I commenti all'articolo:
SPEGNERE IL "LUMEN GENTIUM" E INSTAURARE IL POTERE DEL "DOMINUS IESUS". Il disegno di Ratzinger - Benedetto XVI. Due testi a confronto, con alcune note - di Federico La Sala,

Ultimo aggiornamento: March 06 2013 10:31:54.

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 30/8/2012 18.37
Titolo:"Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
Fuori dal gregge

di Antonio Thellung (mosaico di pace, luglio 2012)

L’obbedienza non è più una virtù, diceva don Milani, esortando a coltivare la presa di coscienza. Non per contrapporsi all’autorità, ma per educare ciascuno ad assumere le proprie responsabilità, senza pretendere di scaricarle su altri. L’obbedienza, infatti, può anche dirsi una virtù, ma soltanto se si mantiene entro limiti equilibrati, da valutare appunto con coscienza. Perché l’obbedienza cieca è il tipico strumento utilizzato dalle strutture autoritarie gerarchico-imperialistiche per esercitare il potere, offrendo in cambio ai sudditi lo scarico della responsabilità personale. Tipico esempio si è avuto nel dopoguerra quando pareva che nessuno dei feroci gerarchi nazisti fosse colpevole, perché sostenevano tutti di aver semplicemente obbedito a ordini superiori.

Il Vangelo è chiarissimo: "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?", ma la cristianità che si è affermata nella storia ha preferito mutuare dall’Impero Romano un’impostazione imperialistica che si mantiene presente tuttora, sia pure adattata ai tempi odierni. Un’impostazione che riduce i fedeli a "docile gregge", come li definiva a suo tempo Pio X. Il Vangelo, inoltre, esorta anche a non chiamare nessuno padre sulla terra, un lampante invito a non cadere nelle tentazioni del paternalismo, che svaluta la dignità delle persone. Ma l’uso di chiamare "padre" i ministri del culto la dice lunga. Nello stesso brano, poi, Gesù in persona ammonisce i suoi apostoli a non farsi chiamare maestri perché solo Cristo è il maestro, ma sorprendentemente su taluni documenti ecclesiastici anche dei tempi presenti, come ad esempio il Documento di Base del 1970, si legge nientemeno che: "Per disposizione di Cristo, gli Apostoli affidarono ai loro successori, i Vescovi, il proprio ufficio di Maestri". Incredibile!

Si potrebbe dire che il magistero ha sempre richiesto ai fedeli un’obbedienza cieca, e non pochi tra coloro che hanno cercato di opporsi hanno pagato talvolta perfino con la vita. San Francesco, nella sua prima regola, aveva provato a scrivere che un frate non è tenuto a obbedire al superiore se questi gli ordina qualcosa di contrario alla sua coscienza, ma naturalmente papa Innocenzo III si è guardato bene dall’approvarla. In tempi più recenti, nel 1832, Gregorio XVI definiva un delirio la libertà di coscienza e nel 1954 Pio XII scriveva: "È giusto che la Chiesa respinga la tendenza di molti cattolici a essere considerati ormai adulti". Non è stupefacente?

Chi esercita il potere, di qualsiasi tipo, vorrebbe dai sudditi una delega in bianco, perché teme le coscienze adulte, che sono difficilmente governabili per il loro coraggio di esprimere dissenso, quand’è il caso. E tanto più il potere è prepotente e prevaricante, tanto più esige un’obbedienza cieca. Il magistero ecclesiastico ha sempre mostrata una grande avversione al dissenso, trattandolo come un nemico da combattere perfino con metodi violenti, nel caso, senza capire che proprio il dissenso è il miglior amico degli insegnamenti di Cristo, perché agisce come sentinella delle coscienze.

Il dissenso, nella Chiesa, c’è sempre stato, con buona pace di coloro che nelle varie epoche storiche hanno preteso di soffocarlo usando talvolta armi che sono incompatibili con l’insegnamento di Gesù. Sarebbe ora che l’autorità prendesse atto che il dissenso non è un nemico ma, anzi, un grande amico, anche se può rendere più complesso e faticoso il cammino. Il Concilio Vaticano II mostrava di averlo capito quando scriveva, nella Gaudium et Spes: "La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano". Ma ben presto, poi, sono prevalsi nuovamente gli atteggiamenti di repressione e condanna verso chi tenta coraggiosamente di alzare la testa. essere credibili

Personalmente non dubito che un magistero ecclesiastico sia necessario e prezioso, ma di quale tipo? Qualsiasi coscienza adulta sa che di fronte a disaccordi e perplessità non avrebbe alcun senso rifiutare l’autorità o ribellarsi tout court: non sarebbe costruttivo. Ma sente però il dovere, prima ancora che il diritto, di chiedergli maggiore credibilità, di esigere che sappia proporre senza imporre, con rispettoso ascolto delle opinioni altrui. Gli ascoltatori di Gesù "rimanevano colpiti dal suo insegnamento", perché "parlava con autorità", e non perché aveva cariche istituzionali. Così il magistero può sperare di essere creduto, dalle coscienze adulte, quando offre messaggi autorevoli e convincenti, e non per il solo fatto di essere l’autorità costituita. Oggi la credibilità dei vertici ecclesiastici, con tutti gli scandali di questi tempi, è fortemente minata, e si potrebbe dire che solo facendo leva surrettiziamente sulla grande fede in Gesù Cristo che continua a sostenere tante persone (malgrado tutto) evita di porsi in caduta libera. Ma fino a quando, se permane la pretesa di continuare a proporsi come magistero di un "docile gregge?".

La parabola della zizzania insegna che la Chiesa è comunione di consensi e dissensi, perciò, per recuperare credibilità, le autorità dovrebbero finalmente prenderne atto e imparare a dialogare con tutti alla pari, e in particolare proprio con il dissenso. Dovrebbero educarsi ed educare ad accoglierlo con l’attenzione che merita. Perché un dissenso respinto e represso a priori diventa facilmente aspro, arrabbiato, distruttivo mentre, se accolto con benevolenza, può diventare costruttivo, benevolo, e perfino affettuoso.

Una buona educazione al dissenso potrebbe diventare la miglior scuola alla formazione di coscienze adulte, capaci di confrontarsi senza acquiescenze o confusioni e censure. Capaci, cioè, di non farsi travolgere da vergognosi intrallazzi di qualsiasi tipo.

Personalmente, cerco, nel mio piccolo, di fare quel che posso. Qualche anno fa l’editrice la meridiana ha pubblicato un mio libro dal titolo "Elogio del dissenso", e per ottobre prossimo ha in programma di pubblicare un mio nuovo saggio dal titolo "I due cristianesimi", scritto per sottolineare le differenze tra il messaggio originale di Cristo e l’imperialismo cristiano, non solo come si è affermato nella storia, ma anche come si manifesta al presente. L’interrogativo è focalizzato sulla speranza nel futuro, mentre le critiche a quanto è stato ed è contrabbandato in nome di Cristo servono solo per capire meglio come si potrebbe uscir fuori dalle tante macrocontraddizioni.

La speranza è irrinunciabilmente legata a una Chiesa delle coscienze adulte, perciò sogno un magistero impegnato a farle crescere senza sottoporle a pressioni psicologiche; un magistero capace d’insegnare a distinguere il bene dal male senza imporre valutazioni precostituite; lieto di aiutare ognuno a diventare adulto e autonomo senza costringerlo a sottomettersi; volto a stimolare una sempre maggiore consapevolezza rinunciando a imposizioni precostituite. Un magistero che affermi i suoi principi senza pretendere di stigmatizzare le opinioni diverse; che proponga la propria verità senza disprezzare le verità altrui. In altre parole, sogno una Chiesa dove sia possibile ricercare, discutere, confrontarsi, camminare assieme.

Sogno un magistero che affermi il patrimonio positivo della fede, libero dalla preoccupazione di puntualizzare il negativo; che sappia offrire gratuitamente l’acqua della vita, senza voler giudicare chi beve; che proponga la verità di Cristo, esortando a non accettarla supinamente; che tracci la strada, ammonendo a non seguirla passivamente; che offra strumenti per imparare a scegliere, a non essere acquiescenti, a non accontentarsi di un cristianesimo mediocre e tiepido. Un Magistero che preferisca circondarsi da persone esigenti, irrequiete, contestatrici, piuttosto che passive, pavide, addormentate. Esso per primo ne trarrebbe grandi benefici: sarebbe il magistero di un popolo adulto, maturo, responsabile.

Etimologicamente la parola obbedienza significa ascolto, e sarebbe ora di educarci tutti a questo tipo di obbedienza reciproca: i fedeli verso l’autorità, ma anche l’autorità verso chiunque appartenga al Popolo di Dio, non importa con quale ruolo. Solo questa obbedienza è autentica virtù. Chissà se San Paolo, quando esortava a sperare contro ogni speranza, si riferiva anche alle utopie!
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 31/8/2012 09.58
Titolo:L’inquisizione di oggi e le religiose nordamericane
L’inquisizione di oggi e le religiose nordamericane

di Ivone Gebara, suora, scrittrice, filosofa e teologa brasiliana

in “www.paves-reseau.be” del 25 aprile 2012 (traduzione dal francese: www.finesettimana.org)

Una volta ancora assistiamo stupite alla “valutazione dottrinale” o piuttosto al sedicente appello alla sorveglianza o alla punizione condotta dalla Congregazione della Dottrina della fede nei confronti di chi, a suo avviso, si discosta dall’osservanza della dottrina cattolica corretta. Unica differenza: oggi, non è su una persona che puntano il dito accusatore, ma su un’istituzione che riunisce e rappresenta più di 55000 religiose nordamericane. Si tratta della Conferenza nazionale delle Religiose, conosciuta sotto la sigla LRWC - Conferenza della Direzione religiosa femminile. In tutta la loro storia, queste religiose hanno sviluppato - e sviluppano ancora - una vasta missione educativa a favore della dignità di molte persone e di molti gruppi negli Stati Uniti e oltre.

La maggioranza di queste donne appartiene a diverse congregazioni nazionali e internazionali; oltre alla loro formazione umanista cristiana, sono delle intellettuali e delle professioniste impegnate negli ambiti più diversi della conoscenza. Sono scrittrici, filosofe, biologhe, sociologhe, avvocate, teologhe e possiedono un vasto curriculum e una competenza riconosciuta a livello nazionale e internazionale. Sono anche educatrici, catechiste e militanti per i diritti umani. In molteplici circostanze sono state capaci di mettere a rischio la propria vita a favore delle vittime dell’ingiustizia o di opporsi a comportamenti gravi assunti dal governo nordamericano.

Ho l’onore di conoscerne alcune che sono state imprigionate perché si erano messe in prima fila in una manifestazione per la chiusura della Ecole des Amériques, istituzione del governo nordamericano che prepara i militari in vista di interventi repressivi e crudeli nei nostri paesi. Queste religiose sono donne di pensiero e d’azione, hanno una lunga storia di servizio non solo nei loro paesi ma anche in altri. Oggi sono sotto il sospetto e la sorveglianza del Vaticano. Sono criticate per le loro divergenze con i vescovi considerati come “gli autentici maestri della fede e della morale”.

Inoltre sono accusate di essere sostenitrici di un femminismo radicale, di deviazioni rispetto alla dottrina cattolica romana, di complicità con l’approvazione delle unioni omosessuali e di altre accuse che ci stupiscono per il loro anacronismo. Che cosa sarebbe un femminismo radicale? Quali sarebbero le sue manifestazioni reali nella vita delle congregazioni religiose femminili? Quali devianze teologiche vivrebbero queste religiose? Noi donne saremmo spiate e punite per la nostra incapacità ad essere fedeli a noi stesse e alla tradizione del vangelo attraverso la sottomissione cieca ad un ordine gerarchico maschile? I responsabili delle Congregazioni vaticane sarebbero estranei alla grande rivoluzione mondiale femminista che raggiunge tutti i continenti, comprese le congregazioni religiose?

Molte religiose negli Stati Uniti e in altri paesi sono, di fatto, eredi, maestre e discepole di una delle più interessanti espressioni del femminismo mondiale, soprattutto del femminismo teologico che si è sviluppato negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’60. Le loro idee originali, le loro critiche, le loro posizioni libertarie permetteranno una nuova lettura teologica che, a sua volta, può accompagnare i movimenti di emancipazione delle donne. Di modo che esse potranno contribuire a ripensare la nostra tradizione religiosa cristiana al di là della “invisibilizzazione” e dell’oppressione delle donne. Creeranno anche spazi alternativi di formazione, testi teologici, testi di celebrazione affinché la tradizione del Movimento di Gesù continui a nutrire il nostro presente e non sia abbandonata da migliaia di persone affaticate dal peso delle norme e delle strutture religiose patriarcali.

Quale atteggiamento adottare davanti alla violenza simbolica degli organismi di governo e di amministrazione della Chiesa cattolica romana? Che cosa pensare del riferimento filosofico rigido che assimila il meglio dell’essere umano alla sua parte maschile? Che dire della visione antropologica filosofica unilaterale e misogina a partire dalla quale interpretano la tradizione di Gesù?

Che cosa pensare di questo trattamento amministrativo-punitivo a partire dal quale si nomina un arcivescovo per rivedere, orientare e approvare le decisioni prese dalla Conferenza delle Religiose, come se noi fossimo incapaci di discernimento e di lucidità. Saremmo per caso una multinazionale capitalistica nella quale i nostri “prodotti” dovrebbero obbedire ai diktat di una linea di produzione unica? E per mantenerla, dovremmo essere controllate come degli automi da coloro che si considerano i proprietari e i guardiani dell’istituzione? Dove vanno a finire la libertà, la carità, la creatività storica, l’amore ’sororale’ e fraterno?

Nel momento in cui l’indignazione si fa strada in noi, un sentimento di fedeltà alla nostra dignità di donne e al Vangelo annunciato ai poveri e agli emarginati ci invita a reagire a questo ulteriore atto di ripugnante ingiustizia.

Non è da oggi che i prelati e i funzionari della Chiesa agiscono con due pesi e due misure. Da un lato, gli organismi superiori della Chiesa cattolica romana sono stati capaci di accogliere di nuovo al loro interno i gruppi di estrema destra, la cui storia negativa soprattutto nei confronti dei giovani e dei bambini è ampiamente conosciuta.

Penso in modo particolare ai Legionari di Cristo di Marcial Maciel (Messico) o ai religiosi di Mons. Lefebvre (Svizzera), la cui disobbedienza al papa e i metodi coercitivi per creare dei discepoli sono attestati da molti. La stessa Chiesa istituzionale accoglie gli uomini che le interessano in vista del proprio potere e respinge le donne che desidera mantenere sottomesse. Questo atteggiamento le espone alle critiche ridicole veicolate anche nei media religiosi cattolici in mala fede. I prelati fingono di riconoscere in maniera formale qualche merito a queste donne quando le loro azioni si riferiscono a quelle esercitate tradizionalmente dalle religiose nelle scuole e negli ospedali. Ma noi siamo forse solo quello?

Sappiamo che mai, negli Stati Uniti, c’è stato il minimo sospetto che quelle religiose possano aver violentato dei giovani, dei bambini e dei vecchi. Nessuna denuncia pubblica ha offuscato la loro immagine. Non si è mai sentito dire che si siano alleate per i propri interessi alle grandi banche internazionali. Nessuna denuncia per traffico di influenze, scambio di favori per preservare il silenzio dell’impunità. Ma anche così, nessuna di loro è stata canonizzata e neanche beatificata dalle autorità ecclesiastiche come invece è stato fatto per degli uomini di potere. Il riconoscimento di queste donne viene da molte comunità e gruppi cristiani o non cristiani che hanno condiviso la vita e il lavoro con molte di loro. E certamente quei gruppi non resteranno in silenzio davanti a questa “valutazione dottrinale” ingiusta che colpisce anche loro in maniera ingiusta.

Plagiando Gesù nel suo vangelo, lo sento dire: “Ho pietà di quegli uomini” che non conoscono le contraddizioni e le bellezze della vita nella prossimità, che non lasciare vibrare il loro cuore in tutta chiarezza con le gioie e le sofferenze delle persone, che non amano in tempo presente, che preferiscono la legge severa alla festa della vita. Hanno soltanto imparato le regole chiuse di una dottrina chiusa in una razionalità superata ed è a partire da lì che giudicano una fede diversa , specialmente quella delle donne. Forse pensano che Dio li approvi e si sottometta a loro e alle loro elucubrazioni talmente lontane da quelle di coloro che hanno fame di pane e di giustizia, dagli affamati, dagli abbandonati, dalle prostitute, dalle donne violentate o dimenticate. Fino a quando dovremo soffrire sotto il loro giogo? Quali atteggiamenti ci ispirerà “lo Spirito che soffia dove vuole” perché possiamo continuare ad essere fedeli alla VITA che è in noi?

Alle care suore nordamericane della LWRC, la mia riconoscenza, la mia tenerezza e la mia solidarietà. Se siete perseguitate per il bene che fate, probabilmente il vostro lavoro produrrà frutti buoni e abbondanti. Sappiate che noi, donne di altri continenti, con voi, non permetteremo che facciano tacere la nostra voce. Ancor di più, se le facessero tacere con un decreto di carta, ce ne faremmo una ragione ulteriore per continuare a lottare per la dignità umana e per la libertà che ci costituisce.

Continueremo con tutti i mezzi ad annunciare l’amore del prossimo come la chiave della comunione umana e cosmica presente nella tradizione di Gesù di Nazareth ed in molti altri, sotto forme diverse. Continueremo insieme a tessere per il nostro momento storico un tratto supplementare della vasta storia dell’affermazione della libertà, del diritto di essere diversi e di pensare in modo diverso, e, cercando di fare questo, di non aver paura di essere felici.

Testo originale al sito:

http://www.adital.com.br/site/noticia.asp?lang=PT&langref=PT&cod=66441
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 31/8/2012 11.47
Titolo:Sotto il pretesto di un “Anno della Fede”, l'ultimo attacco contro il Vaticano I...
La guerra che verrà. L’ultima offensiva di Roma contro il Vaticano II

di John Sivalon

da Adista Documenti n. 24 del 23/06/2012

DOC-2451. SCRANTON-ADISTA. Qual è la relazione tra il recente commissariamento, da parte del Vaticano, del massimo organismo di rappresentanza delle religiose statunitensi (Lcwr, v. Adista Notizie n. 16/2012) e la “barricata” che papa Ratzinger sembra ergere da tempo, nella Chiesa, contro il Concilio Vaticano II?

A collegare i vari punti del disegno è p. John C. Sivalon, ex superiore generale della Congregazione religiosa di Maryknoll ed attualmente docente di teologia presso l’Università di Scranton (Pennsylvania), in un articolo pubblicato il 27 maggio sul sito di sostegno alle religiose www.istandwiththesisters.org. Per Sivalon, in realtà, il peggio deve ancora venire: l’attacco più forte allo spirito del Vaticano II arriverà il prossimo ottobre, con l’apertura del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Riportiamo l’articolo, intitolato «Il Vaticano dichiara l’Anno dell’attacco» in una nostra traduzione dall’inglese. (l. e.)


L’ANNO DELL’ATTACCO

di John Sivalon

Sotto il pretesto di un “Anno della Fede”, il Vaticano ha lanciato un attacco frontale contro qualunque teologia o interpretazione del Vaticano II basata su quella che viene definita come “ermeneutica della rottura”. Tale attacco teologico viene articolato nel documento di Benedetto XVI noto come Porta Fidei (la lettera apostolica con cui è indetto l’Anno della Fede, ndt) e si precisa ulteriormente nella “Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della Fede” elaborata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Entrambi i documenti sono citati dal card. Levada nella sua Valutazione dottrinale della Leadership Conference of Women Religious (Lcwr). La logica di questa valutazione come di altre misure punitive messe a punto negli ultimi mesi (Caritas Internationalis, istituti educativi, ragazze scout) va intesa nel contesto più ampio di questo speciale “Anno dell’Attacco”.

Il vero nodo della questione, secondo la Nota, è quello di una «corretta assimilazione» del Vaticano II contro «interpretazioni erronee». Secondo Benedetto XVI tali interpretazioni sarebbero basate su un’“ermeneutica della discontinuità”, in contrasto con l’“ermeneutica del rinnovamento” su cui si basa invece la sua interpretazione. In realtà, tali ermeneutiche andrebbero meglio definite, rispettivamente, come “ermeneutica della missione” e come “ermeneutica del trinceramento”.

L’ermeneutica della missione individua nei documenti del Vaticano II un tentativo da parte della Chiesa di riscoprire nel suo passato nuclei di nuove comprensioni e di nuove strutture ecclesiali che rispondano in maniera più autentica e rilevante a quello che il Concilio ha chiamato mondo moderno. A tale ermeneutica appartiene l’affermazione, da parte dei Padri Conciliari, della tradizione come fondamento sul quale la fede può costruire e crescere continuamente in un contesto che cambia. E la visione della presenza continua di Dio nella storia e nella cultura, che generosamente offre nuove percezioni per comprendere e interpretare la pienezza della rivelazione.

L’ermeneutica del trinceramento, al contrario, vede nei documenti del Vaticano II la riaffermazione di dottrine fossilizzate in un linguaggio che possa essere inteso dal mondo moderno. L’ermeneutica del trinceramento si riferisce alla tradizione come un baluardo contro comprensioni erronee. E tende anche a leggere negativamente la modernità, definendola in termini di secolarismo, relativismo o pluralismo. Come afferma Benedetto XVI, «mentre, nel passato, era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, ampiamente condiviso nel suo appellarsi ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi pare che non sia più così in grandi settori della società...». L’ermeneutica del trinceramento, pertanto, rimpiange il passato, un’epoca idealizzata della cristianità.

Così, il provvedimento contro la Lcwr e le altre misure nei confronti di voci leali di cristiani fedeli, aperti al discernimento della saggezza di Dio nella cultura moderna, devono essere considerate delle incursioni iniziali per spaventare e ammorbidire le aree più forti di resistenza, prima che il vero attacco abbia inizio. Questa grande offensiva è prevista per ottobre del 2012, in occasione dell’apertura del Sinodo dei vescovi sulla “Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. I Lineamenta di questo sinodo stabiliscono chiaramente il bersaglio della “Nuova Evangelizzazione”, che è chiaramente la cultura moderna. Secondo il documento, il mondo moderno è espresso da una cultura del relativismo, che si è infiltrato fin nella stessa vita cristiana e nelle comunità ecclesiali. Gli autori affermano che le sue «gravi implicazioni antropologiche (...) mettono in discussione la stessa esperienza elementare umana, come la relazione uomo-donna, il senso della generazione e della morte». Associato a questo fenomeno, afferma il documento, vi è l’enorme mescolanza di culture, che si traduce in «forme di contaminazione e di sgretolamento dei riferimenti fondamentali della vita, dei valori per cui spendersi, degli stessi legami attraverso i quali i singoli strutturano le loro identità e accedono al senso della vita». Benedetto XVI ha definito tutto questo, in altre occasioni, come pluralismo, completando così la sua trilogia del demoniaco: secolarismo, relativismo e pluralismo, a fronte del sogno di una cultura dell’Europa medioevale recuperata e romanticizzata.

Gli istituti religiosi femminili, invece, esemplificano in maniera forte l’ermeneutica della missione: le suore hanno superato lo stile di separazione dal mondo; affrontano la sfida di abbracciare la presenza di Dio nella cultura moderna; lottano fedelmente per essere un segno autentico e chiaro dell’amore di Dio per il mondo. La Valutazione dottrinale è oltraggiosa per l’arroganza paternalista e patriarcale che esprime. Ma è chiaro che ha a che vedere con molto di più: la crepa drammatica all’interno della Chiesa Cattolica Romana in relazione all’interpretazione del Vaticano II e alla presenza o meno di Dio nella cultura moderna.

Quello che è più pernicioso in questo attacco, al di là degli effetti sulle vite delle persone che ne sono immediatamente e drammaticamente vittime, è l’appropriazione di concetti sviluppati da quanti operano a partire da un’ermeneutica della missione da parte di coloro che difendono un’ermeneutica del trinceramento, i quali ridefiniscono e utilizzano tali concetti in funzione della loro offensiva. Tre rapidi esempi si incontrano nella Valutazione dottrinale della Lcwr del card. Levada.

Per prima cosa, Levada afferma che l’obiettivo principale della Valutazione è quello di contribuire a realizzare un’“ecclesiologia di comunione”. I teologi che hanno sviluppato tale ecclesiologia hanno basato le proprie riflessioni sull’enfasi posta dal Vaticano II sulla Chiesa come Popolo di Dio, come Corpo di Cristo o come Popolo Pellegrino. Tutte queste immagini sono state utilizzate dal Vaticano II per ampliare la comprensione della Chiesa al di là della gerarchia. E nessuna immagina l’unità come qualcosa di costruito per mezzo della forza o dell’obbedienza alla dottrina. Al contrario, l’unità è vista come frutto del dialogo e del discernimento comune laddove il Popolo di Dio lotta unito per essere testimone fedele e autentico dell’Amore che spoglia se stesso. Chi più di questi istituti religiosi femminili riassume la comunione fondata sulla fede e vissuta come autospoliazione?

In secondo luogo, la Valutazione dottrinale sulla Lcwr definisce il carattere sacramentale della Chiesa quasi esclusivamente come gerarchia patriarcale. Di nuovo, il documento usurpa una comprensione della Chiesa del Vaticano II come sacramento e la riformula. Il Vaticano II, al contrario, postula la Chiesa nella sua interezza come sacramento del Regno di Dio.

Nel post-Vaticano II, molti teologi di varie parti del mondo hanno elaborato l’immagine della Chiesa come Profeta, fondando tale visione sull’opzione preferenziale per i poveri, sulla fede nella salvezza come liberazione e sulla necessità di denuncia nei confronti non solo delle strutture del mondo ma anche di quelle della Chiesa stessa e del suo ruolo di supporto a situazioni di oppressione e di negazione dei diritti. Al contrario, la Valutazione nega qualunque possibilità di profezia nei confronti della gerarchia della Chiesa o qualunque presenza profetica separata da tale gerarchia. Questa aberrante mancanza di considerazione per i profeti biblici e per la loro forte presa di posizione contro sacerdoti, re e rituali di fede svuotati non è colta come una rottura con il passato o con la tradizione da parte di coloro che operano a partire da questa ermeneutica del trinceramento.

Nel momento in cui si celebra il 50º anniversario dell’apertura del Vaticano II, entriamo in un nuovo capitolo della storia della Chiesa. Il Concilio convocato per aprire le finestre è ora reinterpretato con le persiane chiuse, per proteggere la Chiesa dai venti di tempesta di un mondo in cerca di autenticità spirituale. Per quanto lo si presenti come un momento di rinnovamento, l’Anno della Fede è realmente dedicato all’idolatria della dottrina, del potere e della gerarchia. Le suore che, nel loro servizio alla Chiesa e al mondo, non si limitato al voto di povertà, ma lo vivono realmente senza privilegi, status o accumulazione di ricchezze, sono in forte e profetico contrasto con l’inautenticità di un trinceramento mascherato da rigenerazione.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 31/8/2012 18.08
Titolo:SOGNARE SECONDO IL CONCILIO. In memoria di Carlo M. Martini, morto oggi ...
Martini, sognare secondo il Concilio

di Enzo Bianchi (La Stampa, 15 ottobre 2011)

«Una memoria umile e grata»: è questo lo spirito che animò, ormai dieci anni fa, l’ultima lettera pastorale del cardinal Martini alla sua diocesi di Milano. Nell’accomiatarsi da quella chiesa cui aveva dedicato il meglio di sé durante ventidue anni di servizio pastorale, esplicitò «l’assillo quotidiano», la domanda decisiva che l’aveva accompagnato: «Ciò che sto proponendo è davvero secondo il Vangelo?». Umiltà di chi si è interrogato ogni giorno sull’essenziale del proprio ministero e gratitudine verso chi ha assecondato, accompagnato, arricchito quel lavoro quotidiano. Ma una memoria umile e grata è anche la qualità che ha guidato Aldo Maria Valli nel raccontare la Storia di un uomo (Ancora, pp. 206, € 16: un «ritratto di Carlo Maria Martini» che ridà voce all’ormai anziano cardinale, reso afono dall’implacabile morbo di Parkinson.

Valli è uno dei giornalisti che ha seguito più da vicino il cardinal Martini durante tutti gli anni del suo ministero a Milano, ed è anche un «cattolico ambrosiano», un credente che nell’accostarsi a colui che è stato per lunghi anni il «suo» pastore, ha sempre saputo conservare un prezioso e fecondo equilibrio tra il professionista al lavoro e il credente in ricerca di una conferma alla propria fede. In questo avvincente percorso tra libri, scritti, omelie, gesti e aneddoti del cardinal Martini vi è una parola che ritorna e che il libro aiuta a cogliere nel suo significato più profondo: «sogno».

Personalmente diffido di chi abusa di questo termine, come se la realtà che siamo chiamati a vivere e le responsabilità che dobbiamo assumere nei confronti di quanti ci sono accanto o verranno dopo di noi dovessero essere relegate nel mondo onirico, minacciate costantemente dall’inevitabile risveglio. Ma per il cardinal Martini il «sogno» non è questo.

È, invece, un altro nome della contemplazione cristiana, è, secondo le sue stesse parole, ridestare con la riflessione e l’agire concreto «quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia»; è quel «mondo visto con gli occhi di Dio, con gli occhi della fede, con gli occhi della preghiera» che l’arcivescovo di Milano va a contemplare da Gerusalemme una volta terminato il suo ministero episcopale.

Così si esprimeva il cardinale in un’intervista circa il suo lascito a Milano: «Spero di aver lasciato l’amore per la parola di Dio, la coscienza della sua esistenza e la certezza che questa parola ci guida in ogni momento». Dalle pagine amorosamente curate da Aldo Maria Valli, possiamo dire che questa speranza è esaudita e che la «memoria umile e grata» di tanti credenti e non credenti si aggiunge a quella dei suoi fedeli ambrosiani e degli abitanti di quella metropoli che il cardinale ha saputo capire, servire e amare.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 02/9/2012 11.18
Titolo:Bettazzi: «Voleva andare avanti. E noi abbiamo avuto paura»
Bettazzi: «Voleva andare avanti. E noi abbiamo avuto paura»

intervista a Luigi Bettazzi

a cura di Roberto Monteforte (l’Unità, 2 settembre 2012)

È stato un riferimento per molti, anche nella Chiesa il cardinale Carlo Maria Martini. Soprattutto per il suo coraggio e per la sua libertà, alimentata dalla forza del Vangelo, di parlare all’uomo contemporaneo.

Da qui anche la sua fedeltà al Concilio Vaticano II e la sua capacità di guardare con fiducia al futuro. È il biblista che si fa pastore e profeta. Così lo ricorda monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea e uomo del Concilio.

Monsignor Bettazzi, come risponderebbe a una delle ultime domande poste dal cardinale Martini: perché la Chiesa ha paura di avere coraggio?

«Perché cercando di incarnare il Vangelo nelle situazioni storiche - che è un suo dovere - troppo spesso si è rimasti fermi al passato. Quando il Papa era anche re, si dava un’impronta alla Chiesa adatta a quei tempi, ma non certo all’oggi. La Chiesa invecchia quando perde il rapporto con la storia che muta. Per questo Giovanni XXIII ha voluto un Concilio Vaticano II pastorale e non dogmatico. Che aiuti la Chiesa a camminare con la gente.

Forse abbiamo avuto paura che ciò portasse ad eccessivi rinnovamenti e tutti assieme - gerarchia e popolo di Dio - abbiamo avuto paura ad andare avanti. Questo avrebbe richiesto una purificazione dei nostri modi di pensare e di agire che forse richiedevano troppo sacrificio. A questa purificazione e al superamento di certi modi del passato ci ha chiamato il cardinale Martini, lui così radicato nella Parola di Dio, da sentire quanto forte fosse il richiamo a viverla nel nostro tempo».

Cosa è stato per lei?

«Un punto di riferimento. Non ho avuto molte occasioni di contatti personali con lui. Era un uomo di grande levatura, sia per la sua profonda conoscenza delle scritture, che per la sua preparazione. Sapeva illuminare le situazioni. Ho avuto modo di frequentarlo negli ultimi tempi a Gallarate, quando gli abbiamo presentato un progetto di rilancio del Concilio. Abbiamo trovato una certa consonanza, una simpatia. Durante uno di questi incontri mi ha chiesto di presiedere l’eucarestia familiare. Lo ricordo con molta commozione e gratitudine».

Cosa è stato per la Chiesa in Italia?

«Lo ripeto. Un punto di riferimento. L’insieme della Chiesa ufficiale gli riconosceva la sua grande personalità. Ma restava molto legata all’idea della tradizione come continuità da conservare. In latino tradere vuole dire trasmettere, quindi saper rinnovare i principi forti secondo le situazioni di un mondo che si sviluppa. Come dicevano gli antichi: nelle cose necessarie bisogna essere uniti, in quelle opinabili liberi, purché in tutte ci sia la carità. Era questo lo stile di Martini: da una parte l’attenzione alla Bibbia e dall’altra il dialogo con “la cattedra per i non credenti”. Il rinnovamento che cercava di vivere nella sua diocesi a Milano, non poteva non diventare motivo di attenzione per il resto della Chiesa. Il dialogo con i non credenti, ad esempio, che allora creò scalpore, alla fine è stato riproposto da papa Benedetto XVI all’incontro di preghiera per la pace tra le religioni tenutosi ad Assisi lo scorso anno. Ha voluto che ci fosse anche un non credente».

Ma intervenendo nel 2005 alla riunione dei cardinali che precedette l’elezione del successore di Giovanni Paolo II ha posto con chiarezza l’esigenza di un rinnovamento nella Chiesa...

«Non da candidato al pontificato. D’altra parte era già malato. Pare che abbia invitato tutti i porporati a votare per Ratzinger, chiedendo però al futuro Benedetto XVI di impegnarsi per il Concilio, per la collegialità e per l’ecumenismo. Sono i punti che il nuovo Papa affronterà nel suo primo discorso dopo l’elezione al Conclave. Quando due anni fa Martini si è recato in udienza dal Papa, non avrebbe parlato della successione alla diocesi di Milano, ma posto l’esigenza di un rilancio del Concilio a 50 anni dalla sua apertura».

Ha avuto ascolto...

«Non poteva non averlo. Poneva le sue idee con moderazione. Ed anche chi divergeva da lui, non poteva non guardare alle sue idee. Non poteva ignorare che nascevano da un uomo profondamente radicato nella parola di Dio. Una parola che, ci ha aiutato a capire, non è un deposito delle verità di fede, ma l’invenzione di Dio per metterci a tu per tu - il popolo antico e quello nuovo composta da ciascuno di noi -con Lui. E se sei “a tu per tu con Dio” hai la forza anche per sacrificare modi di valutare le cose che in passato potevano essere utili alla Chiesa, ma che oggi non lo sono più. È così che può parlare al cuore del tempo e quindi anche ai giovani, con le loro sensibilità e mentalità diverse dalla nostra. Lo chiede il Concilio che con il documento sulla Chiesa pone con nettezza la centralità del popolo di Dio nella Chiesa. Il laicato, prima di di dover obbedire alla gerarchia, deve vedere questa mettersi al suo servizio».

Sono stati punti fermi per Martini...

«...Che non chiese mai la convocazione di un Concilio Vaticano III. Sapeva bene che vi era il rischio che si mettessero in discussione punti importanti del Vaticano II. Quello che ha chiesto è che su alcuni punti particolari, come la sessualità, la bioetica, la pastorale dei divorziati e sui punti oggi caldi per la Chiesa tutti i vescovi del mondo venissero a Roma per decidere con l’autorevolezza del Concilio e con il Papa. Sarebbe il modo di vivere la collegialità superando i limiti dei Sinodi». Saranno accolte queste richieste poste da un profeta che ha avuto la libertà di guardare oltre? «Me lo auguro. A volte i profeti da morti hanno più influenza che da vivi. Direbbe Martini: è il principio evangelico, quello del frutto di frumento che in terra se vive resta solo, se muore da molto frutto».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 03/9/2012 18.31
Titolo:Nascondere le lampade sotto il moggio. Nel giorno delle esequie di Martini ....
Nel giorno delle esequie del Card. C. M. Martini

di Alberto Simoni op (Koinonia-forum, n. 314 del 3 settembre 2012)

Cari amici,

una chiesa che dice (senza esserlo) e una chiesa che è (senza dirlo): ecco il quadro che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di rivelazione in morte del card. C.M.Martini, che sembra fare da cartina di tornasole di quella che Galli della Loggia - parlando di correnti della chiesa (Corriere della Sera, 2 settembre) - chiama “Una federazione di popoli diversi”.

In questo momento di grazia, non ci sono solo riti e celebrazioni da sbrigare, ma segni dei tempi da cogliere e frammenti da raccogliere, perché niente si perda. È quanto mi permetto di fare ancora una volta con i vari messaggi che in queste ore ci mettono in comunione e ci fanno pensare.

Parlando all’Angelus del 2 settembre della Legge di Dio che “è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita”, Benedetto XVI dice tra l’altro: “Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo”. Ma forse questo coraggioso guardarsi allo specchio non basta, se finisce lì.

Sarebbe bastato invece che avesse semplicemente detto che qualcuno nella chiesa ha cercato per tutta la vita di risvegliare la coscienza e la memoria di questo Popolo di Dio e di farlo uscire dalla sua falsa sicurezza. E questo qualcuno è stato il card. C.M.Martini, che però il Papa si è guardato bene dal ricordare e dal proporre come servo della Parola e come guida alla chiesa di Dio, lasciando quella chiesa che lo ascolta nella illusione di essere al sicuro nel proprio ovile e suscitando invece disillusione in quella chiesa della diaspora che, insieme a tutte le donne e gli uomini di questo mondo, è alla ricerca di un pastore e di un ovile dove si possa entrare ed uscire.

Passi che il Papa non vada a Milano per testimoniare che è Pastore di tutta la Chiesa, ma che ignori il Pastore di una chiesa che è nel cuore dei più può far parte di giochi diplomatici ma non è un bell’esempio di collegialità: perché continuare a nascondere sotto il moggio le lampade che lo Spirito accende tra il Popolo di Dio? Ma se anche tutto ciò fa tristezza, non può impedire che gridino le pietre. E forse dal card. Martini c’è da imparare a far convivere, senza confonderle, “ragioni di Stato” con istanze evangeliche...
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 09/9/2012 09.53
Titolo:L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini

di Vito Mancuso (la Repubblica, 9 settembre 2012)

Con uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.

A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana.

Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”.

E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.

Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico.

Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede.

Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.

Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”).

Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.

Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.

Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.

Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 10/9/2012 18.25
Titolo:GAUDIUM ET SPES: Dignità della coscienza morale, Grandezza della libertà.
L’insegnamento del Vaticano II. "Gaudium et spes":


"16. Dignità della coscienza morale.

Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.

L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (18).

Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo (19). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.

Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.

17. Grandezza della libertà.

Ma l'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà.

I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male.

La vera libertà, invece, è nell'uomo un segno privilegiato dell'immagine divina.

Dio volle, infatti, lasciare l'uomo « in mano al suo consiglio » (20) che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione.

Perciò la dignità dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. L'uomo perviene a tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine mediante la scelta libera del bene e se ne procura con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell'uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pieno se non mediante l'aiuto della grazia divina.

Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male (21)".
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 25/9/2012 11.10
Titolo:IL PONTEFICE ATEO ....
Giulio Cesare, il pontefice ateo

Seguace di Epicuro, fu eletto alla massima carica religiosa

di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 25.09.2012)

Nell’anno 63 a.C. Giulio Cesare, non ancora quarantenne, grazie ad una campagna elettorale costosissima che rischiò di portarlo definitivamente alla rovina, riuscì a farsi eleggere pontefice massimo, la più alta carica religiosa dello Stato romano. Lo scontro elettorale era stato durissimo; il suo principale antagonista Quinto Lutazio Catulo aveva messo in atto la più pervasiva corruzione elettorale fondata sulla capillare compravendita del voto. Cesare rispose con la stessa arma. Il «mercato politico» - come ancora oggi elegantemente lo si chiama - raggiunse in quell’occasione una delle sue vette. Cesare dovette indebitarsi a tal punto per far fronte ai costi di una tale oscena campagna elettorale da lasciarsi andare, parlando con la madre, alla celebre uscita: «Oggi mi vedrai tornare o pontefice massimo o esule». È Plutarco, al solito egregiamente informato su tutto quell’aspetto del reale che la storia «alta» trascura, a darci la notizia e a chiosarla con una interessante considerazione: con tale vittoria inattesa, e contro un avversario così forte e così autorevole, Cesare «intimidì gli ottimati, i quali capirono che avrebbe potuto indurre il popolo a qualunque audacia» (Vita di Cesare, 7).

Subito dopo esplode la congiura di Catilina. Cesare, che è pretore designato (entrerà in carica nel gennaio 62), è lambito dalla congiura. Ed in Senato, di fronte alla pressione fortissima di chi (come Cicerone e Catone) propugna l’esecuzione capitale dei congiurati, ormai scoperti e arrestati, Cesare sceglie di motivare, con argomenti tratti dalla filosofia di Epicuro, la proposta di lasciarli in vita. Con l’argomento che, se l’anima è mortale, la pena di morte è più lieve di una lunga detenzione! Sappiamo quanto si sia speculato da parte dei contemporanei, e poi degli studiosi moderni, intorno alla implicazione o meno di Cesare nella congiura. Cicerone - e non lui soltanto - era convinto che Cesare fosse compromesso: ma non ritenne di affermarlo apertamente, se non quando il dittatore era morto. Certo, la vittoria elettorale che consentì a Cesare di assumere il pontificato massimo venne al momento opportuno e rivestì lo stesso Cesare di una nuova sacralità protettiva, quanto mai giovevole in quel momento.

Essere implicati in un’iniziativa eversiva segreta si può in molti modi, che vanno dalla diretta partecipazione alla semplice, passiva consapevolezza del progetto. Cesare non era così imprudente da porsi in una posizione tale da divenire ricattabile, una volta fallito il piano, da compagni imprudenti o sfortunati. Cercò però di salvarli parlando in Senato nel modo in cui Sallustio, suo seguace, lo fa parlare, scomparsi ormai tutti i protagonisti della vicenda.

Decimo Silano aveva proposto la pena capitale e la proposta incontrava largo consenso. Cesare interviene per capovolgere una situazione difficilissima e si sforza di presentare la pena di morte come troppo lieve, con l’argomento che - nella sventura - «la morte non è un supplizio, è un riposo agli affanni», in quanto - prosegue in perfetto stile epicureo - «dopo la morte non c’è posto né per il dolore né per il piacere» (Sallustio, Congiura di Catilina, 51). Fa una notevole impressione il pontefice massimo che impartisce agli altri senatori una breve ed efficace (e strumentale) lezione di filosofia epicurea. Era noto che Cesare avesse, come tantissimi nelle classi colte romane, subìto l’influsso o sentito il fascino di quel lucido pensiero anticonsolatorio.

Replicando a Cesare in quel dibattito memorabile, che si concluse con la decisione illegale di procedere all’esecuzione capitale immediata, e senza processo, dei congiurati, Catone ironizzò: Cesare - disse - pontefice massimo, pretore designato, «ci ha amabilmente intrattenuto (bene et composite disseruit) sulla vita e sulla morte»; «se non erro - soggiunse - ha sostenuto teorie false, ha dichiarato infatti di non credere a quello che si narra degli inferi, che cioè i malvagi andranno a finire, dopo la morte, in contrade diverse da quelle destinate ai buoni: contrade tetre, incolte, sinistre, spaventevoli». Questa lezione di corretta credenza religiosa, impartita al pontefice massimo appena eletto, è una delle più sottili perfidie dell’oratoria politica di tutti i tempi.

Naturalmente il problema da porsi è come mai nella società politica romana fosse possibile e conciliabile con il mos maiorum e con la stabilità delle istituzioni avere un «papa ateo».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 26/9/2012 16.09
Titolo:Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo
Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo del suo potere.

di Leonardo Boff ("Jornal do Brasil”, 17 settembre 2012) *

Abbiamo scritto precedentemente su queste pagine che la crisi della Chiesa-istituzione-gerarchia ha le sue radici nell’assoluta concentrazione di potere nella persona del Papa, potere esercitato in modo assolutistico, lontano da qualsiasi partecipazione dei cristiani e fonte di ostacoli praticamente insormontabili per il dialogo ecumenico con le altre Chiese.

All’inizio non fu così. La Chiesa era una comunità di fratelli. Non esisteva la figura del Papa. Nella Chiesa comandava l’Imperatore. Era lui il sommo pontefice (Pontifex Maximus), non il vescovo di Roma o di Costantinopoli, le due capitali dell’Impero. E così è l’imperatore Costantino a convocare il primo concilio ecumenico a Nicea (325), per decidere la questione della divinità di Cristo.

E di nuovo nel secolo VI è l’imperatore Giustiniano che ricuce Oriente e Occidente, le due parti dell’impero, reclamando per se stesso il primato di diritto e non quello di vescovo di Roma. Tuttavia, per il fatto che Roma vantava le tombe di Pietro e Paolo, la Chiesa romana godeva di particolare prestigio, come del resto il suo vescovo che davanti agli altri deteneva "la presidenza nell’amore" e esercitava il "servizio di Pietro", quello di confermare i fratelli nella fede, non la supremazia di Pietro nel comando.

Tutto cambia con Papa Leone I (440-461), grande giurista e uomo di Stato. Lui copia la forma romana del potere che si esprime nell’assolutismo e autoritarismo dell’imperatore; comincia a interpretare in termini strettamente giuridici i tre testi del N.T. riferibili al primato di Pietro: Pietro, in quanto roccia su cui si costruirebbe la Chiesa (Mt 16,8); Pietro, colui che conforta i fratelli nella fede ( Lc 22,32); e Pietro come pastore che deve prendersi cura delle pecore (Gv 21,15). Il senso biblico e gesuanico va nella direzione diametralmente opposta, quella dell’amore, del servizio e della rinuncia a ogni onore. Ma l’interpretazione dei testi alla luce del diritto romano - assolutistico - ha il sopravvento. Coerentemente, Leone I assume il titolo di Sommo Pontefice e di Papa in senso proprio.

Subito dopo gli altri papi cominciarono a usare le insegne e il vestiario imperiali, porpora, mitra, trono dorato, pastorale, stole, pallio, mozzetta: si creano palazzi con rispettive corti; si introducono abiti per vita da palazzo in vigore fino ai nostri giorni con cardinali e vescovi, cosa che scandalizza non pochi cristiani che leggono nei vangeli che Gesù era un operaio povero e senza fronzoli. Così finisce per essere chiaro che i gerarchi stanno più vicini al palazzo di Erode che alla culla di Betlemme.

C’è però un fenomeno che noi stentiamo a capire: nella fretta di legittimare questa trasformazione per garantire il potere assoluto del Papa, si fabbricano documenti falsi.

Primo. Una pretesa lettera del Papa Clemente (+96), successore di Pietro in Roma, diretta a Giacomo, fratello del Signore, il grande pastore di Gerusalemme, nella quale si dice che Pietro, prima di morire, aveva stabilito che lui, Clemente, sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Evidentemente anche gli altri che sarebbero venuti dopo.

Falsificazione ancora più grande è la Donazione di Costantino, documento fabbricato all’epoca di Leone I, secondo il quale Costantino avrebbe dato in regalo al Papa di Roma tutto l’Impero Romano.

Più tardi, nelle dispute con i re Franchi, fu creata un’altra grande falsificazione le Pseudodecretali di Isidoro, che mettevano insieme documenti e lettere come provenienti dai primi secoli, il tutto a rafforzare il Primato giuridico del Papa di Roma.

Tutto culmina con il codice di Graziano (sec. XIII), ritenuto la base del diritto canonico, ma che poggiava su falsificazioni e norme che rafforzavano il potere centrale di Roma oltre che su canoni veri che circolavano nelle chiese.

Evidentemente tutto ciò viene smascherato più tardi, senza che con questo avvenga una qualsiasi modificazione nell’assolutismo dei Papi. Ma è deplorevole, e un cristiano adulto deve conoscere i tranelli usati e fabbricati per gestire un potere che cozza contro gli ideali di Gesù e oscura il fascino del messaggio cristiano, portatore di un nuovo tipo di esercizio del potere servizievole e partecipativo.

In seguito si verifica un crescendo nel potere dei Papi. Gregorio VII (+1085) nel suo Dictatus Papae (dittatura del Papa) si autoproclamò Signore assoluto della Chiesa e del mondo; Innocenzo III (+1216) si annuncia come vicario e rappresentante di Cristo; e infine Innocenzo IV (+1.254) si atteggia a rappresentante di Dio. Come tale sotto Pio IX, nel 1.870, il Papa viene proclamato infallibile in fatto di dottrina e morale.

Curiosamente, tutti questi eccessi non sono mai stati ritrattati o corretti dalla Chiesa gerarchica, perché questa ne trae benefici. Continuano a valere come scandalo per coloro che ancora credono nel Nazareno, povero, umile artigiano e contadino mediterraneo perseguitato e giustiziato sulla croce e risuscitato contro ogni ricerca di potere, e sempre più potere, perfino dentro la Chiesa. Questa comprensione commette una dimenticanza imperdonabile: i veri vicari-rappresentanti di Cristo, secondo il vangelo di Gesù (Mt 25,45) sono i poveri, gli assetati, gli affamati. La gerarchia esiste per servirli non per sostituirli.

Tradotto da Romano Baraglia

* Fonte: Incontri di Fine settimanana
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/2/2013 21.45
Titolo:La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio

di Giordano Frosini

in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013

Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.

Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.

Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.

Le tre fasi post-conciliari

Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.

Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».

Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).

Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.

La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.

Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?

Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.

Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.

La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.

La rivolta dei teologi

I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.

Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.

Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».

Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.

Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.

Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.

Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.

Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».

Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.

La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.

«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».

Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.

Il pensiero di Pino Colombo

È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.

Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.

Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.

Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.

Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.

È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.

Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.

Un necessario recupero

Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.

A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 17/2/2013 19.14
Titolo:L'ATTUAZIONE DEL CONCILIO ....
Se la magia del sacro è sconfitta

di Raniero La Valle (il manifesto, 17 febbraio 2013)

Quasi volesse non farsi rimpiangere, il papa alla fine si è lasciato andare ad una confidenza che ha svelato tutta la difficoltà che sul piano personale egli ha avuto nel vivere il Concilio come una delusione. Nella «chiacchierata» in cui ha raccontato come lui «ha visto» il Vaticano II, c’è forse la chiave per capire come non gli bastassero più le forze per guidare una Chiesa che, come aveva detto nel 2005 nel suo primo discorso alla curia, nel Concilio aveva avuto la sua vera «discontinuità» riconciliandosi con l’età moderna, quella modernità che egli non ha invece ancora accettato e che patisce come «relativismo».

Questo risvolto personale del suo difficile rapporto col Concilio, che già era venuto fuori in un suo discorso estivo, in montagna, al clero del Triveneto, quando aveva negato che dal Concilio potesse scaturire «la grande Chiesa del futuro», è emerso con grande sincerità nel suo discorso di giovedì a un altro clero particolare, quello di Roma. Al presbiterio di cui, come vescovo di Roma, è il capo, Benedetto XVI ha voluto parlare come se fosse uno dei vescovi che aveva partecipato al Concilio, sul filo dei ricordi personali, piuttosto che con «un grande, vero discorso» da papa.

Da questa confidenza risulta che nel vissuto di Ratzinger non c’è stato un solo Concilio, ma ci sono stati diversi concili. Il primo, l’unico che gli sia veramente piaciuto, è stato quello dell’entusiasmo iniziale, quando «speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste». Il secondo è quello soprattutto condotto dall’«alleanza renana», cioè dai vescovi francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che vi hanno introdotto i temi «più conflittuali», come quello del rapporto tra papa e vescovi (con quella discussa parola, «collegialità», a cui forse Ratzinger avrebbe preferito «comunione»), la «battaglia» sul rapporto tra scrittura e tradizione, la «lite» sull’esegesi che tenderebbe «a leggere la scrittura fuori della Chiesa, fuori della fede», l’ecumenismo.

Poi c’è stato il terzo Vaticano II, in cui «sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio» gli americani degli Stati Uniti e dell’America Latina, l’Africa, l’Asia: ed è stata la fase della responsabilità per il mondo, della libertà religiosa, del dialogo tra le religioni, per cui «sono cresciuti problemi che noi tedeschi all’inizio non avevamo visto»; e sono nate le grandi questioni del rapporto non solo con gli ebrei, ma con l’Islam, il buddismo, l’induismo; e qui la cosa che è ancora «da capire meglio» è il rapporto tra la sola vera religione e le altre di cui un credente non può pensare, secondo il papa, che «siano tutte varianti di un tema», anche se le esperienze religiose portano «una certa luce della creazione». Molti problemi aperti dal Concilio sono dunque ancora «da studiare» e molte applicazioni non sono ancora complete, sono «ancora da fare».

Ma la contraddizione principale che il papa dice di aver vissuto, è stata tra il «vero Concilio», che era quello dei padri e il Concilio dei media. Il primo era un Concilio della fede che si realizzava nella fede, il secondo era il Concilio dei giornalisti che si realizzava non nella fede, ma nelle categorie politiche di una lotta per il potere nella Chiesa. Starebbe nel fatto che il Concilio giunto alla Chiesa, reso accessibile a tutti, fosse quello dei giornalisti e non quello «reale», la vera causa della crisi della Chiesa: «tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata»; sarebbe questo Concilio dei media che avrebbe invaso le chiese, profanato la liturgia, negato il culto, trasformato il «popolo di Dio» nella «sovranità popolare», messo fine alla religione del sacro, intesa come «cosa pagana».

Sicché il vero Concilio, l’ultimo, starebbe arrivando ora, dopo 50 anni, che sono i decenni in cui i vescovi se ne sono stati a casa, la Chiesa è stata sottoposta alla robusta cura romana, la controriforma è giunta a buon punto, la liturgia restaurata e i giornalisti, non dovendo più misurarsi con la missione e la fede della Chiesa, sono tornati a fare i «vaticanisti».

È un peccato che su questo punto cruciale dei media il Papa sia male informato e forse, allora, non abbia capito il Concilio. Ed è singolare che oggi si attribuiscano tutti i mali della Chiesa a quelli che, nelle due prime parole del primo documento del Concilio, Inter mirifica , erano definiti «cose meravigliose», cioè appunto i mezzi di comunicazione sociale. È vero invece che si è rischiato che ci fossero due Concili: un Concilio dei padri, e un Concilio dei media.

Ma questo era il progetto della Chiesa preconciliare, che aveva creduto di nascondere il Concilio chiudendone le porte e decretandone il segreto, lasciando ai giornali la sola via dello «scoop»; ma questo finì subito, all’inizio della seconda sessione, quando il segreto fu rotto, e il Concilio irruppe nella coscienza dei fedeli e nel popolo di Dio, che nessuno mai pensò di paragonare al popolo sovrano, come nessuno interpretò le discussioni teologiche sulla sacramentalità dell’episcopato e la successione dei vescovi al collegio degli apostoli come una «lite» o lotta di potere, come ora il papa rivela che per molti sia stato, dicendo addirittura che nel Concilio dei padri «forse qualcuno ha anche pensato al suo potere».

E quello che allora il giovane prof. Ratzinger non vide fu che tra i giornalisti che «fecero» il Concilio c’erano uomini di grandissima fede: per esempio l’abbé Laurentin, mariologo, per Le Figaro , Jean Fesquet e poi Nobécourt per Le Monde , Grootaers per l’Olanda, Juan Arias per El Pais , e tra gli italiani cristiani come Giancarlo Zizola, Ettore Masina, Lamberto Furno, e anche Gianfranco Svidercoschi, che poi addirittura diventò vicedirettore dell’ Osservatore Romano ; e padre Caprile della Civiltà Cattolica ; e padre Roberto Tucci, oggi cardinale, e mons. Clemente Riva, poi vescovo ausiliare di Roma, che ogni giorno informavano i giornalisti italiani dei contenuti, e non solo delle coreografie, dei lavori.

Quanto a me, se è lecito aggiungere ricordi a ricordi, papa Giovanni scrisse sul suo diario, dopo avermi ricevuto una mattina dell’agosto 1961: «Ho ricevuto il giovane (30 anni!) direttore dell’ Avvenire d’Italia , una promessa per la causa cattolica»; e L’Avvenire d’Italia, a spese della Santa Sede, fu mandato a tutti i padri conciliari per tutto il corso del Concilio, e non credo che ciò fosse per spiantare la Chiesa.

Ma io ora sono grato al papa che ci lascia, perché andandosene ci dice che proprio questo è il problema: l’attuazione del Concilio, la fede per l’età moderna, una Chiesa non incapsulata nella magia idolatrica del sacro.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/3/2013 10.31
Titolo:GESU' NON HA ISTITUITO IL PAPATO ....
Pesch: Roma è illimitatamente riformabile, Gesù non ha istituito il papato

di Ja die neue Kirchenzeitung

in “www.ja-kirchenzeitung.at” n° 10 del marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Gesù non ha lasciato esplicite direttive relativamente alla forma della chiesa né a chi l’avrebbe diretta. Questo significa, secondo il teologo tedesco Otto Hermann Pesch: “Concretamente: il papa e la curia romana sono riformabili senza limiti, se necessitano di riforme”.

Questo vale oggi quanto nei primissimi tempi “ogni qualvolta la situazione è apparsa senza prospettive”, scrive Pesch in un articolo sulla rivista “ Bibel und Kirche ” (Bibbia e chiesa), pubblicata dalla “ Katholisches Bibelwerk ” di Stoccarda. Il contributo dell’emerito professore di dogmatica di Amburgo nel quaderno 4/2012 dedicato a “ Die Gewänder des Petrus ” (gli abiti di Pietro) ha il titolo: “ Jesus hat kein Papsttum gestiftet! ” (“Gesù non ha istituito il papato!”)

È urgentemente necessaria una riforma del papato, che nel corso del tempo ha subito cambiamenti storici e che è stato fortemente trasformato dalla tradizione, dice Pesch. Non è sufficiente che Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica “ Ut unum sint ” (1995), inviti le chiese non romane a riflettere con lui sullo stile e sulle modalità di esercizio della funzione papale. Poiché nella stessa enciclica Giovanni Paolo II ha chiarito ciò che riteneva indispensabile nella sua missione, e cioè di dover vegliare “come un guardiano” affinché in tutte le singole chiese “si faccia sentire la vera voce di Cristo pastore”. Pesch afferma che di fronte a questa rivendicazione, sia stato “comprensibile che nessuno abbia voluto accogliere l’invito al dialogo”.

Il criterio per ogni riforma del papato è, secondo le parole del teologo, “se il ministero petrino, storicamente accresciuto, offra veramente un utile servizio petrino”. Si raggiungerebbe questo se anche con la forma attuale di papato si realizzasse ciò che al tempo dei primi cristiani si diceva di loro: “ Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune (...) lodavano Dio e godevano della simpatia di tutto il popolo ” (At 2,44-47), ha citato Pesch dagli Atti degli Apostoli.

Da umili inizi a forza potente

Con un sintetico sguardo retrospettivo, Pesch delinea lo sviluppo del papato dagli inizi nel periodo biblico fino all’oggi, e ci presenta così varie notizie sorprendenti.

I racconti biblici ci fanno capire che Gesù vide avvicinarsi il tempo della morte, ma che al contempo vide anche la continuità del suo messaggio del “Regno di Dio” - ulteriormente annunciato dai dodici presenti all’ultima cena e in seguito da tutti coloro che credevano alle loro prediche. “Dalla bocca di Gesù non sappiamo altro - niente su strutture, costituzioni o cariche, afferma Pesch.

Il fatto è questo: Pietro doveva essere, secondo la volontà di Gesù, il portavoce autorizzato dei dodici. Gli scritti che si riferiscono agli apostoli nelle prime comunità cristiane sono stati scritti solo dopo la morte di Pietro a Roma, mostravano comunque la sua “posizione speciale nella giovane Chiesa” e la considerazione onorevole a lui riservata.

Secondo Pesch, la comunità romana ancora alla fine del primo secolo era guidata da un collettivo, un “presbiterio”, mentre la guida della comunità in Palestina e in Siria si realizzava tramite un unico vescovo.

Allontanamento tra Oriente ed Occidente

Nel Medioevo si era giunti ad un “allontanamento tra Roma e l’Oriente”, tra Roma e Bisanzio quale sede dell’imperatore: “I primi concili, così importanti per la formulazione della confessione di fede, erano tutti sinodi della Chiesa orientale a cui i rappresentanti dell’Occidente, se mai presenti, non collaboravano” e talvolta addirittura “rimanevano chiusi fuori”, ricorda Pesch. Le decisioni di questi concili, fino ad oggi determinanti, sono sempre state accolte solo posteriormente e non sempre a quanto pare sotto la direzione di Roma in Occidente”.

Dopo lo scisma d’Oriente nel 1054 e dopo la separazione tra la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, “lo sviluppo storico del primato papale è stato solo una faccenda interna alla Chiesa d’occidente.”, scrive Pesch. Per secoli si è trascinato un conflitto di poteri tra papi e imperatori, con sempre più esplicite rivendicazioni di potere da parte dei papi.

Papa Gregorio VII pretese nel 1075 sovranità universale non solo sulla Chiesa, ma anche sulle autorità civili. Bonifacio VIII dichiarò nel 1302 che “era necessario per qualsiasi essere umano essere sottomesso al papa romano”

Il papa sta al di sopra della bibbia?

Però, fa notare Pesch, era chiaro anche all’interno dei gruppi “papalini” convinti, del tardo Medioevo, che difendevano l’autorità del papa come superiore a quella del concilio, che fondamentalmente anche un papa poteva diventare eretico e che quindi avrebbe potuto insegnare cose sbagliate alla Chiesa. Come criterio valeva il fatto che il papa contraddicesse o meno la Sacra Scrittura.

Questa convinzione ha svolto un ruolo fondamentale - nel caso di Martin Lutero - anche nello scisma di Occidente. Questa “catastrofe per la teologia e per la storia della chiesa” può essere fatta risalire anche al teologo papale di corte Silvester Prierias, che come posizione di Roma di fronte ai riformatori affermò: eretico è chi contesta il fatto che anche la Sacra Scrittura ha forza e autorità (robur et auctoritatem) solo sulla base dell’insegnamento del vescovo di Roma”.

Considerare la Scrittura non più come criterio per la giusta credibilità del papa, ma porre quest’ultimo al di sopra della Scrittura, era inaccettabile per Lutero e lo fece addirittura parlare del papa come “anticristo”, ricorda Pesch.

È vero che la tesi del Prierias non è affatto una dottrina della Chiesa e neppure è coperta dal dogma del Concilio Vaticano I sul primato di giurisdizione e insegnamento del papa. Ma - è la critica di Pesch - una presa di distanza dalle posizioni del 1518 che sono servite come base del processo romano contro Lutero, a tutt’oggi non c’è ancora stata.