ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA: GESU’ "CRISTO" ERA CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO" E FA IL SANTO "PADRINO".... CON "MAMMASANTISSIMA"!!!
FEDE E CARITA' ("CHARITAS"): CREDERE "ALL'AMORE" ("CHARITATI"). Enzo Bianchi si domanda "come si può credere in Dio se non si crede nell’altro?", ma non si rende conto che è il quadro teologico costantiniano e mammonico che va abbandonato!
(...) chi è credente? Quando uno crede veramente? Sono davvero non credenti tutti quelli che si dicono atei? E sono veramente credenti tutti quelli che dicono di credere in Dio o vantano orgogliosamente la propria appartenenza cristiana? (...)
a cura di Federico La Sala
Come si può credere in Dio se non si crede nell’altro? di Enzo Bianchi (Jesus, n° 9, settembre 2010) Secondo l’apostolo Paolo, «non di tutti è la fede» (2Tess 3,2), cioè non tutti accolgono il dono della fede da parte di Dio perché essa è «virtù teologale», come recitava il catechismo: si può quindi affermare anche che questo dono non è fatto a tutti. La fede, infatti, nasce dall’ascolto (Rm 10,17) e perciò occorre che la parola di Dio giunga al cuore dell’uomo e vi desti la fede. Ma è anche vero che la fede - proprio perché è accolta dall’uomo, proprio perché è l’uomo a credere - è anche un atto umano, di libertà, al quale si può essere educati: la fede, infatti, quale atto umanissimo e vitale significa entrare in relazione, avviare un rapporto vivo con l’altro", è dire "Amen", aderire, fare fiducia, credere. La fede, il credere sono una necessità umana: potremmo dire che non ci può essere autentica umanizzazione senza la fede. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? A differenza di molti animali, infatti, noi usciamo incompiuti dal grembo di nostra madre e per "venire al mondo", per crescere come persone in relazione con gli altri dobbiamo mettere fiducia in qualcuno. Il bambino, appena nato dalla madre, ha subito bisogno di sentire che può mettere fiducia anche in suo padre, nei genitori, in quelli che sono i suoi primi riferimenti. Occorre che gli venga dato il cibo, un riparo dal freddo o dal caldo, la parola... e così viene educato a credere perché, scoprendo gratuità e coerenza, sente di poter crescere e di potersi fidare, avverte che esistere ha un senso. È credendo negli altri che, poco a poco, il bambino crede anche in sé stesso: l’affidabilità è possibile. Più tardi scoprirà di essere in grado di iniziare una storia d’amore solo se sarà capace di credere nell’altro e di essere a propria volta affidabile per l’altro. Non è significativo che un tempo coloro che iniziavano una storia d’amore con responsabilità e consapevolezza si chiamavano "fidanzati" e al momento delle nozze si scambiavano la "fede"? Durante tutta la nostra esistenza dobbiamo saper credere agli altri: anche nelle relazioni sociali e in quelle economiche dobbiamo fidarci, "fare credito", come dice il linguaggio commerciale, cioè credere a qualcuno. Sì, c’è un’umanità della fede alla quale noi cristiani, purtroppo, non siamo sufficientemente attenti: rischiamo di essere divorati dall’ansia o dalla passione della fede in Dio e non comprendiamo che senza questa fede umana non è possibile che in una persona si innesti la fede in Dio, se non come dichiarazione teista, come affermazione di appartenenza culturale e identitaria, non certo come confessione cristiana. Ma proprio questa umanità della fede ci porta a confessare oggi la crisi della fede: crisi dell’atto umano del credere diventato così difficile, raro e sovente, comunque, contraddetto. Siamo poco disposti a mettere fiducia negli altri, siamo incapaci a «credere insieme con gli altri» in un obiettivo, un progetto che pur sentiamo buono. Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile una storia perseverante e fedele nell’amore? Perché la parola data nel matrimonio o nella vita comunitaria, nelle relazioni amorose è così facilmente smentita? Oggi non riusciamo più a credere e forse, soprattutto, a credere nell’amore? Eppure l’apostolo Giovanni dà questa definizione lapidaria dei cristiani: «Noi siamo quelli che crediamo all’amore» (1Gv 4,16). Sovente sento lamentele sulla mancanza di fede in Dio, sulla rimozione che la nostra società opera nei confronti di Dio, ma in cuore sono tentato da una reazione di insofferenza: com’è possibile lamentarsi che la gente non crede più in Dio quando non crede più nell’altro, in chi sta accanto, nella compagnia degli uomini e delle donne? Come pensare di poter credere in un Dio che non si vede e non credere negli altri che vediamo e grazie ai quali cresciamo e diventiamo persone adulte? A leggere con sapienza la Bibbia, vi cogliamo innanzitutto una lunga educazione alla fede, operata da Dio stesso, partendo da Abramo fino a Gesù Cristo. Non a caso il libro della Sapienza ci parla di «Dio educatore dell’uomo», Dio che insegna a essere umani. La Chiesa italiana si è impegnata nei prossimi anni a riflettere sull’educazione alla fede: non dimentichiamoci che la ricerca e l’impegno saranno fecondi se terremo conto che la fede ha anche un’umanità: questo significa non solo credere in Dio, ma anche credere nel prossimo, nella Terra, nel futuro. Una domanda mi pare sorgere allora da queste considerazioni: chi è credente? Quando uno crede veramente? Sono davvero non credenti tutti quelli che si dicono atei? E sono veramente credenti tutti quelli che dicono di credere in Dio o vantano orgogliosamente la propria appartenenza cristiana? Lunedì 06 Settembre,2010 Ore: 15:36 |