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Papa Francesco risponde a Eugenio Scalfari e ai non credenti e rispiega la sua ratzingeriana "Lumen fidei". Il testo della lettera - con note ,a c. di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: September 13 2013 14:01:15.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/9/2013 17.22
Titolo:acalfari. Il dialogo del Pontefice con la pecora smarrita
Gesù, fede e ragione, il dialogo del Pontefice con la pecora smarrita


di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 11.09.2013)

PAPA Francesco ha deciso di rispondere alle domande che gli avevo indirizzato in due articoli, rispettivamente pubblicati sul nostro giornale il 7 luglio e il 7 agosto scorsi.

Francamente non mi aspettavo che lo facesse così diffusamente e con spirito così affettuosamente fraterno. Forse perché la pecora smarrita merita maggiore attenzione e cura? Lo dico perché negli articoli sopra citati ho precisato al Papa che io sono un «non credente e non cerco Dio» anche se «sono da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di David». E più oltre scrivo che «Dio, secondo me, è un’invenzione consolatoria della mente degli uomini».

Mi permetto di ricordare questa mia posizione di interlocutore anche perché essa rende ai nostri occhi ancor più «scandalosamente affascinante» la lettera che Papa Francesco mi ha inviato, una prova ulteriore della sua capacità e desiderio di superare gli steccati dialogando con tutti alla ricerca della pace, dell’amore e della testimonianza.

CIÒ detto, riassumo le domande e le riflessioni che ho fatto e alle quali il Papa risponde, affinché i lettori abbiano ben chiaro il quadro entro il quale si svolge questo dialogo.

1 — La modernità illuminista ha messo in discussione il tema dell’“assoluto”, a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante ciascuno individuo ne configura?

2 — I Vangeli e la dottrina della Chiesa affermano che l’Unigenito di Dio si è fatto carne non certo indossando un abito e imitando le movenze degli uomini e restando Dio, bensì assumendone anche i dolori, le gioie e i desideri. Ciò significa che Gesù ha avuto tutte le tentazioni della carne e le ha vinte non in quanto Dio ma in quanto uomo che si era posto il fine di portare l’amore per gli altri allo stesso livello d’intensità dell’amore per sé. Di qui l’incitamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Fino a che punto la predicazione di Gesù e della Chiesa fondata dai suoi discepoli ha realizzato questo obiettivo?

3 — Le altre religioni monoteiste, l’ebraica e l’Islam, prevedono un solo Dio, il mistero della Trinità gli è del tutto estraneo. Il cristianesimo è dunque un monoteismo alquanto particolare. Come si spiega per una religione che ha come radice il Dio biblico, che non ha alcun Figlio Unigenito e non può essere né nominato né tantomeno raffigurato, come del resto Allah?

4 — Il Dio incarnato ha sempre affermato che il suo regno non era e non sarebbe mai stato di questo mondo. Di qui il “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Questo “limite” ha avuto come logica conseguenza che il cristianesimo non avrebbe mai dovuto avere la tentazione della teocrazia, che invece domina nelle terre islamiche. Tuttavia anche il cristianesimo soprattutto nella sua versione cattolica, ha sentito fortemente la tentazione del potere terreno, la temporalità ha spesso superato la pastoralità della Chiesa. Papa Francesco rappresenta finalmente la prevalenza della Chiesa povera e pastorale su quella istituzionale e temporalistica?

5 — Dio promise ad Abramo e al popolo eletto di Israele prosperità e felicità, ma questa promessa non fu mai realizzata e culminò, dopo molti secoli di persecuzioni e discriminazioni, nell’orrore della Shoah. Il Dio di Abramo, che è anche quello dei cristiani, non ha dunque mantenuto la sua promessa?

6 — Se una persona non ha fede né la cerca ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

7 — Il credente crede nella verità rivelata, il non credente crede che non esista alcun “assoluto” ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

8 — Il Papa ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie finirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Ma quando la nostra specie sarà scomparsa anche il pensiero sarà scomparso e nessuno penserà più Dio. Quindi, a quel punto, Dio sarà morto insieme a tutti gli uomini?

I lettori troveranno in queste pagine le risposte del Papa contenute nella sua lettera, della quale ancora con grande affetto e rispetto lo ringrazio.

Nel nostro giornale di domani formulerò alcune riflessioni per approfondire i temi e portare avanti un dialogo che penso anch’io, come il Papa, sia utile ed anzi prezioso per i lettori, credenti in Gesù Cristo o in altre religioni o in nessuna, ma animati dal desiderio di conoscenza e dalla buona volontà di collaborare al bene comune.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/9/2013 08.02
Titolo:DON ANTONELLI PAPA! Molte delle cose che che scrive il papa io le dico da temp...
DE VERITATE

di don Aldo ANtonelli


Vi giuro!
Ieri mattina, mentre leggevo la lettera di Francesco a Scalfari, mi sono lussato il polso a forza di sbattere il pugno sulla mia scrivania!
Scusatemi, ma sento una soddisfazione incontenibile.
"Debbo vantarmi? Ebbene mi vanterò?" direbbe san Paolo.
Molte delle cose che che scrive il papa io le dico da tempo, da troppo tempo; e in tempi non di moda e non sospetti!
E non da "codino"!

Il papa scrive:
«risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (Citando la Lumen Fidei, n. 34 ).

Ed ancora:
«Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità «assoluta», nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo.
Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa».

Ebbene quante volta ci siamo detti che è una pretesa assurda quella della Chiesa di "possedere la Verità", da cui invece ci si deve sentire posseduti?
Mi permetto solo di riportarvi tre passi specifici, così come mi sovvengono:

La Chiesa prigioniera e saccente (Messaggio del 29.5.2010)
La Verità non è tutta data e non sta tutta e solo nelle Sacre Scritture. Dio continua a parlare “in mille modi” e “in tutti i tempi”, attraverso la chiesa ma anche attraverso la storia, attraverso la gerarchia (non tanto) ma anche attraverso i comuni mortali (molto!), siano essi credenti e siano pure atei.

Come in Cielo…. (Trasmissione del 9.2.2013)
Nella fede la verità è impossedibile, non può essere posseduta, va ricercata di continuo. Gesù diceva: io sono la via. La via indica un cammino, un continuo andare avanti, un continuo sorpassare, lasciare indietro le cose sorpassate. Invece nella religione la verità diventa un possesso, un possesso in base al quale puoi fare anche delle guerre. Anche qui, vedete subito come la differenza tra l’uomo di fede (che non è l’uomo del relativismo, ma è l’uomo che ha la coscienza che la sua conoscenza della verità è relativa e che quindi ha bisogno di una continua scoperta) ha bisogno di una continua ricerca, ha bisogno di posizioni sempre nuove da acquisire.
«Non è vero che chi cerca non crede e che chi crede non cerca; non si può fare a meno di cercare per credere e si cessa di cercare quando si cessa di credere».
Non possessori né custodi ( Messaggio del 22.5.2013)
Mi chiedo perché mai noi cristiani, la gerarchia soprattutto, ci si sia ridotti al falso e prepotente ruolo di "possessori" e/o "custodi", e quindi "difensori della "Verità"!
La Verità, come Dio, non può mai essere posseduta, ma sempre e solo ricercata. Il momento stesso in cui pretendiamo di averla trovata e quindi di possederla, la perdiamo. E' urgentemente necessario fare della fede non la custodia dei "simboli" antichi, ma una corsa nel mondo che corre, una crescita in prospettiva sul futuro.

Ecco, questo solo per dirvi, che da oggi non siamo più soli, se mai lo siamo stati.
Da oggi, sulle nostre "eresie", portiamo anche la benedizione del Papa!

Buona giornata
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/9/2013 10.04
Titolo:Scalfari: una grande emozione!
Quel passo di Francesco per far camminare insieme la Chiesa e i non credenti

di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 12 settembre 2013)

La lettera di papa Francesco da noi pubblicata ieri ha suscitato in me, nel nostro direttore Ezio Mauro e in tutti i colleghi una grande emozione. Penso che la stessa emozione l’abbiano avuta tutti coloro che l’hanno letta.

Non parlo di quello che nel nostro linguaggio gergale chiamiamo “scoop”. Gli scoop alimentano le chiacchiere, non il pensiero e qui, leggendo le parole del Papa, il nostro pensiero è chiamato e stimolato a riflettere di fronte alla concezione del tutto originale che papa Francesco esprime sul tema “fede e ragione”, uno dei cardini dell’architettura spirituale, religiosa e teologica della Chiesa. Ma non soltanto della Chiesa: la cultura moderna dell’Occidente nasce esattamente da quel tema e papa Francesco lo ricorda nella sua lettera quando scrive: «La fede cristiana, la cui incidenza sulla vita dell’uomo è stata espressa attraverso il simbolo della luce, spesso fu bollata come il buio della superstizione. Così tra la Chiesa da una parte e la cultura moderna dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. Ma è venuto ormai il tempo - e il Vaticano II ne ha aperto la stagione - d’un dialogo senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro».

Queste parole sono al tempo stesso una rottura e un’apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati. L’intera lettera di papa Francesco ruota attorno a questa premessa, ma c’è una frase nelle parole del Papa sopra citate che merita a mio avviso una particolare attenzione: «La fede cristiana... è stata espressa attraverso il simbolo della luce».

Bisogna tornare all’“incipit” del Vangelo di Giovanni per trovare questo simbolo, laddove l’evangelista scrive: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio ed era Dio il Verbo. Le cose tutte furono fatte per mezzo di Lui e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini e la luce risplende tra le tenebre ma le tenebre non l’hanno ricevuta».

Qui, in questi tre ultimi versi poetici e profetici come tutto quel quarto Vangelo, nasce la visione cristiana del bene e del male: la vita era la luce degli uomini, ma le tenebre non l’hanno ricevuta. Papa Francesco sviluppa questa visione della contrapposizione tra luce e tenebre, tra bene e male, in modo originalissimo. In un punto della sua lettera scrive: «Per chi non crede in Dio la questione: [del bene e del male] sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa infatti decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene e male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire ».

Un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro. Neppure papa Giovanni era arrivato a tanto e neppure le conclusioni del Vaticano II, che avevano auspicato l’inizio del percorso ai pontefici che sarebbero venuti dopo e ai Sinodi che avrebbero convocato.

Papa Francesco quel passo l’ha fatto ed io lo sento profondamente echeggiare nella mia coscienza. Ricordo con grande affetto che visione analoga l’ho ascoltata nei miei colloqui con il cardinale Carlo Maria Martini, che non a caso era amico del cardinale Bergoglio. Ma Martini non era un Papa quando diceva queste cose, Bergoglio ora lo è.

C’è un altro aspetto assai importante - questo sì - politico, quando il Papa scrive della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica («Date a Cesare»): «Alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza».

La visione dell’autonomia della politica mi sembra che sfugga al Papa, ed è comprensibile che sia così. Uno come lui non può concepire la politica che nel quadro di un servizio ai cittadini. Questa opinione è perfettamente condivisibile ma non può escludere l’egemonia. In un regime di libertà e di democrazia convivono diverse visioni del bene comune, che si confrontano e si scontrano tra loro. Chi ottiene la maggioranza dei consensi e quindi l’egemonia, cerca di realizzare la sua visione del bene comune. Resta o dovrebbe restare un servizio, che passa però attraverso la conquista del potere. Questo, papa Francesco lo sa, e la Chiesa cattolica infatti l’ha sperimentato facendo del potere temporale uno dei cardini della sua storia.

Se vogliamo riandare ad uno dei più importanti esempi, ricordiamo la lotta per le investiture culminata nello scontro tra Ildebrando da Soana Gregorio VII e Enrico imperatore di Germania, colpito dalla scomunica e costretto ad inginocchiarsi vestito da mendicante ai piedi del Papa nel castello di Canossa. Raccontano le storie che quando Enrico dovette baciare il piede del Papa in segno di sottomissione, abbia detto: «Non tibi sed Petro» e Gregorio gli abbia risposto: «Et mihi et Petro».

Poi vennero le Crociate e tutta la storia della Chiesa come istituzione di potere e di guerra. Così durò fino al 1870, ma anche dopo la temporalità cattolica è continuata sotto altre forme che specialmente in Italia, ma non soltanto, ben conosciamo. La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c’è sempre stata e Francesco d’Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale. Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro.

La lettera del Papa è comunque chiarissima, risponde alle domande che mi ero permesso di porre e su certe questioni va anche molto più in là. Sicché non la commenterò più oltre, salvo due ultimi aspetti.

Il tema degli ebrei, del loro esser considerati dai cattolici come fratelli maggiori, la fine dell’accusa di «deicidio» che i cristiani hanno sempre lanciato contro di loro, ed infine la comune discendenza dal Dio mosaico del Sinai e dei dieci comandamenti, era già stato sollevato da papa Giovanni e da papa Wojtyla, ma non con la chiarezza definitiva di papa Francesco. È un passo molto importante che segna finalmente un capovolgimento nell’atteggiamento durato quasi due millenni. Infine c’è il racconto che il Papa fa del suo incontro con la fede. Rileggiamo quel brano.

«La fede per me è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato possibile nella comunità di fede in cui ho vissuto e grazie alla quale ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, vera immagine del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono della fede è custodito nei vasi d’argilla della nostra umanità».

Un racconto splendido, un’autobiografia affascinante. Ci si sente sotto, per quanto posso intuire, più Bernardo, più Agostino, più Benedetto che Tommaso e la Scolastica, che tuttavia è ancora assai presente nella dottrina tradizionale. Chi come me non solo non ha la fede ma neppure la cerca; chi come me sente il fascino della predicazione di Gesù e lo ritiene uomo e figlio dell’uomo, non può che ammirare un successore di Pietro che rivendica la Chiesa come luogo eletto affinché il sentimento di umanità custodito in vasi d’argilla non venga distrutto dai vasi di piombo che fuori e dentro la Chiesa spezzano i vasi d’argilla.

Il Papa mi fa l’onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch’io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre anche se so che quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista.

Perciò lunga vita e affettuosa fraternità con Francesco, Vescovo di Roma e capo d’una Chiesa che lotta anch’essa tra il bene e il male.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 13/9/2013 14.01
Titolo:DOMANDA ANTROPOLOGICA E IMPERATIVO CATEGORICO ....
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino

di Vito Mancuso (la Repubblica, 13 settembre 2013)

Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.

Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti).

Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.

Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti.

È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.

“Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore.

La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4).

Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio.

Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.

Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi.

Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico.

Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.

Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva.

Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti.

Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.