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LA LEZIONE DI VICO  E I FILOSOFI ITALIANI: IL CASO COLLETTI. Una nota per (ri)leggere la "Scienza Nuova" ,di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: March 11 2013 15:21:38.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 10/3/2013 22.19
Titolo:SOCIOBIOLOGIA E FILOSOFIA. La boria di Edward O Wilson ...
SOCIOBIOLOGIA E FILOSOFIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica - contro la cecità e la boria dei dotti ...
- Il sociobiologo Wilson ’riscopre’ Vico e non lo sa (e rischia di consegnare i risultati della sua ricerca tra le braccia dei vari sociologismi e biologismi variamente diffusi) (Federico La Sala)
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Come l’umanità è arrivata a essere quello che è? Ecco il contributo delle scienze per comprendere uno sviluppo troppo spesso lasciato al sapere umanistico

La storia siamo noi. Perché cooperare fa bene alla specie

di Edward O. Wilson (la Repubblica, 02.03.2013)

Uno dei più importanti biologi contemporanei. Professore emerito a Harvard, è un esperto di insetti ed è considerato il fondatore della sociobiologia. È appena uscito in Italia il suo libro La conquista sociale della terra, Raffaello Cortina, pagg. 356, euro 26

Comprendere l’umanità è un compito troppo importante e gravoso per lasciarlo alle scienze umanistiche. Le molte discipline di questa grande corrente del sapere, dalla filosofia al diritto, alla storia e alle arti creative, hanno descritto le particolarità della natura umana con genialità e straordinaria minuziosità, avanti e indietro in trasmutazioni infinite.

Ma non hanno spiegato perché abbiamo questa natura qui e non qualcun’altra fra una quantità sterminata di possibilità immaginabili. Sotto questo profilo, le scienze umanistiche non consentono una comprensione piena dell’esistenza della nostra specie.

Dunque, che cosa siamo noi? La risposta a questo grande enigma sta nelle circostanze e nel processo che hanno dato vita alla nostra specie. La condizione umana è un prodotto della storia, e non parlo non soltanto dei seimila anni di civilizzazione, ma di un arco molto più ampio, che risale a centinaia di migliaia di anni addietro.

Per dare una risposta a questo mistero bisogna esplorare l’evoluzione nel suo insieme, come un tutto unico e inscindibile, tanto negli aspetti biologici quanto in quelli culturali. E in questo modo la storia umana, vista in tutte le sue sfaccettature, diventa a sua volta la chiave per capire come e perché la nostra specie è sopravvissuta.

Una maggioranza di persone preferisce interpretare la storia come il dispiegarsi di un disegno soprannaturale, al cui autore è dovuta ubbidienza. Ma questa interpretazione rassicurante diventa sempre meno sostenibile man mano che si espande la conoscenza del mondo reale. In particolare, la conoscenza scientifica (misurata in base al numero di scienziati e riviste scientifiche) da oltre un secolo raddoppia di dimensioni a intervalli di dieci vent’anni.

Nelle spiegazioni tradizionali del passato, le storie religiose sulla creazione si mescolavano alle discipline umanistiche per attribuire significato all’esistenza della nostra specie. È tempo di ragionare su quello che possono offrirsi reciprocamente il campo scientifico e quello umanistico, nella ricerca comune di una risposta più fondata e convincente al grande enigma.

Per cominciare, i biologi hanno scoperto che l’origine biologica del comportamento sociale avanzato negli esseri umani è simile a quella riscontrata in altre parti del regno animale. Usando studi comparati condotti su migliaia di specie animali, dagli insetti ai mammiferi, sono giunti alla conclusione che le società più complesse sono emerse attraverso l’eusocialità (la «vera» condizione sociale, parlando in senso generale). I membri di un gruppo eusociale allevano collettivamente le giovani generazioni. Inoltre, applicano un sistema di divisione del lavoro tramite la rinuncia - quantomeno parziale - alla riproduzione personale da parte di alcuni membri, allo scopo di incrementare il «successo riproduttivo» (riproduzione nel corso della vita) di altri membri.

L’eusocialità è un fenomeno particolare sotto due punti di vista. Innanzitutto va rimarcata la sua estrema rarità: su centinaia di migliaia di linee evolutive di specie animali terrestri nel corso degli ultimi 400 milioni di anni, si è venuto a creare un sistema del genere, per quello che siamo in grado di appurare, solo in due dozzine di casi.

A questo aggiungiamo che le specie eusociali conosciute si sono affermate molto tardi, nella storia della vita sulla Terra. Una volta diventato prassi, il comportamento sociale avanzato di livello eusociale si è rivelato uno straordinario successo ecologico. Soltanto due fra le due dozzine di linee evolutive indipendenti, cioè le formiche e le termiti, bastano a dominare il mondo degli invertebrati terrestri. Nonostante contino meno di ventimila specie (sul milione di specie di insetti viventi conosciuti), formiche e termiti rappresentano della metà del peso corporeo complessivo di tutti gli insetti del pianeta.

La storia dell’eusocialità solleva un interrogativo: dato l’enorme vantaggio che assicura, perché questa forma avanzata di comportamento sociale è così rara ed è comparsa così tardi? La risposta sembra data dalla sequenza specifica di cambiamenti evolutivi preliminari propedeutici al passaggio finale all’eusocialità.

In tutte le specie eusociali analizzate fino a oggi, il passaggio finale è la costruzione di un nido protetto, da cui partono le spedizioni di foraggiamento e dove gli individui giovani vengono allevati fino al raggiungimento della maturità. A costruire originariamente il nido può essere una femmina solitaria, una coppia di individui o un gruppo piccolo e scarsamente organizzato. Una volta realizzato questo passaggio preliminare, per creare una colonia eusociale è sufficiente che i genitori e la prole rimangano nel nido e collaborino all’allevamento di altre generazioni di giovani. Questi assemblaggi primitivi poi si suddividono facilmente in «foraggeri», inclini al rischio, e in genitori e nutrici, avversi al rischio.

Che cos’è che ha consentito a un’unica linea evolutiva di primati di raggiungere il livello raro dell’eusocialità? Le circostanze sono state banali, stando alle scoperte dei paleontologi. In Africa, circa due milioni di anni fa, una specie del genere australopiteco, prevalentemente vegetariano, modificò la sua alimentazione incrementando il consumo di carne. Per procurarsi questa fonte di cibo altamente energetica e dispersa sul territorio, non era molto conveniente andarsene in giro in branchi poco organizzati di individui adulti e giovani. Era più efficiente occupare un accampamento (il nido, appunto) e da lì spedire in giro cacciatori in grado di riportare indietro (uccidendola o raccogliendola) carne da dividere con gli altri. In cambio, i cacciatori ricevevano la protezione dell’accampamento, dove la loro prole veniva tenuta al sicuro insieme agli altri.

Da studi condotti su esseri umani moderni, incluse popolazioni di cacciatori-raccoglitori, la cui vita ci dice molto sulle origini della razza umana, gli psicologi sociali hanno dedotto la crescita mentale innescata dalla caccia e dagli accampamenti. Le relazioni personali fra i membri del gruppo, calibrate al tempo stesso sulla competizione e la collaborazione, hanno acquisito un ruolo predominante. Il processo è stato incessantemente dinamico e difficoltoso, superando largamente in intensità qualunque esperienza analoga dei branchi itineranti e scarsamente organizzati prevalenti nella maggior parte delle società animali.

Serviva una memoria efficiente per valutare le intenzioni degli altri membri del gruppo, prevedere le loro reazioni di volta in volta: e il risultato è stato la capacità di inventare e simulare internamente scenari conflittuali di interazioni future.

L’intelligenza sociale dei preumani ancorati all’accampamento si è evoluta come una sorta di partita a scacchi senza fine. Oggi, al capolinea di questo processo evolutivo, siamo in grado di attivare con scioltezza i nostri banchi di memoria su passato, presente e futuro. Questi banchi di memoria ci consentono valutare le prospettive e le conseguenze di alleanze, legami, contatti sessuali, rivalità, rapporti di predominio, raggiri, fedeltà e tradimenti. Traiamo un piacere istintivo dal racconto di innumerevoli storie sugli altri in quanto attori nel nostro palcoscenico interno. Tutto questo trova espressione nelle arti creative, nella teoria politica e in altre attività di alto livello che definiamo come scienze umanistiche.

Gli aspetti principali dell’origine biologica della nostra specie cominciano a essere messi a fuoco, e con essi le possibilità di un contatto più fruttuoso fra discipline scientifiche e umanistiche. La convergenza fra queste due grandi branche del sapere assumerà un’importanza enorme quando un numero sufficiente di persone ci avrà ragionato su.

Dal versante scientifico, le neuroscienze, la biologia evolutiva e la paleontologia verranno viste in un’ottica differente. Agli studenti verrà insegnata anche la preistoria oltre che la storia convenzionale, il tutto presentato come la più grande epopea del mondo vivente. E sono convinto che guarderemo con maggior serietà anche al nostro posto nella natura. Perché ci siamo esaltati, siamo assurti al ruolo di mente della biosfera, con lo spirito capace di sgomento e balzi di immaginazione sempre più sbalorditivi. Ma continuiamo a essere parte della fauna e flora terrestri: vi siamo legati dall’emozione, dalla psicologia e, non ultimo, da una storia radicata.

È pericoloso pensare a questo pianeta come a una stazione intermedia verso un mondo migliore, o continuare a convertirlo in un’astronave programmata dall’uomo.

Contrariamente all’opinione generale, non ci sono demoni e dei che si contendono la nostra devozione. Siamo frutto del nostro operato, siamo indipendenti, soli e fragili. Capire noi stessi è la chiave per sopravvivere nel lungo periodo, per gli individui e per le specie.

(Traduzione di Fabio Galimberti) © The New York Times

* Il Dialogo, Sabato 02 Marzo,2013
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/3/2013 10.52
Titolo:RESPONSABILITA'. Responsabili sì. Ma verso chi?
Responsabili sì. Ma verso chi?

Un valore che vuol dire «risposta a una sola voce» Se si inseguono più interlocutori perde significato

di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 10.03.2013)

«Raccomando misura, realismo e senso della responsabilità». In questi termini, il presidente Napolitano ha invitato tutte le forze politiche a lavorare per il superamento della crisi politica in corso. Ma il riferimento alla responsabilità è comparso nei discorsi di quasi tutti i leader politici nel corso di queste ultime settimane.

Usata per lo più senza aggettivi, e senza ulteriori precisazioni, adoperata quasi come una parola magica, in grado di risolvere d’incanto difficoltà altrimenti insormontabili, la responsabilità viene invocata per legittimare scelte e comportamenti, altrimenti imbarazzanti o comunque difficili da giustificare.

Ma è davvero così trasparente il significato di questo termine? Si può veramente ritenere di sapere che cosa si dice, quando si chiede o si afferma di agire in nome della responsabilità?

Nelle lingue moderne - in italiano, francese, spagnolo, inglese - la connessione fra il termine che designa la responsabilità e la radice latina respondeo è evidente. Di qui il fatto che, in qualunque contesto compaia, responsabilità vuol dire sempre e comunque rispondere.

Pur mancando una diretta derivazione dal latino, in tedesco la parola impiegata per indicare la responsabilità è perfino più significativa dei corrispondenti termini delle lingue romanze. In quanto contiene in sé un immediato riferimento alla parola che indica la risposta - Antwortung, appunto - il termine Verantwortung si forma proprio mediante rafforzamento del carattere di «risposta» che è insito nella «responsabilità».

Di qui una prima e fondamentale conseguenza. La responsabilità non può indicare una condizione originaria, ab-soluta, indipendente, ma coincide piuttosto con una relazione, segnala un rapporto, che presuppone qualcosa ad esso precedente e dal quale esso è in una certa misura determinato. Più in particolare, in quanto parola di risposta, la responsabilità presuppone una voce che chiama, alla quale si fornisce una risposta, ovvero alla quale ci si rifiuta di rispondere. Non è concepibile alcuna responsabilità, se non come risposta a una chiamata.

Emerge qui un primo aspetto fortemente problematico, se non addirittura paradossale, connesso al termine di cui ci stiamo occupando. Se l’elemento fondante e intimamente caratterizzante della responsabilità è il rispondere, e se pertanto essa rinvia necessariamente all’ascolto di una voce che chiama, è evidente che il rispondere non può essere univoco, ma al contrario esso non può che essere almeno ambivalente. Per rispondere alla chiamata di qualcuno, per ciò stesso è necessario che non risponda alla chiamata di altri.

O la voce a cui rispondo è la stessa voce che mi chiama, sia pure in altri modi e altre forme, ovvero, se si tratta di voci che sono effettivamente diverse e discordanti, la mia risposta a una di esse esclude che io risponda anche ad altre. Se ricondotta al suo fondamento di parola-di-risposta, la responsabilità è intrinsecamente connessa - e indissolubile - rispetto alla irresponsabilità. Si esprima come ascolto (ob-audire), o come risposta, come obbedienza, dunque, o come responsabilità, l’atteggiamento nei confronti di una voce che chiama si manifesta dunque in forma costitutivamente ambivalente.

Questo significato originario e decisivo del termine responsabilità è efficacemente sottolineato da Jacques Derrida nella «grammatica della risposta», da lui delineata in un saggio che risale al 1981. Osservando che la modalità originaria della responsabilità è quella del «rispondere a», in rapporto alla quale si determinano il «rispondere di» e il «rispondere davanti a», il filosofo francese sottolinea che proprio l’anteriorità e il primato del «rispondere a» rispetto agli altri pone il riferimento all’altro - inteso come totalmente altro - come riferimento fondamentale. Ogni responsabilità si annuncia e obbliga a partire da questa anteriorità asimmetrica. Una responsabilità che è dunque anzitutto risposta all’appello dell’altro, e che, prima ancora di ogni autonomo dire, non può che corrispondere alla parola dell’altro.

Come già aveva sottolineato Søren Kierkegaard in Timore e tremore, il riferimento alla richiesta rivolta ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, descritta nel Genesi, consente di far emergere pienamente il groviglio di motivi teorici e pratici che si addensano intorno alla nozione di responsabilità. Ciò che si pone è una contraddizione insolubile, e perciò paradossale, fra la responsabilità in generale e la responsabilità assoluta. Abramo, infatti, dimostra che l’assoluto del dovere e della responsabilità presuppone che ogni dovere, ogni responsabilità e ogni legge umana vengano denunciati, ricusati, trascesi. Abramo è al contempo il più morale e il più immorale, il più responsabile e il più irresponsabile degli uomini - assolutamente irresponsabile perché assolutamente responsabile.

Assolutamente irresponsabile davanti agli uomini e ai suoi, davanti all’etica, perché risponde assolutamente al dovere assoluto, senza interesse né speranza di ricompensa, senza sapere perché e in segreto. Non riconosce alcun debito, alcun dovere davanti agli uomini perché è in rapporto con Dio.

Dal riferimento all’emblematica vicenda di Abramo, Derrida fa scaturire una conseguenza fondamentale: il segreto della responsabilità consiste nell’ospitare in sé un nocciolo di irresponsabilità. Fra la responsabilità assoluta, che pone di fronte due singolarità irriducibili, e la responsabilità generale, la quale implica invece l’urgenza di un calcolo che universalizzando ricerchi l’equilibrio e fondi l’equità - vi è uno scarto che resta incolmabile.

Per ritornare alle recenti vicende di casa nostra, si può allora dire che coloro che indicano quale motivazione della loro condotta il «senso della responsabilità», senza ulteriori precisazioni, in realtà implicitamente annunciano la loro intenzione di rispondere a una voce, con ciò stesso scegliendo di non rispondere a tutte le altre.

Per esemplificare: di rispondere alla voce dell’interesse del Paese, non obbedendo alla voce dei propri interessi, personali o di partito, oppure tutto al contrario. Ciò che emerge, insomma, è la genuina drammaticità di un conflitto fra istanze diverse e non ricomponibili, fra voci che chiamano in direzioni differenti, alle quali è possibile rispondere solo attraverso una decisione che valorizza soltanto una di esse, lasciando inevitabilmente senza risposta tutte le altre.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/3/2013 15.21
Titolo:LA BORIA DI WILSON, HEGEL, E LA BORIA DEL "NUOVO REALISMO"
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO) DI HEGEL!!!

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Il nuovo saggio di Wilson sull’eusocialità

Siamo uomini o formiche?

di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 11.03.2013) *

Leibniz ha scritto che l’asino va dritto al fieno senza aver letto una riga di Euclide. Analogamente, il dittatore che per mettere a tacere il dissenso interno dichiara guerra al paese vicino non ha verosimilmente letto il libro curato da Telmo Pievani e tradotto da Cortina, La conquista sociale della terra dell’entomologo di Harvard Edward O. Wilson, ma applica con istinto sicuro (è il caso di dirlo) la teoria della selezione naturale multipla che questi ha proposto nel 2010 con Martin Nowak e Corina Tarnita.

Contrariamente alla teoria del “gene egoista” resa celebre da Richard Dawkins, e d’accordo piuttosto con il proverbio “parenti serpenti”, la socialità umana non evolve in gruppi che condividono i geni e si aiutano a vicenda, ma si articola su un duplice livello. Uno, più alto, è la competizione tra gruppi, e uno, più basso, è la competizione (e non la cooperazione, come vuole Dawkins, e come voleva in precedenza lo stesso Wilson insieme alla maggioranza della comunità scientifica) tra individui all’interno dello stesso gruppo. Nel momento in cui si identifica il nemico (di razza, di classe) il gruppo si ricompatta e mette a tacere gli egoismi individuali, che torneranno a scatenarsi appena passato il pericolo.

Nell’elaborare questa teoria, Wilson mette a frutto le indagini che l’hanno reso celebre, quelle legate al concetto di “superorganismo” presentate in un monumentale volume scritto con Bert Hölldobler e tradotto da Adelphi due anni fa.

Contrariamente al cliché dell’evoluzionismo come esaltazione della lotta di tutti contro tutti, l’idea di fondo è che un livello di “eusocialità”, ossia di stretta collaborazione tra individui nel gruppo, con divisione del lavoro e intere caste che si sacrificano per la comunità, è un vantaggio decisivo per l’evoluzione.

È per questo che le formiche hanno iniziato il cammino dell’evoluzione milioni di anni prima che qualcosa di remotamente simile avvenisse agli ominidi. Tuttavia, nel caso delle formiche, lo sviluppo ha comportato, un solo livello di articolazione, quello sociale. È la comunità nel suo insieme che agisce come un singolo organismo, e acquisisce una potenza che esisteva molto prima di noi e con ogni probabilità esisterà molto dopo che si sarà persa ogni traccia dell’umanità.

Per gli uomini (e per la sterminata filiera di primati che li precede), che partivano da prerequisiti diversi, e in particolare il fatto banale ma decisivo di essere molto più grandi delle formiche, le cose sono andate diversamente. Il corpo più grande ha permesso lo sviluppo di un cervello più complesso, e il cervello ha reso possibili livelli di eusocialità sofisticati, la creazione del linguaggio, degli ornamenti, della religione, e ovviamente della scienza.

Purtroppo ha anche generato l’intima conflittualità che ci caratterizza come esseri umani. Le formiche sanno sempre qual è la cosa giusta da fare, noi invece siamo in lotta non solo con gli altri, ma con noi stessi. Anzitutto, viviamo il conflitto tra egoismo e altruismo, tra il vantaggio dell’individuo e quello del gruppo, tra interesse e sacrificio.

Come se non bastasse, a complicarci la vita rispetto alle formiche, interviene il conflitto tra la parte primitiva e istintiva del cervello, l’amigdala, e la corteccia capace di simboli, coscienza e ragionamenti. Insomma, se il superorganismo tutto d’un pezzo di un formicaio è perfettamente armonioso, noi viviamo un conflitto tra la nostra natura e quello che Aristotele chiamava “seconda natura”. È questo che ci rende pensosi, spirituali, tormentati. Ma il punto essenziale, e filosoficamente decisivo, è che per quanto potente e determinante possa diventare la seconda natura, rivela pienamente la propria provenienza dalla prima.

Anni fa, quando il solo parlare di “natura umana” appariva come il segno di un inaccettabile scientismo, visto che l’uomo era concepito come il frutto esclusivo di una storia e di un linguaggio venuti fuori dal nulla, il libro di Wilson sarebbe stato classificato come antifilosofico.

Ma è vero il contrario: è un libro speculativo ed hegeliano. Perché esattamente come per Hegel, lo spirito - concepito anzitutto come lacerazione - è frutto della natura, e i gradi inferiori si conservano e si superano nei gradi superiori. La cultura è costitutivamente il prolungamento della natura, non c’è indipendenza né salto (né ovviamente infusione soprannaturale). È nel fondo della natura che ha inizio la fenomenologia dello spirito, che non perde nulla del suo interesse e della sua dignità, ma anzi riceve la sua vera luce, dallo spiegare l’uomo attraverso le formiche.

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- Oggi presenta a Harvard il Manifesto del nuovo realismo (Boylston Hall 403, ore 17). -L’incontro, organizzato da Francesco Erspamer per le attività della Lauro de Bosis Lectureship in the History of Italian Civilization, avviene in concomitanza con la nuova edizione de Il mondo esterno (Bompiani) La conquista sociale della terra di E. Wilson (Cortina a cura di T. Pievani, pagg. 356, euro 26)