, del quale bisogna tenere conto e che, al massimo, occorre saper contenere e gestire, per evitare la nascita di "mostri".

In parallelo con questa tendenza, occorre considerare un altro fenomeno di rilevante importanza: se da un lato si registra una affluenza numericamente significativa nelle diverse realtà ecclesiali sopra delineate, di rilevanza enormemente maggiore è la presenza di coloro che si riconoscono in una religione "individuale", non solo in Italia ma anche all’estero (si veda AA.VV., Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso in Italia, Ed. Il Mulino).

"E’ il trionfo del culto individuale", afferma Michel Meslin, docente di Storia e Antropologia religiosa alla Sorbona.

Massimo Introvigne [2] parla di "autoreligione" e afferma: "E’ sempre più vasta quell’area che la sociologia inglese definisce  believing without belonging: credere senza appartenere: in termini religiosi cresce la spiritualità che non si identifica in una Chiesa".

In altre parole: sempre meno la gente si sente legata alle chiese come istituto e sempre più, invece, parte della trasversale chiesa invisibile.

Come si collocano i cristiani (ci interessa qui parlare solo degli evangelici) di fronte a questa generalizzata domanda di sacro? In che misura partecipano a questo grande banchetto? Meglio: in che misura sanno trarre vantaggio dalla situazione attuale in termini di occasione di testimonianza?

Il quadro è di immediata percezione.  Da un lato assistiamo ad una vigorosa ascesa delle chiese carismatiche. Dall’altro invece a un preoccupante declino delle chiese storiche, incapaci di cogliere le attuali opportunità di espansione, non solo, ma perfino di evitare l’emorragia dei loro membri tradizionali.

Che succede? Sono forse esse destinate all’estinzione? E se sì, perché? Non sono in grado di mettere in campo risposte credibili alle attuali domande emergenti, dei nuovi (potenziali) e dei vecchi credenti?

Certamente questa ipotesi non è pensabile per quanto riguarda il contenuto fondamentale (l’Evangelo). Invece sono convinto che sia estremamente realistica per ciò che concerne i linguaggi (comunicazione) e l’immagine. 

Chiese storiche e chiese carismatiche

Per ragioni di omogeneità e di affinità, appare evidente che la realtà delle chiese storiche deve essere confrontata limitatamente alle chiese carismatiche (usiamo qui il termine cumulativo "carismatiche" per designare insieme le chiese pentecostali e quelle carismatiche propriamente dette, giacché in questa sede non interessa analizzare le differenze teologiche tra loro intercorrenti).

Chiese storiche e chiese carismatiche sono realtà ecclesiali entrambe cristiane, entrambe protestanti, ma con esiti assai divergenti per quanto riguarda il "successo" della loro presenza e della loro testimonianza.

Una prima, possibile osservazione è la seguente: hanno esiti diversi perché si rivolgono a "pubblici" diversi. Una spiegazione affrettata, superficiale e di comodo.

Si dice che nelle chiese carismatiche prevale l’elemento popolare (quindi culturalmente più sprovveduto), mentre nelle chiese storiche prevale  il ceto medio (più acculturato).

Può essere in parte vero, però domandiamoci: siamo proprio sicuri che la presunta disparità di livello culturale faccia  la differenza? Io non credo.

Innanzitutto ravviso un grande  pericolo nel limitare l’analisi ad un livello puramente sociologico. Il pericolo è quello di elevare, certo inconsapevolmente, un muro di "apartheid", di chiudere in partenza ogni possibilità di incontro, di dialogo, di scambio.

Indubbiamente nelle chiese carismatiche vi è una forte presenza popolare; ma tale presenza è riscontrabile anche nelle chiese storiche.

Inoltre va detto che non c’è sostanziale differenza, in termini culturali,  tra ceti popolari e ceti medi (il discorso ovviamente è diverso riguardo alle ristrette frange intellettuali).

Oggi praticamente tutti si abbeverano alla stessa cultura di  massa e allo stesso linguaggio mediatico, fruiscono dei medesimi modelli di comportamento e sono influenzati dai medesimi miti (la TV ha unificato per la prima volta l’Italia - ahimè verso il basso).

Inoltre, fenomeno  da non sottovalutare, nelle chiese carismatiche  è riscontrabile una significativa presenza, anche  se decisamente  minoritaria, di intellettuali (laureati, insegnanti, professionisti, artisti).

Evidentemente costoro trovano in quell’ambiente una risposta - forse solo parziale -  alle loro esigenze: gli elementi positivi sembrano venire considerati prevalenti su quelli  negativi e questo consente di superare anche un certo disagio.  Forse si tratta di una adesione "condizionata" e critica, come fu quella di molti intellettuali sinceramente democratici al comunismo sovietico.

Facciamo pure della sociologia, se vogliamo, ma non trascuriamo la dimensione psicologica, che ci consente di comprendere meglio la realtà motivazionale.

Le differenze tra i due modelli di chiesa del resto non sono una novità: le troviamo ben  presenti fin dall’inizio della Riforma, con la contrapposizione - anche drammatica - tra protestantesimo wittenberghiano e protestantesimo radicale.

Il primo, che propugna  l’inserimento nel tessuto socio-culturale del mondo, affrontandone i rischi, ma con l’intento di recargli una testimonianza e quindi  di modificarlo (chiese di popolo). Il secondo, arroccato su una intransigente posizione antitetica (chiese di élite o "di santi").

Sta di fatto che oggi le chiese carismatiche mantengono e sviluppano un forte appeal proprio nel mondo; mentre quello delle chiese storiche va vieppiù appannandosi.

Aspetti positivi e negativi delle chiese carismatiche

Quali sono le ragioni del successo delle chiese carismatiche? Direi anzitutto che sono estremamente motivate.

Hanno un progetto da realizzare insieme - insieme come membri di chiesa; insieme come chiese. Hanno una tensione che ispira ogni loro azione, ogni loro modo di essere: la tensione, direbbe Alberoni, dello "stato nascente".

Quella tensione  che le chiese storiche hanno ormai perduto da un pezzo.

Le chiese carismatiche costituiscono una realtà multiforme, a volte  contrastante: come impostazione teologica, come organizzazione, comeatteggiamento verso le altre chiese (più o meno settario, più o meno aperto). E’ difficile ricavare di esse un profilo unitario; tuttavia è  possibile rilevare alcuni aspetti, piuttosto generalizzati, un denominatore comune.

Anzitutto sono estremamente propositive ed assertive.

Tra i protestanti storici è uso dire:  "Trasmettono certezze, mentre noi esprimiamo dei dubbi". (Nobiltà del dubbio. Che però non deve essere predominante e tale da soffocare ogni impulso: per noi l’Evangelo - almeno quello - non è una certezza?).

Nella cornice  di questo atteggiamento di fondo, emergono alcuni aspetti-chiave.

- Grandissima valorizzazione della Bibbia come "Parola di Dio": tra i pentecostali più che tra i carismatici propriamente detti.

- Enfatizzazione della vocazione personale: ogni credente diventa protagonista. Nella predicazione vi è una forte accentuazione del messaggio: " Dio ha un progetto particolare per ciascuno di voi".

I credenti non sono spettatori, ma militanti; al di là di eventuali specifici impegni nelle varie attività della chiesa,  essi sono fortemente coinvolti a livello personale nella conduzione del culto (vedi più oltre).

- Forte coinvolgimento  per la testimonianza e l’evangelizzazione, che costituiscono la vocazione primaria e il principale impegno, sia per la  comunità sia per  l’individuo.

- Grandissimo valore della preghiera. Non esistono preghiere lette e neppure preghiere rituali (perfino il "Padre nostro" è bandito - cosa discutibile - per l’ossessione di non cadere nel formalismo ripetitivo).  La preghiera costituisce un impegno basilare nella vita del cristiano; sia quella privata, domestica (personale o del nucleo familiare), sia soprattutto quella corale, durante la funzione, della quale costituisce la parte principale, per non dire esclusiva.

- La fiducia nei miracoli, richiesti con la preghiera, è grandissima; forse vi è un eccesso di aspettative e di richieste, avanzate anche per le piccole cose individuali di tutti i giorni.

- Valorizzazione dello Spirito Santo e della sua presenza; coscienza di esserne guidati in ogni istante della propria vita.

Tra gli aspetti negativi, limitativi o quantomeno discutibili porrei i seguenti punti.

- Il kerygma è trasmesso attraverso un approccio diretto, con un deliberato rifiuto di mediazioni culturali. Qui mi paiono emergere tutti i limiti di un atteggiamento aprioristico e semplicistico nei confronti di quello che è considerato negativamente "il sapere degli uomini".

("Gesù Cristo è il Signore": sì, ma quale?. E’ il Gesù oleografico presente in molti dipinti, o quello di cui il papa sarebbe vicario, o ancora quello dolciastro dei film hollywoodiani? E’ l’eone degli gnostici o l’essere disincarnato dell’esoterismo? E’ il personaggio mai esistito e creato dalla fantasia umana, secondo l’interpretazione tuttora corrente dei positivisti e dei loro attuali epigoni? Tutte queste, e altre ancora, sono interpretazioni specifiche del "sapere degli uomini". Proprio per questo la mediazione culturale è essenziale: essa ha il compito propedeutico di spazzare il terreno, affinché il reale significato del kerygma appunto non venga distorto dai pre-giudizi e dai condizionamenti).

- Vi è indifferenza, anzi sostanziale rifiuto di un passato storico, dal quale anche essi traggono origine: la Riforma, le  chiese, nella loro pur travagliata e contraddittoria evoluzione storica.

L’unico riferimento - peraltro assai occasionale - è alla "chiesa delle origini", vista però in termini del tutto idealizzati.

- La lettura della Bibbia è per lo più letteralistica, con varie sfumature e gradi di consapevolezza, in termini di inerranza, ovvero riconoscimento della sua storicità e "umanità". Vi è una    sostanziale insensibilità per la dimensione ermeneutica e per la necessità di venire a capo delle contraddizioni della Bibbia: l’unico interesse è per il messaggio. Vi è inoltre una incapacità a cogliere il significato metaforico di eventi e situazioni, che generalmente vengono presi "alla lettera".  In genere la teologia è basata sulla parafrasi dei versetti biblici e non lascia spazio alla ricchezza della riflessione e della problematicità.

- Prevale uno schematismo e un semplicismo culturale, che si traduce in  incapacità di usare il linguaggio del mondo contemporaneo e di destreggiarsi all’interno delle sue problematiche, per poter dialogare e influire autorevolmente, recando una testimonianza efficace.

- E’ forse un complesso di inferiorità, il timore di essere sopraffatti che genera la paura e la fuga dal "mondo", la chiusura settaria nei confronti delle altre religioni, dell’ecumenismo, dei movimenti, delle filosofie. Vi è una marcata incapacità di cogliere gli aneliti di spiritualità presenti in varie situazioni e di convogliarli verso il cristianesimo, di apprezzare la positività di una ricerca - quando è seria e non insegue le mode - condotta, come direbbe Paolo, "a tentoni": un primo passo, che andrebbe  invece valorizzato e incoraggiato, sul cammino di un possibile incontro col messaggio cristiano.

Questo timore, questa difficoltà a rapportarsi con gli altri produce  una rigida chiusura nei confronti del cattolicesimo, di cui non si sanno cogliere le sfumature di   posizioni, gli aspetti positivamente evoluitivi, presenti soprattutto alla base. Una analoga chiusura è presente spesso nei confronti delle chiese storiche,  considerate "non bibliche", espressione degenerata del cristianesimo.

- Parimenti vi è una rigidità schematica nei confronti dell’etica e del vissuto, l’incapacità di comprendere le esigenze concrete (anche  le debolezze) della vita.  E’ difficile, in questi ambienti, trovare risposte esaurienti e articolate, o anche interrogativi, su problemi quali la sessualità e la convivenza all’interno della società civile. Lo stesso dicasi riguardo alla riflessione sul più generale problema del male; problema certamente angoscioso e irrisolvibile a livello umano, cui essi danno una sbrigativa risposta in termini di slogan ("Dio è buono").

- Manca anche un adeguato approfondimento terminologico ( ad esempio: cosa significa la parola "peccato", oppure "miracolo", oppure "salvezza").

- Un altro aspetto negativo e pericoloso è dato, in numerosi casi, dalla eccessiva predominanza del conduttore all’interno della comunità (leaderismo).

Aspetti positivi e negativi delle chiese storiche

- Al primo posto tra le positività metterei senz’altro l’ottimo livello del corpo pastorale, ben preparato dal punto di vista culturale, teologico, relazionale (rapporti con la comunità e gli altri in genere), aperto e disponibile, capace di affrontare severi e onerosi impegni di lavoro.

- Di pari passo, eccellente è anche il livello degli studi, della ricerca e degli istituti ad essi preposti.

- Un altro aspetto altamente encomiabile è rappresentato da un atteggiamento di profonda apertura, tolleranza, spirito democratico, disponibilità al confronto, così come a recepire    critiche e proposte (salvo, a  volte, disattenderle).

Tutto ciò costituisce un patrimonio prezioso, del quale le chiese storiche possono andare giustamente orgogliose.

Tutto bene dunque?  Non proprio.  Sembra che le nostre chiese, in genere, siano colpite da una sorta di "male oscuro". E’ un malessere che serpeggia a tutti i livelli e di cui  "Riforma" riporta obiettivamente i segni, attraverso la posta dei lettori, e i resoconti di assemblee e convegni, a livello di circuiti, distretti, comunità.  Un malessere che sembra trarre origine da diversi fattori e a sua volta esserne la causa: sfiducia, frustrazione, perdita di identità, tran tran, grave caduta di partecipazione e - in conseguenza - anche di contribuzioni.

Forse al centro di tutto ciò vi è la mancanza di obiettivi da condividere, di progetti da realizzare e di battaglie da condurre insieme. Forse le chiese sono minacciate dal prevalere dell’individualismo, dalla pietà intimistica, che fa a meno - o crede di poter fare a meno - della comunità.

Se è vero che il mestiere della chiesa è evangelizzare, al primo posto degli aspetti negativi collocherei senz’altro una grave inadeguatezza in questo campo.

Ogni tanto qualcuno si sente in dovere di evocare la frase  di Paolo: "Guai a me se non evangelizzo!" (1 Corinzi 9:16), ma la cosa di solito muore lì.

Eppure forse è proprio da qui che si potrebbe ripartire, individuando obiettivi, progetti, battaglie da condurre insieme. 

Una espressione che si sente spesso ripetere, quasi con una sorta di compiacimento snobistico, è: "Noi non siamo interessati al proselitismo".

Perché?  E cosa significa?

E’ solo snobismo, oppure è una inconscia rappresentazione della favola della volpe e l’uva?. Un rimozione, per negare la propria incapacità e i propri insuccessi?

E’ il riflesso di una cultura borghese e piccolo-borghese, che trova difficoltà a rapportarsi con gli altri, a "dare del tu", a impegnarsi in prima persona, a scoprirsi?

Siamo così imborghesiti? Ci si vergogna? Non consideriamo la cosa  politically correct?

Si tratta di un  male inteso rispetto per le opinioni degli altri, un eccesso di riservatezza e di timidezza?

"Proselitismo" sembra quasi una parolaccia, una cosa che pare metterci in imbarazzo..

Non è invece la logica conseguenza - quando avviene, e non sempre necessariamente deve avvenire - della testimonianza?  Cosa accadeva nella chiesa primitiva?  Se dobbiamo credere a quello che racconta il libro degli Atti, i primi cristiani testimoniavano e le chiese si riempivano.

Del resto, anche senza andare così indietro nel tempo e restando in Italia, nell’Ottocento e nei primi decenni de Novecento tutte le chiese storiche si sono impegnate attivamente nella testimonianza, tanto è vero che sono cresciute, si sono moltiplicate, hanno coperto con una fitta rete l’intera Penisola, superando gravi difficoltà (mancanza di risorse, persecuzione clericale e  fascista, emigrazione).

Poi - per usare una frase di Berlinguer riferita ad altri contesti -"si è esaurita la spinta propulsiva".

Domandiamoci come mai. Una spiegazione può essere trovata nel fatto che le comunità, proprio in quanto cresciute, hanno finito per assorbire tutte le energie dei pastori nella loro gestione interna. Anche perché spesso accade che si trova più comodo scaricare tutto sulle loro spalle. Credo che tutti dobbiamo imparare cosa significa in concreto, al di là della retorica, il basilare principio protestante del "sacerdozio universale".

Un’altra spiegazione possiamo trovarla nel fatto che, di fronte ad una società tanto radicalmente cambiata, le chiese non sono state capaci di trovare un linguaggio adatto (tematiche, media, messaggi). 

Oggi, lo sappiamo bene, una testimonianza seria è indubbiamente difficile, perché prevalgono nel nostro mondo la disattenzione (propiziata anche da una inflazione mediatica), l’edonismo, l’egocentrismo (una esagerata cura di sé e del proprio corpo),  l’alienazione e la superficialità (che conducono a un ateismo di fatto). 

Sappiamo anche però che sono molti coloro i quali, di fronte a una situazione del genere, provano disagio, sofferenza, senso di vuoto, solitudine, disperazione.

Tanto è vero che altri, come abbiamo visto, riescono a dare risposte - a volte più o meno sincere, più o meno convincenti, più o meno disinteressate; ma spesso indubbiamente serie -  a queste domande così diffuse di senso.

A parte la loro inadeguatezza a livello di comunicazione,  qual è il "peccato" delle chiese storiche?

Direi anche una questione di contenuto.

Mi sembra che ci troviamo di fronte a un deleterio evitamento del discorso "religioso", più o meno rigorosamente riservato alle nostre conventicole (è quasi solo un parlarsi tra noi).

Con l’ansia di venire accettati, negli incontri con gli altri  (organizzazioni sociali, politiche, culturali, di base, di quartiere, convegni, presenza sui media, ecc.) si tende a presentare di noi una immagine che, a nostro avviso, sembra la migliore:  una immagine di laicismo, di tolleranza, di correttezza amministrativa, di democrazia e  pluralismo interni. E’ come se dicessimo continuamente: "Vedete come siamo bravi?".

Certo che siamo bravi:  riconosciamocelo e riconoscetecelo.

E il discorso di fede?  "E’ un affare nostro, una cosa interna; scusate,  non vogliamo disturbarvi".

Ritegno?  Vergogna?  Insicurezza riguardo alla nostra identità? Incapacità di trovare le parole giuste, che non infastidiscano?

Siccome noi, in ogni caso e qualunque maschera ci mettiamo, siamo inesorabilmente etichettati ("organismo religioso"), che   cosa pensiamo la gente si aspetti da noi se non un discorso "religioso"?

Salvo,ovviamente, il diritto di accoglierlo o rifiutarlo, oppure di rimandarlo ad altra occasione, che magari non verrà mai: "Su questo ti ascolteremo un’altra volta" (Atti 17:32).

Parte Seconda

STRATEGIE

Premessa

Agli inizi del Novecento l’impressione generale era che, nel quadro del tramonto delle religioni, anche il protestantesimo fosse in una fase di inesorabile declino.

Era l’epoca del "protestantesimo liberale" - che aveva generosamente cercato di tenere aperto un  legame con la cultura laica dominante, ma al tempo stesso aveva creato non poco sconcerto tra i credenti, relativizzando tutto e svigorendo il messaggio evangelico.

Oggi invece, a cent’anni di distanza, il protestantesimo sta rivelando una straordinaria vitalità e una capacità di espansione assolutamente sorprendenti, consolidando un trend ascendente presente lungo tutto il corso del XX secolo.

Su questa dinamica ci tiene esaurientemente e puntualmente aggiornati il settimanale "Riforma": da esso trarrò pertanto gran parte dei dati e delle informazioni.

Esso ci ha informato (7/4/2000), in termini generali, che oggi nel mondo ci sono 700 milioni di protestanti, evangelici e anglicani, quindi che è evangelico un cristiano su tre, mentre in vent’anni la crescita sarebbe stata dell’88%.

Anche i dati parziali provenienti dai singoli paesi confermano la tendenza.

A un vero e proprio boom si assiste in tutta l’America latina, con percentuali che variano, da paese a paese, tra il 15 e il 25% (in taluni casi anche con valori assai superiori).

In Cina i protestanti, nonostante le pesanti persecuzioni trascorse e le attuali perduranti difficoltà, dal 1949 a oggi sarebbero passati  da 700 mila a 14 milioni. Nella  Corea del Sud essi  sarebbero addirittura il 38% della popolazione.  Anche i dati provenienti dall’Africa confermano una situazione in forte sviluppo; lo stesso vale per gli Stati Uniti d’America.

I grandi numeri vanno  presi con le molle e possono essere soggetti a forti variazioni; tuttavia  sembra innegabile che sotto le cifre, sempre discutibili, esista una prorompente espansione.

Tutto bene dunque?   Fino a un certo punto.

Il quotidiano su internet "ICN-News, Notizie dal mondo evangelico" (www.icn-news.com), di area carismatica, ha riportato (18/7/2003) il parere di Harold Segura, teologo battista colombiano, che mette in guardia contro un facile trionfalismo: "Dietro questa ondata di eccezionale grandezza ci sono un buon numero di   rischi e minacce.  Insieme a masse che desiderano una genuina fede cristiana, ci sono movimenti meno ortodossi, fanatismi irrazionali, gruppi altamente autoritari ed emozioni manipolate".

Aggiunge il quotidiano: "Congiuntamente ad una crescita genuina c’è, secondo il teologo battista, la tendenza a trasformare espressioni spirituali in eccessi preoccupanti ed in una religiosità che trasforma la decisione di seguire Cristo in un semplice prodotto da piazzare sul mercato".

Un responsabile appello alla cautela e alla necessità di smascherare i falsi profeti.

Il "miracolo" (in senso etimologico) di questa inversione di tendenza  e della successiva crescita straordinaria sta nel fatto che il protestantesimo - o gran parte di esso - ha subito una mutazione genetica: a fronte della stasi o addirittura dell’arretramento delle tradizionali chiese storiche si è avuto il germogliare e quindi la crescita inarrestabile del movimento carismatico o pentecostale.

Riforma (21/2/2003) riporta: "Secondo il teologo protestante svizzero Walter Hollenweger, specialista del movimento pentecostale, oggi nel mondo i fedeli pentecostali sono 500 milioni, ossia quanti sono gli aderenti alle chiese non cattoliche (luterani, riformati, battisti e ortodossi). La crescita del movimento pentecostale è tale che, prevede Hollenweger, entro una generazione i pentecostali supereranno come numero anche i cattolici".

Anche qui i grandi numeri - e soprattutto le previsioni - vanno assunti con cautela; resta, incontrovertibile, l’eccezionale consistenza di questo movimento di risveglio che, come è noto, si presenta in modo trasversale e si è creato già ampi spazi anche all’interno della Chiesa cattolica.

Sia tra i protestanti storici che tra i cattolici è sempre più viva la persuasione che con tale movimento non è possibile fare a meno di confrontarsi e di aprire un dialogo.

Il fenomeno riscontrabile su scala mondiale è ben presente anche in Italia, dove il totale degli evangelici viene fatto assommare a diverse centinaia di migliaia (esistono al riguardo valutazioni abbastanza discordanti, stante il fatto che le nuove chiese non usano rendere pubblico il numero dei loro aderenti e forse non tengono neppure statistiche).

Di recente ha suscitato sorpresa e ha posto degli interrogativi un sondaggio condotto su un campione di 5.000 soggetti da Eurisko per "Repubblica" (che ha pubblicato i risultati il 22/6/2003).

La serietà dell’Istituto  che ha condotto l’indagine sembra confermata, anche questa volta, dalla rappresentatività del campione, che emerge soprattutto a livello di piccole cifre.

Ora, per quanto riguarda l’ebraismo, l’avergli attribuito lo 0,1% (cioè 50.000 soggetti a fronte di una popolazione adulta totale di circa 50 milioni di italiani)  si sovrappone alla perfezione al numero di ebrei residenti in Italia secondo le Comunità israelitiche (35-40.000), con   10-15.000 unità in più, che possono benissimo comprendere coloro che, senza far parte delle Comunità, si sentono culturalmente israeliti.

Per questo dovrebbe essere attendibile il "dato-sorpresa": 3,9% di "cristiani non cattolici" (quasi 2 milioni di individui). Pur facendo la tara di Testimoni di Geova e Mormoni (e di una presenza trascurabile di ortodossi) resta un numero assolutamente cospicuo di persone (italiani, perché il campione non comprendeva immigrati) che si presume facciano riferimento al cristianesimo evangelico.

E’ possibile pensare a soggetti che nel corso della loro vita abbiano avuto contatti con chiese evangeliche (il "passaggio" è sempre molto consistente), oppure seguano trasmissioni radio-televisive e che considerino l’evangelismo come punto di riferimento ideale, senza per questo pensare di aderire a qualche comunità. Un caso analogo si è del resto palesato in Francia  anni or sono.

Va rilevato  peraltro che quello dell’adesione ideologica senza militanza è un fenomeno ormai prevalente nella società contemporanea: si pensi alla divaricazione tra elettori e militanti di un partito politico.

Una situazione del genere impone la necessità di trovare i mezzi e i linguaggi per aprire e sviluppare il contatto con la massa in costante crescita di questi "simpatizzanti", accettando senza remore la loro decisione di restare al di fuori dei recinti.

Non è importante riempire le chiese - dove la gente continuerà a entrare e uscire - quanto invece essere efficacemente e continuativamente  presenti nella società (una presenza non politico-sociale, ma religiosa) come "sale della terra": è quanto prescrive l’Evangelo.

Possiamo domandarci il perché di questo "successo" a livello mondiale del protestantesimo, evitando però ogni trionfalismo fuori luogo e cercando di analizzare le ragioni da un’ottica puramente umana (sull’eventuale intervento dello Spirito non siamo in grado di dire nulla).

Credo che, all’interno della dimensione cristiana, il protestantesimo possa avere, particolarmente nel nostro tempo, una diffusa accettazione per alcuni precisi motivi: proviamo a elencarli.

Il rifiuto di una autorità magisteriale, quindi di una struttura di potere, con tutto ciò che di negativo essa potenzialmente comporta.

Il senso della libertà. Una fede personale, svincolata da sovrastrutture e orpelli: il rapporto tra Dio ed essere umano risulta semplificato e diviene diretto, facendo a meno di intermediazioni terrene (sacerdoti) e celesti (santi).

L’accesso personale all’unico "strumento" di fede (Bibbia).

La laicità, il grande valore riconosciuto alla coscienza individuale, che sceglie e decide senza imposizioni: ossia l’etica della responsabilità.

Il calore dell’accoglienza riservata a chi entra in una comunità (questo soprattutto nelle chiese carismatiche); la valorizzazione dell’apporto e dell’iniziativa personale.

Credo che sia necessario partire da questa situazione di fatto e da queste considerazioni per  definire le linee di una strategia  generale riguardo alla presenza e allo sviluppo del protestantesimo storico in Italia.

Il piano strategico dovrebbe essere articolato sulla base di due grandi aree: strategie verso l’interno e strategie verso l’esterno.

Uno stato di crisi latente

Parlando con i membri di chiesa delle varie comunità, ma più ancora sfogliando le pagine di "Riforma", affiora un po’ dovunque una diffusa sensazione di crisi che sembra pervadere le singole chiese e le istituzioni in generale, attraverso interventi sia di credenti che molto impropriamente possiamo definire "di base",  sia di personaggi di rilievo delle nostre chiese.

Limitandomi a questi ultimi - non per culto della personalità, ma perché rappresentano consapevolmente una visione matura della realtà -  vorrei riprendere a mo’ di esempio  alcune citazioni sintomatiche.

"La nostra comunione di chiese…ha assoluta necessità di un giornale come Riforma. …ne sono convinto nonostante i suoi dati di diffusione siano in calo, nonostante la sensazione di una crisi profonda  che attraversa le nostre chiese  e la nostra quotidianità di fede…"(Eugenio Bernardini 21/10/03).

"…oggi, che il valdismo sembra essere  al tramonto…" (Giorgio Bouchard, 1/8/03).

"In molte chiese del distretto, infatti, si avverte un senso di stanchezza, di mancanza di entusiasmo e di fervore, vuoi per l’invecchiamento delle stesse e il ricambio quasi inesistente (come nelle chiese della Svizzera), vuoi per crisi provocate da decisioni delle Tavola non condivise … vuoi per l’abituale tasso di litigiosità e/o di insoddisfazione che rompe o impedisce di tessere rapporti di fraternità. A sentire molti degli interventi sembra che nel migliore dei casi le chiese  non vanno oltre al solito tran tran. C’è chi afferma che "c’è un disorientamento generale", c’è chi sostiene che "non è più chiaro l’obbiettivo comune", c’è chi ritiene che"nella nostra chiesa si sta sempre meno bene"  (Jean-Jacques Peyronel, 4/7/03).

"Oggi le nostre comunità soffrono della mancanza di vitalità cristiana, evangelica. Ci sono stati culmini di politicizzazione e esasperazioni sociologiche, ci si limita al culto domenicale spesso ritualizzato, arido, statico…Forse la crisi è dei singoli o forse dell’istituzione: occorre pregare il Signore perché rinnovi i nostri spiriti e le nostre chiese e ci aiuti ad andare incontro agli altri, con umiltà e consacrazione" (Liliano Frattini, 1/8/03).

La prima reazione, di fronte a dichiarazioni di questo genere, è di orgoglio di essere protestante e di appartenere a una comunità di chiese dove vi sono   persone che hanno il coraggio, la lucidità, l’onestà intellettuale e morale di guardare con franchezza in faccia alla realtà.

 La seconda reazione è quella di pensare che questa è la condizione giusta per ripartire: ripartire da una situazione di estrema chiarezza, lasciando da parte arzigogoli e cortine fumogene.

Dare spazio (anche) alle emozioni

Ripartire come?  Valorizzando tutte le facoltà dell’essere umano: non soltanto il cervello, ma anche il cuore.

Forse è da qui che bisogna incominciare.  Nella pratica della pietà privata, ma soprattutto in quella pubblica, del culto.

E’ un peccato che "Riforma" sia in grado di raccogliere e produrre tanti stimoli, che poi però vengono lasciati cadere, non ci si riflette sopra, non li si elabora e non li si amplia.

Uno dei compiti della redazione dovrebbe essere quello di stimolare  dibattiti e tenerli vivi, in modo da fare emergere idee innovative e sviluppare coralmente la riflessione su di esse.

Caterina Dupré ha scritto un bellissimo articolo: "Ci possiamo emozionare per Dio?" (24/11/00), da cui merita citare alcuni passi:

"Esiste una questione nella mia vita di fede che va acquisendo sempre più importanza e ho notato negli ultimi anni che questa mia stessa esigenza è molto diffusa: l’esigenza di una fede vissuta con l’anima, il cuore e il corpo e non solo con la mente….  In tanti sentiamo troppo stretta una fede che riceve agganci solo di tipo intellettuale, come se si trattasse di una questione meramente di testa…

Come pretendiamo di nutrirla [la fede] unicamente attraverso i canali della ragione, con lo studio, la lettura, la predicazione, le discussioni, guardando con sospetto tutto ciò che mette in gioco anche i nostri sensi, il nostro corpo e le nostre emozioni?    La musica, possibilmente non troppo ritmata e vivace (e assolutamente senza battiti di mani e non accompagnata da alcun movimento del corpo) è l’unico elemento veramente non intellettuale che è riuscito a mantenere un suo spazio all’interno dei nostri culti, così cerebrali e verbosi… Se credere è una rivoluzione della nostra vita, deve essere una rivoluzione della nostra mentalità, delle nostre convinzioni e anche delle nostre emozioni… La fede certo non è neanche solo emozione e mai vorrei perdere la vivacità di pensiero che muove le nostre chiese, ma allo stesso tempo mi chiedo anche che valore può avere una fede  che non emoziona, che non sconvolge, che non turba anche il cuore oltre che la mente?".

A questa lucidissima diagnosi vorrei aggiungere una mia considerazione.

Se io sono innamorato di una persona, il mio atteggiamento può essere di due tipi (che non si escludono a vicenda, ma possono integrarsi): 1) sento nel mio intimo di provare considerazione, attrazione, amore per quella persona (il mio sentimento può anche non trasparire all’esterno: per timidezza, eccessiva  sobrietà, difficoltà a comunicare, timore ad aprirmi, paura di non essere corrisposto…); 2) manifesto in tutti i modi possibili il mio amore, attraverso la parola e il comportamento, che sono gli unici strumenti che posseggo per comunicare all’essere amato - e contemporaneamente a tutto il mondo - quello che provo.

Lo stesso accade se sono innamorato di Dio. C’è qualcosa di negativo, sconveniente, riprovevole in questo secondo atteggiamento? Non credo: è un comportamento autentico, spontaneo, umano.

A  secoli di distanza si ripropone l’antitesi tra l’ortodossia protestante e la "religione del cuore".  Possiamo dire, schematizzando molto, che nelle chiese storiche prevale il primo atteggiamento, mentre in quelle carismatiche prevale il secondo.

Centralità del culto

Il culto costituisce l’elemento decisivo, il punto centrale, l’asse portante, il biglietto da visita delle chiese. Il resto viene dopo.

Allora facciamoci delle domande. Anzitutto: perché uno "deve" andarci?  (personalmente, ho trascorso molti anni senza frequentarlo; eppure ho sempre continuato a sentirmi fortemente cristiano - e protestante).

Il punto è qui: in una società sempre più dominata dalla anomia,  sempre più virtuale, con media che ti raggiungono in qualunque punto del globo ti trovi, tu individuo puoi essere quello che ti senti di essere (nel nostro caso: indifferente, ateo, agnostico, credente più o meno fervido) nella tua individualità, nell’intimità della "tua cameretta", senza avvertire il bisogno di una spartizione delle tue esperienze, anche profonde,  con gli altri; dividendo con loro, al massimo, la consapevolezza di una generica e platonica comunanza "ideologica".

Questo accade a livello non solo religioso, ma anche politico e sociale (chi frequenta più le "case del popolo", che hanno formato tante generazioni di cittadini e di  militanti?). 

Sicuramente si tratta di una situazione alienante, che ci strappa dal nostro destino di essere individui all’interno della società, in collegamento con gli altri individui; tuttavia oggi è una situazione molto comune, della quale dobbiamo tenere conto, anche in vista della necessità di trovare i mezzi per affrontarla e superarla.

Il successo, in tutto il mondo, della tanto vituperata "chiesa elettronica" non è altro che una conferma di questa realtà. Una realtà che certo non ci soddisfa e che dobbiamo cercare di modificare, senza però disconoscere il valore di tale strumento, almeno come propedeutica e ponte per arrivare alla soluzione ottimale: passare dalla comunità virtuale alla comunità reale - e non solo nel campo religioso.

Il numero di ascoltatori di "Culto Radio" e di spettatori di "Protestantesimo" (ma anche di sottoscrittori dell’otto per mille), decisamente superiore a quello dei membri delle nostre chiese, è una chiara conferma di questa realtà.

Sicuramente occorre un "click" a livello di motivazione interiore  per fare un salto qualitativo: aprirsi alla dimensione collettiva ("sentire il bisogno di"), dedicarvi parte del proprio tempo (un bene sempre più scarso, quindi prezioso), rinunciare ad altre attività e a cose piacevoli (incontrarsi con gli amici, fare cose "divertenti"), sottoporsi a spostamenti (in auto, coi mezzi), magari lunghi ed estenuanti.

Per partecipare al culto devo sentire - essere profondamente convinto - che non si tratta di un astratto dovere, di un’abitudine faticosa e forse un po’ noiosa, cui si dà una adesione fredda, intellettuale,intimista. Al contrario, devo essere convinto che me ne viene qualcosa, a livello, spirituale, culturale, umano. Qualcosa di particolare, che non posso avere da nessuna altra parte, in nessun altro modo.

Cosa accade in occasione della maggioranza dei nostri culti domenicali? La "fraternità" con gli altri il più della volta è retorica. Scambio un saluto, stringo qualche mano con persone che a volte conosco appena, forse ci diamo del "lei" - o magari del "tu", dato che ormai questa è una abitudine diffusissima, e quindi non più significativa.

Persone con le quali non ho un reale scambio o una reale corrispondenza (se non - anche questo è virtuale - una comunanza di fede, comunanza che comunque possiamo riconoscerci reciprocamente pur non andando al culto).

Persone - se devo essere brutalmente sincero - di cui in fondo non mi importa una gran che; sicuramente meno di altre, magari non credenti, alle quali sono legato da sentimenti di affetto e di  amicizia.

Il culto: comparazione tra chiese storiche e chiese carismatiche

Come esperimento il culto nelle chiese storiche? Quali reazioni mi suscita? In  genere piuttosto fredde, direi.

A volte provo la sgradevole impressione di trovarmi di fronte a qualcosa di troppo rigidamente strutturato, prevedibile, ripetitivo, rituale.

Rituali sono le reazioni e i comportamenti che mi sono richiesti e ai quali mi sono adattato, come un riflesso condizionato: gioiosità (all’invocazione), compunzione (alla confessione di peccato), attenzione (al sermone), commozione (alla Santa Cena).

Una cosa che mi rattrista e mi avvilisce  molto è quando chi conduce il culto legge ostentatamente le preghiere.

Se qualcuno ha difficoltà a parlare a braccio o a improvvisare, si impari a memoria quello che deve dire o, al massimo, tenga sotto gli occhi una scaletta (questo è indispensabile per un testo lungo come il sermone) da sbirciare ogni tanto.  Ma dia l’impressione che la preghiera - almeno quella - sgorghi dal cuore!

Oltre alle preghiere, infatti, anche i sermoni molte volte sono troppo palesemente letti.

E, per favore, evitiamo di sottolineare i punti salienti alzando improvvisamente e drammaticamente la voce, come talvolta accade: l’oratoria gridata è passata di moda da un pezzo.

A volte i sermoni sono sapienti dissertazioni di tipo universitario su temi che alla gente importano relativamente poco. Spesso sono insopportabilmente lunghi e vogliono dire troppe cose in una volta sola. Ai predicatori servirebbe anche una scuola di recitazione, oltre che di tecniche della comunicazione.

Partecipazione "popolare". Spesso si va al culto come a uno spettacolino, con attori da una parte e pubblico dall’altra: e che i ruoli siano mantenuti ben distinti.

Da alcuni anni ha preso piede anche nelle chiese storiche  la preghiera "spontanea" dei fedeli: normalmente relegata in uno spazio ben limitato e predefinito della liturgia.  In genere intervengono una o due persone, sempre le stesse, che dicono più o meno sempre le stesse cose, domenica dopo domenica. Comunque, meglio poco che niente.

Canto: dovrebbe essere il momento topico della partecipazione popolare.  Gravi carenze sono spesso presenti nelle piccole comunità. Anche in mancanza di armonium è efficace la chitarra, con pochi accordi di sottofondo. Non è difficile imparare.

A volte manca perfino chi sappia dare l’intonazione.  Curiamo almeno questo, perché al limite si può cantare anche senza strumenti,  tenendo tutti il tempo. Occorrerebbe  un minimo di addestramento e una persona, anche digiuna di musica, che sappia "guidare".

Conclusione: a volte si esce dal culto con un senso di insoddisfazione, disagio, l’impressione di avere partecipato (partecipato?) a qualcosa di dovuto, ma non sentito: ci si porta a casa ben poco.

Fortunatamente però oggi sembra essere presente, nelle nostre chiese, l’esigenza di un rinnovamento del culto, l’opportunità di battere strade nuove, di sperimentare, di trovare qualcosa di più espressivo e coinvolgente.

E il culto nelle chiese carismatiche?

Anche qui vale il caso per caso, però si può tentare una descrizione-valutrazione "media".

L’approccio è molto diverso (regia, tecniche di comunicazione).

Sarebbe certamente opportuno che coloro che gestiscono i nostri culti - ,ma anche i membri dei consigli di chiesa - ogni tanto si recassero ad assistere ad una funzione preso le chiese carismatiche, confrontando le varie manifestazioni (ve ne sono di alquanto diverse), per verificare il grado di coinvolgimento dei presenti e raccogliere indicazioni, a livello di tecniche di comunicazione, che possono eventualmente essere applicate anche nelle nostre chiese.

Assistere  con apertura mentale e curiosità, lasciando a casa un certo sussiego, un intimo e tranquillizzante senso di superiorità verso manifestazioni che, occorre pur dirlo, talora sono decisamente rozze e ingenue.

Quali sono le caratteristiche comuni di questi culti, pur nella loro diversità?

Una intensissima partecipazione (attiva) da parte dei presenti, che si esprime in vari modi. Per esempio, con i numerosi canti, caratterizzati dal fatto di essere sempre gioiosi e accompagnati spesso da movimenti ritmici del corpo (una sorta di canto-danza). 

Soprattutto con la preghiera, nelle sue varie forme: di adorazione e di lode, in primo luogo. Anche di intercessione e di richiesta, nella ferma convinzione che il Signore ascolta e dà risposta ("Qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà", Giovanni 16,23). Queste ultime vengono concentrate in particolari momenti e sono volte a  ottenere guarigioni o interventi divini per  risolvere situazioni difficili di singole persone che le richiedono (salute, famiglia, lavoro, casa…). Spesso sono accompagnate dall’imposizione delle mani da parte di altri membri della comunità ("Imporranno le mani agli ammalati ed essi guariranno" Marco 16,18).

Prega chi conduce il culto ma parimenti pregano ad alta voce i membri della comunità. Chi si sente di farlo - e si tratta della maggioranza - si inserisce nel culto, senza una ritualità precisa e programmata, ed esprime quello che prova in quel momento. Sono preghiere   spontanee ed espresse con efficacia, il più delle volte con grande proprietà di linguaggio (ecco cadere il pregiudizio sulla scarsa cultura dei carismatici); anche qui peraltro capita di notare una certa ripetitività, di settimana in settimana, dei concetti espressi.

Manca o è carente, rispetto alle chiese storiche,  la confessione di peccato e la richiesta di perdono: in questi ambienti il cristiano esprime soprattutto la gioia di essere stato salvato, l’amore e la riconoscenza verso il Signore.

Nel culto carismatico traspare l’assoluta certezza della presenza divina (espressa anche con invocazioni come: "Spirito Santo vieni, passeggia in mezzo a noi").

Per quanto riguarda i sermoni, essi sono generalmente semplicistici, spesso si tratta  solo di studi biblici: spiegazione, o anche solo descrizione, del contenuto di una o più pericopi, senza agganci e riferimenti alla esperienza attuale di credenti - quello che la  Bibbia dice a noi oggi, nella nostra specifica situazione. A volte  sono solo una infilata di versetti biblici.

Ciò nonostante, l’aspetto che più colpisce nel corso di questi culti è un altissimo livello di partecipazione emotiva.  Ci si rivolge a Dio come in un rapporto amoroso (ascoltato in una preghiera spontanea: "Signore, io sono innamorato di te").

Nasce essenzialmente da qui il  grande coinvolgimento della comunità, che vive intensamente insieme  l’incontro con Dio, realizzando una ascesi che, in una situazione di isolamento individuale, sarebbe impossibile.

E’ la religione del cuore in antitesi a quella della mente; il sentimento (comunque impiantato su una solidissima base biblica) contro il sapere e il rigore teologico.

Da cinquecento anni continua la contrapposizione tra Riforma radicale e Riforma wittenberghiana; anche  tra pietismo e ortodossia..

Due aspetti concorrenziali all’interno del protestantesimo che forse oggi, attraverso il dialogo, potrebbero divenire complementari. Quantomeno, anche senza dialogo, che  è un altro discorso, potremmo studiare più da vicino il modo - le tecniche - con cui le chiese carismatiche gestiscono il culto.                  

Segni di ricerca e di rinnovamento

Del resto l’esigenza di un profondo rinnovamento dei nostri culti è ormai un sentire comune: in più parti sono in corso sperimentazioni interessanti.  Ancora una volta lo apprendiamo da "Riforma", che ha pubblicato anche due significativi articoli, entrambi il 21/3/03: "Tutti i modi più gioiosi per cantare al Signore un cantico nuovo" (Davide Giannoni) e "Vorrei un culto jazz" (Massimo Aprile). Il canto non deve essere considerato, come a volte accade, un optional, un di più che può anche non esserci: secondo me dovrebbe costituire la parte preminente del culto, perché in esso l’intera comunità (compresi coloro che, per timidezza, non prendono la parola per pregare) ha l’unica occasione di lodare e ringraziare il Signore.

Lo stesso dicasi per la preghiera, che deve trovare larghissimo spazio e non essere liquidata, come talora accade, con poche frasi formali, seguendo il copione del rituale.  Una preghiera calda, intensa e vibrante, innalzata da chi presiede il culto, ma anche e soprattutto dai fedeli.

Come afferma Aprile nell’articolo sopra citato: "Diversamente da un’orchestra di musica classica, in una jazz band tutti i componenti hanno un ruolo attivo e creativo. In fondo, è quello che insegna l’apostolo Paolo in 1 Corinzi 14".

Il rituale: ecco un altro punto topico. Non vi sono dubbi circa l’opportunità di mantenere un certo ordine nello svolgimento del culto, evitando l’improvvisazione e il caos e non trascurando momenti importanti, quali ad esempio la confessione di peccato (cosa che accade generalmente nelle chiese carismatiche).  Tuttavia un ritualismo non gestito con leggerezza - e anche un po’ di fantasia - scade nel formalismo, genera freddezza, assuefazione, perfino noia.

Strategie verso l’interno

Il culto - del quale abbiamo parlato più sopra - è certamente fondamentale, ma la vita della chiesa non finisce lì. Occorre anche prevedere una serie di progetti coinvolgenti. In prima istanza: formazione, evangelizzazIone e preghiera.

Vi è anzitutto l’esigenza di trasmettere consapevolezza di sé, di quello che si è. Ciò può accadere solo attraverso una formazione sistematica e pianificata, non solo a livello biblico, ma anche teologico e storico.

Per quanto riguarda la Bibbia, prima di addentrarsi in studi analitici su singoli libri della stessa, è opportuno dare una visione d’assieme (composizione, fonti, principi esegetici ed ermeneutica, problematiche di relazione con la cultura del nostro tempo, con la scienza,  nonché con i testi delle altre grandi religioni, ecc.).

I testi delle lezioni dovrebbero trovare forma scritta attraverso brevi dispense, da mettere a disposizione anche di terzi, sul banco libri della chiesa, insieme agli eccellenti libri divulgativi della Claudiana (tipo "Cinquantapagine"). Le persone "medie" sono disponibili solo per testi brevi e di facile lettura.

Questa formazione generalizzata costituisce una esigenza basilare in un’ottica di realizzazione concreta del sacerdozio universale, che dovrebbe costituire un obiettivo primario per una chiesa evangelica e che invece, per lo più, è un semplice oggetto di retorica. Essa inoltre  consente la formazione di quadri e favorisce anche la nascita di vocazioni, tutte cose preziose per ripartire il lavoro e ridurre il gravoso impegno dei pastori.

Il problema grosso, lo sappiamo bene,  è costituito dal come raggiungere e coinvolgere i membri di chiesa e i simpatizzanti.

Se è difficile indurli a uscire una sera durante la settimana, una alternativa è quella di avere anche solo una mezz’ora di istruzione immediatamente prima o immediatamente dopo il culto domenicale, che di solito conta sui un numero di presenze accettabili.  Se all’inizio i risultati sono deludenti, di solito quando la cosa diventa un’abitudine è possibile un graduale incremento dei presenti.  Personalmente ho avuto modo di effettuare esperienze del genere, tra l’altro  presso la chiesa metodista di Milano.

Un’altra opportunità può essere data dalla valorizzazione delle cellule domestiche, che evitano impegnativi spostamenti in ore serali: anche in questo caso ho avuto esperienze positive a Varese.

Le cellule, tra l’altro, possono rappresentare in determinate situazioni il primo seme per la nascita di nuove chiese, specie in aree suburbane, ma solo se è possibile contare su persone adeguatamente preparate, quindi capaci anche di iniziative autonome.

Un altro fondamentale settore, connesso al precedente, è quello della evangelizzazione.

Connesso perché quello della evangelizzazione non è un compito riservato ai pastori, e ai dottori, ma deve essere sentito da ogni credente, seppure ciascuno a livello proprio.  Solo chi ha delle idee precise riguardo alla propria fede, ed ha imparato a comunicarle con efficacia, è in grado di dare testimonianza nell’ambiente che frequenta.

Si è già detto che nelle nostre comunità prevale una anomala concezione del "politically correct", per cui è poco elegante fare certi discorsi, non fosse mai che qualcuno possa pensare che stiamo cercando di "fare proselitismo".

Il punto è che possiamo dare una efficace testimonianza, non solo con il nostro comportamento etico (come i più timidi tra noi ci esortano a fare, sperando che la gente si accorga della differenza), ma anche verbalmente.

Certo occorre essere discreti, non invasivi, saper cogliere le condizioni opportune, avere un approccio soft, evitare l’aggressività, gli assedi e le insistenze fuori luogo. Sono cose che si imparano con la pratica, a patto di possedere un bagaglio sufficiente (anche se minimo) di nozioni su quello che si è e di saperle trasmettere con naturalezza.

Non si tratta di "convertire" nessuno: è sufficiente far sapere alla gente chi siamo e che esiste, ed è diffusa e radicata anche nel nostro Paese, una posizione evangelica, portatrice di consistenti differenze (non occorre essere fastidiosamente polemici) rispetto alla cultura dominante - che oggi non è  più tanto quella cattolica, ma piuttosto quella del cinismo, dell’indifferenza e del materialismo di fatto. 

Questo vale tanto per la testimonianza personale, quanto, e più, per la testimonianza che possiamo dare come chiese.

A me capita spesso di tenere conferenze e cicli di lezioni negli ambienti più diversi (centri culturali, scolastici, sindacali, ecc.), sicuramente non predisposti all’ascolto di certe tematiche, ma che tuttavia reagiscono di norma con un grande interresse a quanto viene detto.

Quale sarà l’esito finale di questo assiduo lavoro - se ci saranno personali conversioni non tanto a determinate chiese, ma al Signore - non so e non mi riguarda: l’importante è non stancarsi di gettare il seme.

L’intento infatti non è quello di riempire - e riempire stabilmente - le chiese. Oggi non è più il tempo: sappiamo bene che la gente viene e va. Dobbiamo abituarci a lavorare fuori, nel mondo: dobbiamo imparare a diventare veramente il sale della terra.

Ogni comunità dovrebbe programmare, per il proprio anno ecclesiastico, delle azioni da condurre, non una tantum ma sistematicamente, all’esterno.  Accade invece che più di una comunità non stanzi nel proprio bilancio finanziario neppure un euro per la voce "evangelizzazione".

Se al contrario una chiesa locale è impegnata in una operazione di questo genere, è importante che il progetto non sia portato avanti da una sola o da poche  persone (i soliti "addetti ai lavori"),  ma invece che tutta la comunità ne risulti coinvolta.

Questo non tanto per il lavoro verso l’esterno, quanto perché il coinvolgimento di tutti su un "grande progetto comune" vivifica e rafforza la comunità stessa.

La preghiera è un’altra delle "attività" primarie per una chiesa cristiana.

Molte volte nelle nostre chiese si ha l’impressione - speriamo si tratti solo di un’impressione - della preghiera come qualcosa di rituale, di dovuto, dalla quale si glissa via rapidamente.

Ascoltiamo con compunzione - anche questa "dovuta" - chi la recita (o la legge),  durante il culto.  O all’inizio di qualche attività (quando ci si ricorda, e non sempre capita); poi passiamo a trattare cose "concrete".

Se crediamo veramente in Dio (?!), se crediamo veramente che è possibile dialogare con Lui - e che possiamo fargli delle richieste, e che Lui ci ascolta  e anche esaudisce le nostre richieste (quando queste sono in linea con la Sua volontà) - allora è chiaro che la preghiera costituisce per il credente l’attività principale, di gran lunga la più importante rispetto a tutte le altre.

E’ importante pregare da soli ("nella propria cameretta"), ma è importante anche, essenziale, pregare insieme. Trovare nella settimana un momento - non troppo avaro in termini di tempo - per pregare: una sera la settimana o, se ciò non è possibile, una mezz’ora prima o dopo il culto domenicale.

Sono preghiere collettive  di lode, di adorazione, di intercessione, di richiesta.  Anche - perché no? - richieste di intervento per le nostre necessità pratiche, della collettività e  di ciascuno (iniziative, guarigioni, lavoro, casa, rapporti interpersonali…).

Preghiere accompagnate dalla ferma fiducia (fede) che esse verranno esaudite.

E’ una prassi basilare presso le chiese carismatiche e che ora si sta gradatamente diffondendo anche presso le chiese storiche.

Strategie verso l’esterno

Tre aree operative: nei confronti dei cattolici,nei confronti dei carismatici, nei confronti del "mondo".

Cattolici

L’azione ecumenica nei confronti dei cattolici ha dato finora ottimi risultati.  Come quasi tutte le fedi religiose, anche quella cattolica si presenta in forte evoluzione, che possiamo apprezzare se compariamo il quadro odierno a quello di solo pochi decenni fa.  Si tratta di prendere in considerazione  non tanto la situazione di vertice (gerarchia), che pure segna significativi mutamenti, quanto invece la situazione della base.

Sicuramente vi è stato, tra noi e loro, uno scambio che ha prodotto importanti frutti.

Siamo riusciti a ottenere la demolizione di antichi pregiudizi e tabù e a farci apprezzare, anche e soprattutto a livello di elaborazione culturale, parte della quale è stata recepita dai cattolici. 

Inoltre sono convinto che la nostra vicinanza e il dialogo che si è aperto sono stati un consistente aiuto per loro ad aprirsi alla pratica del pluralismo (emblematico quanto è avvenuto in Germania col Kirkentag 2003), e più ancora alla "riscoperta" della Bibbia, che oggi per un numero crescente di cattolici rappresenta un primario punto di riferimento.

Per parte nostra, siamo usciti da consolidati settarismi e anticlericalismi ed  abbiamo riscoperto grandi tesori presenti nella tradizione cattolica, frammisti peraltro a  realtà che continuiamo a non poter  accettare.

L’essenziale, nel prosieguo dei rapporti con i cattolici, è non cadere nelle spire di una relazione di tipo "diplomatico", come pure di non lasciarci irretire da un irenismo ad oltranza.

E’ basilare, al contrario, continuare ad essere coerentemente noi stessi e mantenere saldamente la nostra fisionomia, non rinunciando a dare una forte testimonianza della nostra fede, anche quando essa si scontra con taluni aspetti del cattolicesimo che riproviamo.

L’azione ecumenica nei confronti dei cattolici si sostanzia, oltre che con un ricco e articolato lavoro in comune su particolari temi, anche e soprattutto con gli incontri di base, essenziali per una conoscenza e una comprensione reciproca.

Evangelici

Se è importante l’ecumenismo con i cattolici, tanto più deve esserlo con gli evangelici, anche quelli con i quali, al momento attuale, i rapporti risultano obiettivamente difficili, come certi settori del movimento carismatico.

Oggi è in corso nel mondo un gigantesco risveglio evangelico, di una dimensione quale non si è mai data in passato e a questo risveglio noi dobbiamo partecipare con l’apporto della nostra originalità, della nostra esperienza,.del nostro sapere. Anche in questo caso non si tratta di annullarci nella grande ondata carismatica, ma al contrario valorizzare al massimo il nostro patrimonio.

Sulla base della realtà attuale possiamo presumere che il futuro del protestantesimo, a livello nazionale così come mondiale, sta nell’incontro tra l’entusiasmo dei carismatici e la cultura  (teologica) degli "storici".

Anni fa girava per le nostre chiese uno slogan (dovuto, se non ricordo male, a Giorgio Bouchard): "Noi siamo una chiesa che studia".

 E’ una bellissima definizione, che individua in maniera molto creativa la peculiarità del nostro essere. Questa  nostra predominante vocazione tuttavia funziona e ha un senso solo   a patto che mettiamo a disposizione degli altri il sapere che abbiamo acquisito.

In questa ottica appare veramente encomiabile l’azione della Claudiana, non solo per il livello della sua produzione editoriale, ma anche  per il fatto che propaganda i suoi libri sul quotidiano internet "ICN-News".

Sappiamo che, oltre a coordinamenti locali di pastori,  a  livello di vertici sono in corso già da anni proficui contatti tra una commissione valdese-metodista e responsabili di chiese pentecostali e che tali incontri hanno generato tra l’altro un documento di eccezionale importanza ed interesse, pubblicato dalla Claudiana: Valdesi, Metodisti e Pentecostali in dialogo, che tutti dovrebbero conoscere.

Gli incontri tra studiosi o leaders sono eventi certamente importanti, ma non sufficienti , perché all’interno delle comunità lasciano pressoché il tempo che trovano: ciò vale sia per i rapporti con i cattolici che con gli altri evangelici.

Sarebbe auspicabile che, anche a livello di comunità locali, si compisse un grosso investimento di lavoro per promuovere incontri di base, scambi, contatti.  So benissimo che la cosa non è facile, spesso si incontrano diffidenze, chiusure e rifiuti: nondimeno, l’incontro e lo scambio con l’altro - chiunque esso sia - è una necessità irrinunciabile, per capire, crescere ed aiutare anche l’altro a crescere.

Personalmente sto conducendo una esperienza positiva in ambiente carismatico, dove sono ormai accolto senza diffidenze e dove ho libertà di espressione e di predicazione illimitate, anche se, deliberatamente, non perdo occasione per mostrarmi "diverso".

Da questi incontri le nostre comunità possono trarre importanti vantaggi: scoprire le ragioni del successo dei carismatici a livello di testimonianza (moduli di comunicazione, coinvolgimento individuale e collettivo, tecniche di istruzione, gestione della comunità). Inoltre, ricevere una salutare iniezione di fervore e di entusiasmo.

Ma non basta: anche noi possiamo dare molto in cambio, possiamo passare tante  cose, oltre che riceverne. Dimostrare anzitutto che anche noi siamo "biblici", cioè fedeli alla Bibbia, seppure con  modalità diverse dalle loro. Abbattere pregiudizi, aiutarli a capire che lo studio, l’approfondimento, la discussione  e la riflessione teologica non sono tentazioni del demonio, non rappresentano una minaccia per la fede, ma anzi possono fortificarla.

Sarebbe per noi un imperdonabile errore restare abbarbicati a nostra volta a dei pregiudizi, prendendo a pretesto difficoltà, chiusure, settarismi, rozzezze che possiamo incontrare. Peggio ancora, coltivare un atteggiamento di distacco e superiorità, per non dire di rimozione, fingendo semplicemente che il problema non esista.

Al contrario dobbiamo aprire e tenere aperto il dialogo, insistere, anche quando siamo rifiutati, cercare approcci diversi e suscitare occasioni.

In realtà non c’è nulla di meno fossilizzato e più dinamico delle fedi religiose: pensiamo a come siamo cambiati anche noi in poco tempo e soprattutto come sono cambiati i cattolici.

Anche all’interno del mondo carismatico vi sono molte cose in sensibile movimento.

Di grande interesse, al riguardo, una piccola pubblicazione  edita dalla Queriniana: Il movimento evangelicale, di P. Bolognesi e L. De Chirico.

In essa sono contenute importanti affermazioni, come il riconoscimento delle proprie radici storiche nella Riforma e l’asserzione che è inevitabile confrontarsi con il mondo della cultura.

Da questo punto di vista è di notevole rilievo l’attività svolta dall’Istituto di Formazione Evangelica e Documentazione (IFED) di Padova.

Apprezzabile anche che un istituto come La Casa della Bibbia di Torino offra in vendita pubblicazioni di Claudiana, Edizioni Paoline, Elle di ci, Paideia, Società Biblica Britannica e Forestiera.

E’ nostro dovere e interesse della chiesa  assecondare in tutti i modi questi orientamenti e queste aperture.

Mondo

La terza area operativa riguarda il "mondo", cioè l’enorme e frantumata galassia laica (o presunta, o sedicente tale). La strategia dovrebbe prevedere tre settori operativi.

Primo.  Approfittare di tutte le occasioni - non solo a livello nazionale, ma anche e soprattutto locale - per portare la nostra presenza e testimonianza (conferenze, corsi, dibattiti), in modo che appaia con chiarezza la nostra originalità e diversità.

Personalmente posso annoverare esperienze assai positive lavorando in organizzazioni vicine al mondo sindacale (AUSER, Università popolari, ecc.).

Cercare di informarsi preventivamente (prima che l’evento accada e ne veniamo a conoscenza dai giornali) dei progetti di convegni, tavole rotonde, seminari, inchieste giornalistiche, trasmissioni radio e TV, tenendo continuativamente aperti i canali con i posti giusti (Università, istituti, redazioni, ecc.) in modo da poterci sempre assicurare una presenza e una possibilità di testimonianza.

Secondo. Organizzare seriamente, in modo professionale, una permanente azione di Relazioni pubbliche (RP) con tutti i media raggiungibili, non solo a livello nazionale (Roma), ma anche a livello locale, dove vengono pubblicati organi di stampa.

Sono inutili e patetici gli sfoghi che compaiono su Riforma, contro gli strafalcioni su di noi che spesso ci accade di leggere sulla stampa "secolare". Sfoghi che non smuovono in alcun modo la situazione, anche perché è improbabile che una delle esigue copie della nostra rivista arrivi sui tavoli di un macro-giornale con tiratura dai 700.000 in su.

Non credo che tali strafalcioni, in generale, siano frutto di malevolenza e men che meno di una strategia perversa: sono piuttosto l’espressione di una crassa ignoranza sulle cose religiose (specie se non riguardano il cattolicesimo), che purtroppo alligna nella maggioranza dei giornalisti italiani.

Per questo è necessario gestire continuativamente le RP come si fa normalmente a livello professionale, entrando in contatto con le redazioni, stabilendo rapporti di amicizia con i giornalisti che scrivono su determinati temi (qualche volta anche  invitandoli a pranzo, facendo piccoli regali, ad esempio un libro: questa non è corruzione!), fornendo loro materiali, notizie di prima mano, canovacci di articoli (non importa se non usciranno con la nostra firma); non riponendo ogni fiducia sull’eccellente bollettino NEV-Notizie Evangeliche, che molte volte finisce nel mucchio di carta stampata di cui ogni redazione è inondata..

Ci si è lamentati, ad esempio, perché la citata indagine apparsa su Repubblica parla genericamente di "non cattolici". Bene, sarebbe utile  prendere contatti con la Eurisko, la quale  semestralmente effettua rilevazioni di questo genere, per spiegare l’opportunità che, in occasione delle prossime rilevazioni, vengano formulati questionari più dettagliati e precisi.

Da una azione di questo genere non dobbiamo aspettarci che gli inconvenienti lamentati vengano risolti in un sol colpo; sicuramente però i risultati si vedranno alla distanza.

Terzo.  Va bene aderire alle grandi manifestazioni civili che lo meritano (pace, diritti, democrazia, pluralismo, ecc.), dove però le nostre sigle - per lo più sconosciute al grosso pubblico - si perdono in mezzo a centinaia di altre.

Però come evangelici, direi anzi ancora prima come cristiani, dobbiamo farci portatori di proposte innovative e originali nei confronti della società secolare dobbiamo essere riconoscibili nel dire cose che altri non dicono.

Occorre elaborare approfonditamente dei progetti  su nostre proposte laiche da portare alla società.

Senza predicare rinunce e sacrifici monacali, dobbiamo proporre abitudini e stili di vita sobri ed ecologici.

Per esempio: consumare senza lasciarsi travolgere dal consumismo; non farsi mancare nulla, ma evitare gli sprechi; sostenere iniziative sociali (come la banca etica, le adozioni a distanza, il commercio equo e solidale); impegnarsi a favore dell’ambiente (non solo evitando di sporcare, ma anche, a un livello più alto, battendosi contro le aggressioni alla natura - animale, vegetale - perpetrate dall’abusivismo edilizio, ecc.).

Ma anche proporre il rovesciamento delle scale di valori che dominano il nostro mondo: l’individualismo e l’egoismo, la subordinazione della vita al puro calcolo economico,  l’idolatria del denaro (visto non come pratico strumento di transazioni, ma come simbolo del successo), il "successo" a qualunque costo (infischiandosene dell’etica), il potere, il mito del "vincente", il darwinismo sociale, la dittatura della moda, il consumismo, e l’esaltazione del possesso.  Tutto quello che Erich Fromm indicava come avere in contrapposizione con l’essere.

Tra l’altro si tratta di un trend già molto bene avviato, soprattutto negli Stati Uniti, dove circolano parecchie opere al riguardo (per una prima panoramica di titoli, vedere su  L’espresso, 4.12.2003: "Felicità è un bel caos").

L’uso dei media radio-televisivi

Si tratta di un settore assolutamente strategico.

Ciò soprattutto in relazione al fatto che, come si è più sopra constatato,  prevale oggi quella che Introvigne ha definito  l’autoreligione ("credere senza appartenere").

E’ per questo che probabilmente deve essere rivista completamente la strategia, tanto in termini  di media che di contenuti.

Oggi la F.C.E.I. è brillantemente presente sulla RAI, alla radio con  Culto evangelico e in TV con Protestantesimo.

Sarebbe opportuno prendere in considerazione l’ipotesi di acquistare anche spazi per rubriche fisse presso radio e televisioni private, sia a livello nazionale che locale.

Ciò dovrebbe essere reso possibile dal fatto che, con la dismissione degli ospedali, si sono liberate cospicue risorse finanziarie.  Come dire: dagli ospedali per i corpi agli ospedali per le anime.

Dal punto di vista dei contenuti penso che andrebbero rivisti gli "obiettivi di comunicazione", in termini più specificamente riferiti a  contenuti di fede, con l’intento di "portare uomini e donne  che non hanno nessuna relazione personale con Gesù Cristo, a una comunione con lui" (C.P. Wagner).  Possibilmente, in seconda battuta, anche "a un impegno responsabile con la sua chiesa".

Lo straordinario successo - vista anche l’ora antelucana - di Culto evangelico (1.270.000 ascoltatori, in grande maggioranza quindi non evangelici) è una precisa conferma che questo tipo di contenuti risulta estremamente gradito al pubblico.

Per quanto riguarda la rubrica televisiva Protestantesimo,  anch’essa gode di un rilevante successo  (412.000 spettatori[3]), nonostante venga trasmessa a notte fonda.

Tale  brillante risultato si deve anche all’alta qualità professionale con cui vengono realizzati i programmi, che interpretano correttamente gli "obiettivi di comunicazione", questa volta più culturali che non strettamente religiosi.

Il contenuto di tali programmi sarebbe eccellente, in termini comunicativi, se avessimo a disposizione maggiori spazi, in quanto potrebbero costituire una integrazione “mondana” (cioè documentazione della nostra presenza nel mondo) a una sottostante - e prevalente - testimonianza religiosa.

Purtroppo non è questo il caso. Perciò penso che l’esiguo spazio che abbiamo a disposizione sarebbe meglio utilizzato con programmi più specificamente religiosi.

Del resto la Chiesa cattolica, che di comunicazione se ne intende e che in TV dispone di una presenza incomparabilmente maggiore, dedica gli spazi più significativi al culto (messa) e alla predicazione.

*  *  *

In una bella meditazione pubblicata su Riforma (10.10.2003), Italo Benedetti scrive: "C’è ovviamente nelle comunità un gran desiderio che l’Evangelo venga creduto e accolto, ma per ottenere questo pochi vogliono cambiare qualcosa, rinunciare a qualcosa.  Ma in questo saremo superati dalla storia".

Forse la storia ci ha già lasciato indietro. Forse però, se ci mettiamo a correre, riusciamo a riagguantarla.

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[1] Alister E. McGrath, Teologia cristiana, Claudiana, 1999

[2] L’espresso, 20.11.2003

[3] I dati si riferiscono al 1° semestre 2003.



Martedì, 30 dicembre 2003