Una chiesa antilluminista
di Elio Rindone
Il sogno anacronistico di un ritorno al medioevo, a un regime teocratico in cui, per dirla con Kant, “il capo spirituale tenne sottomessi i re come fanciulli per mezzo della bacchetta magica della minaccia di una sua scomunica”
Ringraziamo Elio Rindone per averci messo a disposizione questo suo articolo già pubblicato sul sito www.italialaica.it 1793: Kant pubblica La religione entro i limiti della sola ragione e l’anno successivo (è già uscita una seconda edizione) riceve un rescritto regio che, accusandolo di proporre una lettura distorta della verità cristiana, gli proibisce di trattare ancora in futuro temi religiosi. C’era da aspettarselo: ormai da alcuni anni, infatti, morto un sovrano illuminato come Federico II, il successore Federico Guglielmo II aveva inaugurato in Prussia una politica fortemente repressiva della libertà di pensiero. Nel suo scritto, in effetti, il filosofo sottopone il messaggio cristiano al vaglio di una ragione che, pur consapevole dei propri limiti, ha fiducia in se stessa e non esita a presentare un’interpretazione del vangelo che, se è contrastante con l’ortodossia delle chiese cristiane, è però ricca di suggestioni di grande attualità. Come Kant aveva già affermato nel 1784, l’uomo deve uscire da quello stato di minorità che consiste nella “incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”(Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?), e quest’atteggiamento adulto è particolarmente importante proprio nelle questioni religiose, perché “la minorità in cose di religione è fra tutte le forme di minorità la più dannosa e anche la più umiliante”(ivi). Kant comincia dunque col distinguere un modello ideale, una chiesa invisibile concepita come una società composta da “tutti i giusti sotto il governo immediato e morale di Dio”(La religione entro i limiti della sola ragione, Roma-Bari 1994, p 108, traduzione, da me ritoccata, di A. Poggi), dalle comunità effettivamente esistenti, le chiese visibili che riuniscono “gli uomini in un Tutto che concorda con questo ideale”(ivi). Riconosciuta la necessità di queste chiese, che si rifanno a questa o quella rivelazione storica per sostenere la vita morale degli uomini i quali, per la loro costitutiva fragilità, hanno bisogno di supporti sensibili e di conferme empiriche dei “concetti e dei principi razionali più elevati”(p 118), Kant si preoccupa però di indicare subito i contrassegni dell’autentica chiesa visibile, davvero in sintonia col modello ideale: la volontà di perseguire la crescita dell’uomo e di favorire il rigore morale, evitando “sciocche superstizioni e deliranti fanatismi”(p 109), la capacità di costruire una società libera, sia al suo interno che nelle relazioni “con il potere politico”(ivi), e fondata su principi essenziali certi e non su “simboli arbitrari che, mancando di autenticità, sono contingenti, soggetti a contraddizione e variabili”(ivi). Libero dal pregiudizio che una chiesa visibile, la propria, sia superiore alle altre, Kant può perciò sostenere con grande obiettività che “tutte meritano un uguale rispetto, in quanto le loro forme sono tentativi coi quali i poveri mortali hanno voluto rendersi sensibile il regno di Dio sulla terra, ma tutte meritano uguale biasimo”(p 194 nota) se identificano se stesse con quel regno. Concentrando, quindi, l’attenzione sulle chiese cristiane, Kant si mostra sinceramente convinto della bontà della rivelazione cui esse si richiamano: la Scrittura è infatti un libro che contiene “la più pura dottrina morale della religione”(p 115). È però ovvio che, essendo il miglioramento morale dell’uomo il fine proprio della vera religiosità, sarà appunto questo “il principio supremo di ogni interpretazione della Scrittura”(p 121). Come i Greci e i Romani hanno saputo reinterpretare la loro mitologia mettendola in consonanza con la ragione, così è compito dei cristiani interpretare la loro tradizione religiosa “in modo che concordi con le regole pratiche universali di una religione razionale pura”(p 118). Del resto, il cuore del messaggio evangelico è in perfetta sintonia con le esigenze di una religione razionale: Gesù ha abolito la fede servile, che vuole assicurarsi il favore divino con l’osservanza di prescrizioni legali, e ha proclamato “unica fede santificante la fede morale, la sola che rende gli uomini santi ‘come santo è il loro Padre che è nel cielo’ e la cui purezza si prova con la buona condotta”(p 140). E la fede morale, degna di persone adulte, non è certo quella che muove all’azione in vista della ricompensa; rifacendosi al capitolo 25 di Matteo, Kant sottolinea infatti che i giusti della parabola, che hanno soccorso i bisognosi, non lo hanno fatto in vista del premio, tanto è vero che si stupiscono di riceverlo: è chiaro, quindi, che “il maestro del Vangelo, quando parla di ricompensa da ricevere in un mondo futuro, non ha voluto farne il movente delle azioni umane”(p 178). Piuttosto severo, invece, è il suo giudizio sulle chiese cristiane, che nel corso dei secoli spesso hanno tradito la loro finalità, quella di orientare gli uomini verso una pura religione morale: alla luce dell’insegnamento di Gesù, è chiaro per Kant che “all’infuori di una buona condotta, tutto quello che l’uomo crede di poter fare per rendersi gradito a Dio è pura illusione religiosa e falso culto di Dio”(p 188). Falso culto è, anzitutto, quello di una chiesa che vuole imporre, con la minaccia dell’eterna dannazione, la fede in dogmi di cui i credenti non possono “accertarsi né con la ragione né con la Scrittura”(p 182), e i cui dignitari, riservandosi il compito della corretta interpretazione del vangelo, finiscono col cambiare “il servizio della chiesa (ministerium) in un dominio sui fedeli (imperium), benchè, per mascherare questa usurpazione, si servano del modesto titolo di servi”(ivi). La chiesa allontana, poi, dal vero culto coll’incoraggiare la pratica di sacrifici e penitenze come mezzi per ottenere la guarigione delle malattie o la remissione dei peccati. In realtà, solo l’intenzione morale è gradita a Dio e non “i tormenti che infliggiamo a noi stessi e che erroneamente crediamo tanto più santi quanto più sono inutili e quanto meno mirano al miglioramento morale dell’umanità”(p 187). Ciò vale anche per gli esercizi di pietà: “recarsi in chiesa nei giorni prescritti o andare in pellegrinaggio ai santuari di Loreto o della Palestina”(p 191) non serve a nulla. E persino la preghiera, concepita “come mezzo per ottenere la grazia, è un’illusione superstiziosa (un feticismo) perché non è che la manifestazione dei nostri desideri a un Essere che non ha alcun bisogno che gli illustriamo il nostro intimo sentire”(p 217). La preghiera ha valore se non si propone di influire sulla volontà divina ma solo di rafforzare il nostro impegno morale: “il sincero desiderio di essere graditi a Dio con le nostre intenzioni e i nostri atti, accompagnando tutte le nostre azioni col sentimento che le dedichiamo al servizio di Dio, è lo spirito di preghiera, che può e deve ‘senza interruzione’ trovarsi in noi. Ma il rivestire questo desiderio (sia pure solo interiormente) di parole e di formule può tutt’al più assumere il valore di un mezzo adatto per vivificare sempre di nuovo in noi quei sentimenti”(p 218). E Kant non si stanca di ribadire che la religione ha come scopo quello di promuovere la vita morale e non di innalzare lodi a Dio come per adularlo, perché in tal caso diventa “idolatria. La pietà non è dunque un surrogato della virtù, che ne possa fare a meno, ne è invece il compimento, che permette alla virtù di sperare nel consegimento di tutti i fini buoni”(p 206). In questo senso Kant interpreta l’invito evangelico a passare per la porta stretta: “la porta stretta e la via angusta sono quelle della buona condotta; la porta larga e la via spaziosa che seguono molti è la chiesa [… che ostacola la crescita morale di chi] ritiene l’entrata nella chiesa e l’obbedienza alle sue prescrizioni o la celebrazione dei suoi riti come il culto col quale Dio esattamente vuole essere servito”(p 176 nota). Inaccettabile, quindi, l’idea che l’appartenenza ad una determinata chiesa sia la condizione decisiva per la salvezza e che tutti coloro che ne sono fuori, anche se praticano la virtù, siano destinati all’inferno. Così, per quanto riguarda i sacramenti, occorre liberarsi dall’idea che un rito possa magicamente ottenere la benevolenza divina: questa sarebbe una fede feticicista, che consiste nella persuasione che “perché un effetto si produca, quando né le leggi fisiche né le leggi morali della ragione sarebbero in grado di produrlo, basti credere fermamente che ciò che si desidera si produrrà e accompagnare questa credenza con determinate cerimonie”(p 216). Il battesimo, per esempio, è una cerimonia ricca di significato che ha lo scopo di accogliere con solennità un nuovo membro della chiesa ma non è certo un rito che possa rendere santo il battezzato o “cancellare d’un colpo tutti i peccati, illusione questa che manifestava chiaramente la sua affinità con una superstizione quasi più che pagana”(p 223). Ugualmente significativa è la celebrazione eucaristica, che invitando tutti alla stessa tavola “allarga la mentalità umana, ristretta egoista e intollerante specialmente in cose religiose, sino all’idea di una comunità morale universale e costituisce un mezzo eccellente per eccitare i fedeli al sentimento morale dell’amore fraterno, che essa rende presente in maniera sensibile”(ivi). Ovviamente nulla a che vedere, anche in questo caso, con le pretese di un clero che vuol far credere di “avere il possesso esclusivo dei mezzi che possono dispensare la grazia”(p 224). Un clero che, presentando la propria chiesa come l’unica vera perché fondata direttamente da Dio e imponendo ai laici una serie di dogmi da accettare sotto pena di scomunica, mira a esercitare il suo potere sulla massa dei fedeli e sulle stesse autorità politiche: infatti, “poiché al di fuori del clero non ci sono che i laici (e tali sono anche i capi della comunità politica), in definitiva la chiesa domina sullo stato non usando la forza ma influenzando gli spiriti e mostrando, d’altra parte, i pretesi vantaggi che lo stato stesso può trarre dall’obbedienza incondizionata alla quale la disciplina ecclesiastica ha abituato il pensiero del popolo”(p 200). Il potere spirituale si erge così al di sopra del potere temporale e diventa totalitario, perché controlla non solo le azioni ma i pensieri stessi dei fedeli: infatti “è sempre facile ai custodi dell’ortodossia, nella loro qualità di pastori delle anime, inculcare nelle loro pecorelle un pio terrore per la più piccola deroga da certi dogmi, che hanno un’origine storica, anzi addirittura per un loro esame critico, al punto che esse non osano formulare dentro di sé, neppure col pensiero, un dubbio qualsiasi su quei dogmi, perché ciò sarebbe come prestare orecchio allo spirito maligno”(p 147 nota). In conclusione, il giudizio di Kant sulla storia cristiana è decisamente negativo. Dimenticato il nucleo centrale del vangelo, e cioè la fede morale, la chiesa, invece di promuovere la crescita morale dell’umanità, ha finito con l’ostacolarla e ha prodotto una superstiziosa fiducia nei miracoli, il ricorso alla coercizione per imporre l’ortodossia, le crociate contro gli infedeli e le guerre di religione tra gli stessi seguaci di Cristo. Un triste spettacolo che “potrebbe certo giustificare l’esclamazione: Tantum religio potuit suadere malorum (Lucrezio, De rerum natura, I 101)”(p 144). Ciò non significa, tuttavia, che la situazione non possa cambiare: la condizione imprescindibile è però che gli studiosi possano esercitare liberamente la loro critica sugli errori del passato e che il potere non impedisca il pubblico uso della ragione. La speranza di Kant è che la maturazione della coscienza umana, di cui nel ’700 si intravedono i primi segni, possa portare al superamento di una religiosità infantile: “i sostegni della tradizione sacra […] diventano a poco a poco inutili e infine addirittura catene quando l’uomo entra nell’adolescenza”(p 133). Imboccata questa direzione, sarà allora possibile “fare a meno dei dogmi stessi”(p 194); anche “la differenza umiliante fra i laici e i chierici”(p 133) potrà prima o poi scomparire, e dall’uguaglianza nascerà “la vera libertà, che non significa anarchia, poiché ciascuno obbedisce alla legge che prescrive a se medesimo”(ivi). La stessa chiesa smetterà, quindi, di assolutizzare se stessa, riconoscendo che i suoi insegnamenti sono solo un mezzo di cui un’umanità matura può fare a meno: “una chiesa può sempre essere detta quella vera se è consapevole che la fede storica non è che un veicolo e che, in quanto fede di chiesa, porta con sé il principio di avvicinarsi continuamente alla fede religiosa pura, per poter rendere finalmente inutile quel veicolo stesso”(p 125). Solo allora “quando avrà trionfato il vero illuminismo [… sarà possibile] sostituire alle forme degradanti di credenze coercitive una forma ecclesiastica adeguata alla dignità di una religione morale, cioè la forma di una fede libera”(p 134, nota). 2006: intervenendo al 4° Convegno ecclesiale nazionale di Verona, il 19 ottobre Benedetto XVI ha affermato che l’Italia è un terreno “profondamente bisognoso [della testimonianza della chiesa], perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo”. Ma se i cattolici riusciranno ad arrestare questa progressiva secolarizzazione della società, “la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo”. Queste parole del papa testimoniano che, più delle altre chiese cristiane, quella cattolica considera ancora oggi l’illuminismo un nemico estremamente pericoloso. In effetti, è facile constatare che in Europa nel corso degli ultimi due secoli il sapere si è basato più sul principio di ragione che su quello d’autorità, e ciò ha provocato un deciso ridimensionamento del ruolo e del potere della gerarchia ecclesiastica. Come già altre volte in passato, la chiesa gerarchica è quindi, oggi più che mai, impegnata nel tentativo di delegittimare quelle correnti culturali che hanno messo in discussione la sua autorità e le sue tradizioni. Infatti già nellottobre del 1982, nel corso del V Simposio dei vescovi dEuropa, Giovanni Paolo II, dopo avere ricordato che "lEuropa è stata battezzata dal Cristianesimo", affermava: "Se nel corso di crisi successive la cultura europea ha cercato di prendere le distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che allora è stato proclamato come una volontà di emancipazione e di autonomia in realtà era una crisi interiore alla stessa coscienza europea, messa alla prova e tentata nella sua identità profonda, nelle sue scelte fondamentali e nel suo destino storico". Ed ecco la strategia messa in atto come terapia della ‘crisi della coscienza europea’: alleanza con le forze più reazionarie del mondo politico ed economico per la difesa delle radici cristiane, riaffermazione del ruolo del magistero cattolico quale interprete della rivelazione, con la conseguente subordinazione del laicato al clero e dei parlamentari ai principi della legge naturale custoditi dalla chiesa docente, ripresentazione di una morale sessuale repressiva, ritorno a pratiche di pietà tradizionali come pellegrinaggi e recita del rosario, esaltazione del culto dei santi e spettacolarizzazione del giubileo. Non c’è dubbio che in questo modo il Vaticano negli ultimi anni è riuscito a serrare le file del suo gregge ed è tornato sulla scena da protagonista, ma il successo, amplificato dal clamore mediatico, è spesso solo apparente: in realtà, non solo continua a ridursi in Europa il numero dei fedeli ma anche coloro che si dichiarano cattolici hanno acquisito una crescente libertà nei confronti della dottrina e delle pratiche tradizionali, seguendo più la propria coscienza che i precetti dell’autorità. Come prevedeva Kant, una maggiore libertà di pensiero ha consentito un profondo rinnovamento persino nel campo più soggetto al diretto controllo dell’autorità ecclesiastica, quello della teologia, senza che i provvedimenti repressivi del Sant’Uffizio prima e della Congregazione per la dottrina della fede poi abbiano potuto soffocarlo. Così non mancano oggi cattolici che vivono la loro esperienza di fede rifiutando la subordinazione del laicato al clero, superando in spirito ecumenico le divisioni tra le diverse chiese e sforzandosi, assieme anche a non cristiani e non credenti, di tradurre in pratica il messaggio evangelico con la loro attività a servizio della pace tra gli Stati, della giustizia sociale e della salvaguardia dell’ambiente. Del resto, non è proprio il vangelo che relativizza l’importanza delle appartenenze religiose, quando presenta Gesù che alla samaritana, che chiede se il vero culto ha il suo centro sul monte Garizim o a Gerusalemme, risponde “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori”(Giovanni 4, 23)? E non è ancora il vangelo che esige di lodare Dio non con le parole ma con la vita, mettendo l’accento non sull’ortodossia ma sull’ortoprassi: “non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”(Matteo 7, 21)? Come ricordava Kant, “coloro che cercano di essere graditi a Lui con la loro buona condotta sono quelli che lo onorano come Egli desidera”(p 112). Criticando giustamente l’ingenuo ottimismo di una ragione che, emancipatasi dalle pastoie della tradizione religiosa, rischia di idolatrare se stessa e, al contempo, rinunziando all’arrogante pretesa di conoscere con assoluta certezza i piani divini, i cattolici possono quindi dare il loro specifico contributo alla soluzione dei gravi problemi del mondo contemporaneo, mostrando con le loro opere la validità della loro fede. Non è invece affatto pensabile il ritorno ad una società sacrale, di cui sia guida la chiesa, unica depositaria della verità e dei valori morali. Ormai viviamo in una società in cui il pluralismo è un fatto irreversibile e la pacifica convivenza può basarsi soltanto sul libero confronto tra posizioni differenti. Solo principi condivisi in quanto riconosciuti validi dalla ragione, in un confronto in cui credenti e non credenti si riconoscono su un piano di parità, possono stare alla base di una società democratica. Purtroppo è ciò che ancora oggi la chiesa romana rifiuta, reclamando con insospettata aggressività l’unicità del suo ruolo di maestra di verità e bollando il pluralismo come inaccettabile relativismo. Quella del Vaticano è, dunque, una battaglia di retroguardia, un tentativo oscurantista di promuovere quella religiosità che Kant bollava come feticista e di tornare a uno stato confessionale, in cui è la gerarchia a guidare il gregge dei fedeli e a dettar legge persino in campo politico. Si tratta del sogno anacronistico di un ritorno al medioevo, a un regime teocratico in cui, per dirla ancora con Kant, “il capo spirituale tenne sottomessi i re come fanciulli per mezzo della bacchetta magica della minaccia di una sua scomunica”(p 144). Ciò non toglie che tale disegno va contrastato con fermezza, specialmente in Italia. Poiché il Vaticano attribuisce al nostro Paese, per ragioni storiche decisamente carente quanto a spirito laico, un ruolo strategico per il successo dell’operazione, gli intellettuali italiani non dovrebbero sottovalutare l’importanza della posta in gioco. Spetta a loro difendere l’autonomia della ragione, che non deve essere inbrigliata da pretese verità di fede, e la laicità delle istituzioni, prevista dalla nostra costituzione, opponendosi al tentativo, non adeguatamente contrastato da alcun partito politico, di rifare anzitutto dell’Italia uno stato confessionale. Rivendicando il valore della libertà di coscienza e respingendo come irricevibile la pretesa di imporre disposizioni vincolanti su materie quali diritti dei conviventi o degli omosessuali, gli intellettuali cattolici, in particolare, renderebbero un grande servizio alle gerarchie ecclesiastiche, aiutandole a riscoprire quel senso del limite che era presente ancora alla fine del IV secolo, quando il vescovo Giovanni Crisostomo scriveva: “Noi non abbiamo autorità sulla vostra fede, diletti, né vi comandiamo queste cose in qualità di signori e di padroni. Noi siamo preposti all’insegnamento della parola, non al potere né all’autorità assoluta. Il nostro posto è quello di consulenti, per darvi consigli. Il consulente espone le proprie opinioni, non forza chi lo ascolta ma gli lascia piena potestà sulla propria scelta a riguardo di ciò che si è detto”(Homiliae in Epistolam ad Ephesios, 11, 15-16). www.italialaica.it(18-3-2007) Giovedì, 22 marzo 2007 |