Verso Sibiu. 2
Cattolici alla scuola dell’ecumenismo

di Brunetto Salvarani

Secondo di quattro articoli


Ringraziamo il carissimo amico Brunetto Salvarani, direttore di CEM-Mondialità, per averci messo a disposizione questo articolo, secondo di quattro, pubblicato sul settimanale Settimana (EDB) di Bologna sul prossimo incontro ecumenico di Sibiu.


Come prepararsi a seguire, sul posto o dalle proprie chiese locali, lo svolgimento della terza tappa del processo conciliare avviato nel 1989 a Basilea, proseguito nel ’97 con l’assemblea di Graz e ora giunto in Romania, nel cuore della nuova Europa (Sibiu, 4-9 settembre 2007, sul tema La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento ed unità in Europa)? Sarà utile, in ogni caso, soffermarsi, sia pur brevemente, sul cammino ecumenico effettuato dalla chiesa di Roma nel corso del Novecento. Sul quale è toccato a Giovanni Paolo II pronunciare parole che non ammettono discussione: «La chiesa cattolica si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica» (Ut unum sint n.3); replicate perentoriamente alcuni anni dopo, in un messaggio del 3 novembre 2003 al Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani: «Noi, alla scuola dell’ecumenismo, stiamo imparando a vivere con umile fiducia questo periodo intermedio, nella consapevolezza che esso resta comunque un periodo di non ritorno». Certo, la sfida di Sibiu è a tutto campo, se ha ragione il pastore Luca Negro, segretario della Conferenza delle Chiese europee (KEK), quando sostiene che essa consiste nel riconoscere il bisogno di rilanciare il cammino di riconciliazione delle chiese, in un momento delicato in cui - oltre ad uno stallo innegabile su più di un punto importante -  stiamo assistendo ad un forte rilancio del confessionalismo. Da qui, l’idea sottesa alla prossima assemblea, quella del pellegrinaggio alle fonti delle tre grandi tradizioni cristiane d’Europa, cattolica, ortodossa e protestante: con l’intenzione di fornire innanzitutto una risposta ecumenica intelligente al confessionalismo, con l’identità delle singole confessioni che non viene negata, ma piuttosto prima subordinata ad un forte messaggio cristologico, e poi rilanciata in termini ecumenici. Un’identità, dunque, da vivere non da soli, in uno spirito di arroccamento e di chiusura identitaria, ma ponendo i doni specifici ricevuti al servizio di tutti[1].

LA VOCE DEL CONCILIO

Di solito, il senso comune argomenta che l’itinerario ecumenico in campo cattolico sarebbe cominciato soltanto con il Concilio Vaticano II (1962-65): ma l’affermazione è vera solo in parte. Non erano mancate, in precedenza, delle iniziative mirate ad un’unificazione della cristianità. Certo, il contesto in cui esse si tenevano dava per scontato che il loro obiettivo fosse il far rientrare i cosiddetti fratelli separati nell’alveo della chiesa vera, quella cattolica; e che quest’ultima avrebbe dovuto predisporsi ad offrire loro una patria. Da questo punto di vista, l’assise conciliare rappresentò senza dubbio un vistoso passo in avanti: con una serie di gesti simbolicamente assai forti, quali la storica revoca delle reciproche scomuniche fra Roma e Costantinopoli (Tòmos Agàpis, ’65), l’invito di osservatori ufficiali provenienti dalle altre chiese cristiane, la fondazione di un Segretariato per l’unità dei cristiani, e così via. Le affermazioni ecumenicamente più rilevanti si trovano sparse nei documenti conciliari, non solo nella Unitatis Redintegratio: nelle costituzioni sulla chiesa e sulla rivelazione, nel decreto sulle religioni non cristiane, in quello sulla libertà religiosa, nonché nella Gaudium et Spes, dedicato ai rapporti fra la chiesa e il mondo contemporaneo e segnato da un’ottimistica fiducia nell’idea di progresso che gli anni successivi avrebbero purtroppo rapidamente messo in crisi. Secondo Peter Neuner, ecumenista illustre che insegna all’Università di Monaco di Baviera, nel concilio non fu tralasciato alcun tema riguardante la prospettiva ecumenica, “perché in una chiesa ecumenicamente aperta non ci può essere alcuna questione puramente interna”[2]. Singole affermazioni importanti si registrarono, nell’occasione, a proposito del ministero ecclesiale e dell’eucaristia, dei matrimoni confessionalmente misti, dell’intercomunione, del rapporto tra primato petrino e collegialità episcopale e del rapporto tra chiesa locale e chiesa universale, della libertà di coscienza e della libertà religiosa.

La base teologica di tale orientamento ecumenico fu posta nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, quando - riguardo alla chiesa di Gesù Cristo - i padri conciliari scrissero che essa «sussiste (subsistit) nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (LG n.8). Passo delicatissimo e spesso citato da diverse angolature, il cui testo preparatorio prevedeva in ogni caso la dizione «questa chiesa è (est) la chiesa romano-cattolica», prima che l’est fosse sostituito con subsistit in. Secondo Neuner, ciò starebbe a significare che la chiesa come istituzione manifesta la chiesa di Gesù Cristo in una forma storicamente limitata: una pretesa che deve avanzare qualsiasi chiesa, qualora essa non voglia dichiararsi illegittima[3]! Ma da qui, nel Vaticano II, non viene più dedotto che non possano eventualmente darsi anche altre sussistenze di chiesa: cosa che, se non viene direttamente formulata in questo passo, non viene neppure esclusa. Con lo spostamento dall’est al subsistit in, quasi impercettibile nella traduzione, e con le possibilità di interpretazione lasciate intenzionalmente aperte, è «diventato possibile uno sviluppo dalla portata imprevedibile», come evidenziò nel suo commento alla Lumen Gentium il teologo - e futuro cardinale - Alois Grillmeier. In effetti, il concilio non parlò solo delle chiese ortodosse orientali, in cui parimenti sussiste la chiesa di Cristo, ma anche delle «chiese e comunità ecclesiali» occidentali, senza indicare con maggior precisione a chi spetti una simile qualifica: esso ha così, in ogni caso, dischiuso la possibilità di concepire come chiese anche le comunità sorte dalla Riforma, e di riconoscere in tal modo in esse ciò che, secondo la concezione cattolica, rende la chiesa percepibile come tale.

IL MINISTERO PETRINO

Nel dopo- concilio, il documento magisteriale che meglio sintetizza la centralità strategica del dialogo ecumenico nella vita delle chiese resta senz’altro, da parte cattolica, la già citata enciclica di papa Wojtyla Ut unum sint, del 1995. In questo testo, assai articolato, viene infatti solennemente ribadito che «il movimento a favore dell’unità dei cristiani non è soltanto una qualche appendice, che si aggiunge all’attività tradizionale della chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione» (n.20). Non solo. Qui, Giovanni Paolo II è arrivato a compiere quello che lo stesso cardinal Kasper, attuale presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, ha definito senza mezzi termini un «passo rivoluzionario»[4]. Il riferimento è alla sua ammissione di consapevolezza del fatto che «la convinzione della Chiesa cattolica di avere conservato… nel ministero del Vescovo di Roma il segno visibile e il garante dell’unità, costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi»; per poi aggiungere: «Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI imploro perdono» (n.88). Consapevole di una tale responsabilità particolare per l’auspicabile unità cristiana, il pontefice polacco dichiarava coraggiosamente che era sua volontà «trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova», fino a pregare che «lo Spirito Santo ci doni la sua luce ed illumini tutti i pastori e i teologi delle nostre chiese, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (n.95). Infine, invitava i leader delle chiese e gli stessi teologi adimpegnarsi con lui «su questo argomento in un dialogo fraterno, paziente» (n.96): appello che ebbe modo di ripetere in più di un frangente successivo, sottolineando inoltre che non c’era tempo da perdere… Evidentemente, Giovanni Paolo II non intendeva mettere in discussione il ministero petrino in quanto tale, né i dogmi del primato e dell’infallibilità, ma avviare una ricerca verso nuove forme del suo esercizio, senza rinunciare alla sua essenza: per questo l’Ut unum sint distingue tra essenza immutabile e le sue forme mutabili. E proprio qui, del resto, risiede buona parte del problema, dato che le altre chiese, spesso, negano semplicemente che si dia un ministero petrino, o sono in disaccordo quanto alla questione della sua essenza e del tipo delle sue forme mutevoli: pertanto, ammonisce Kasper, «la questione non è puramente pratica o pragmatica, ma teologica»[5]. Sta di fatto, peraltro, che l’invito papale, nonostante solitamente si pensi il contrario, non è caduto nel vuoto, ma è stato discretamente recepito: con risposte ufficiali da parte di alcune chiese (come quella di Inghilterra e di Svezia) e un gran numero di contributi teologici sotto forma di libri, articoli, conferenze e simposi[6].

FRATELLI CHE CAMMINANO ACCANTO

Si affronterà tutto questo a Sibiu? Difficile immaginarlo… Resta il dato di fatto che, pur senza troppo rumore e forse troppo lentamente, la macchina della riflessione ecumenica è in moto: prossimamente ne riprenderemo alcun fra i punti di snodo più delicati e dibattuti, in questi ultimi anni. E se certamente, oggi è diffusa l’impressione che la sensibilità ecumenica - dopo la stagione ardente del Vaticano II - sia sovente contraddetta e trascurata, in profondità, nel popolo di Dio e tra i semplici cristiani, il dialogo fra credenti in Cristo è sempre più sentito come forma cristiana e vissuto nella finalità di chi incontra l’altro cristiano non più come eretico o scismatico, ma come fratello che cammina accanto, verso quell’unità voluta dal Signore e non dalle eventuali convenienze strategiche orchestrate dalle chiese. Matta el Meskin, il fervente monaco copto scomparso poco tempo fa, amava ricordare spesso che più i cristiani sono fedeli al vangelo, più facilmente s’incontrano e trovano unità e comunione: la trovano, appunto, nel loro Signore, guidati dallo Spirito nella pratica quotidiana del vangelo. Con lo stesso metro, mi pare, sarà possibile misurare la temperatura reale di Sibiu.

Brunetto Salvarani



[1] Cfr. B.SALVARANI, «Sibiu città “dai tre volti”», in Settimana n.21 (2007), p.10.

[2] P.NEUNER, «Il cammino dell’ecumenismo nel XX secolo», in R.GIBELLINI, a cura, Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003, p.323. Dello stesso autore, ricordo anche uno studio particolarmente curato sull’argomento: Teologia ecumenica. La ricerca dell’unità tra le chiese cristiane, Queriniana, Brescia 2000.

[3] Ivi.

[4] W.KASPER, Vie dell’unità. Prospettive per l’ecumenismo, Queriniana, Brescia 2006, p.198.

[5] Ivi, p.199.

[6] Un titolo fra i tanti, fra i più significativi: H.J.POTTMEJER, Il ruolo del Papato nel terzo millennio, Queriniana, Brescia 2002.



Venerdì, 13 luglio 2007