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Ultimo aggiornamento: April 11 2011 19:55:24.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/4/2011 16.51
Titolo:Il padrone e i poteri sudditi - di Nadia Urbinati ...
Il padrone e i poteri sudditi

di Nadia Urbinati (la Repubblica, 11.04.2011)

La legge della natura delle cose contro le norme della giustizia: la forza del più forte contro quella della legge. Una storia che si ripete da secoli ma che ogni volta che riappare sembra nuova, inedita e diversa. Le recentissime esternazioni del presidente del Consiglio sono un florilegio da manuale sul rischioso cammino nel quale una democrazia si immette quando consente a un cittadino che ha acquistato già troppo potere economico e mediatico di coprire incarichi di governo.

Il rischio si sta dimostrando fatale, soprattutto perché viviamo nell’era della audience leadership, dove la propaganda viaggia non più attraverso partiti strutturati ma invece il fluido mondo delle immagini e delle opinioni dette e non falsificabili. Antico e moderno si uniscono tuttavia, poiché nonostante la forma mediatica e da gossip con la quale si alimenta il plebiscitarismo di oggi, la sostanza e la tentazione restano le stesse, poiché, dopo tutto, la natura umana è fatta delle stesse passioni, in primo luogo quelle che spingono a ottenere il "massimo" di godimento da ciò che piace: dal potere di comandare masse di sudditi facendo loro bere ciò che è non è nel loro interesse e come se lo fosse, a quello di gestire un commercio largo e capiente di procuratori e procuratrici di piacere.

Però, nonostante la natura immoderata del potere, sarebbe sbagliato pensare che il plebiscitarismo si sorregga solo sul potere del leader, che tutto nel bene e nel male sia a lui solo imputabile. Nessun regime si sorreggerebbe più di una manciata di ore senza il sostegno di un gruppo di fedeli e senza consenso. Il plebiscitarismo nasce del resto nella democrazia, che è una forme di governo fondata sul consenso.

Dunque, partiamo da questa ovvietà: nessun governo può sussistere senza consenso. Nemmeno i tiranni possono permettersi il lusso di stare al potere senza fare affidamento su un qualche sostegno da parte dei loro sudditi; diversamente dovrebbero mettere un guardiano a sentinella di ciascun suddito con la conseguenza di trasformare il paese in una caserma.

A questo inconveniente i governi totalitari hanno provveduto facendo dei sudditi docili militanti dell’ideologia di governo. Ecco dunque che la differenza tra Paesi governati dispoticamente e Paesi liberi non consiste semplicisticamente nel fatto che questi ultimi sono governati per mezzo dell’opinione mentre i primi per mezzo della forza. Entrambi sono, in forme e con intensità diverse, governati anche grazie al sostegno dell’opinione e del consenso di chi occupa le istituzioni. I governi autocratici cadono quando l’élite di governo si fraziona e rompe il consenso, come avvenne appunto con il Gran consiglio fascista il 25 luglio 1943. I governi liberi, invece, cadono quando il Parlamento toglie la fiducia alla maggioranza che governa.

La differenza fra i due tipi di regimi sta nel fatto che in quelli dispotici i sudditi obbediscono a un potere il quale non è certo che sia espressione della loro opinione poiché non godono della libertà di gridare forte il loro dissenso; mentre nel caso dei governi liberi cittadini ed eletti sanno di essere consapevolmente e volontariamente, in forma diretta o indiretta, gli agenti e i sostenitori del governo che hanno. È a questi ultimi che dobbiamo dirigere la nostra attenzione quando parliamo di plebiscitarismo democratico, nel quale dunque la responsabilità del consenso è principalmente imputabile a coloro che sono stati eletti e operano nelle istituzioni.

Il Parlamento ha una responsabilità diretta nelle persistenza del governo democratico. Lo si è visto molto bene con la recente votazione sul caso Ruby o quella sulla fiducia del dicembre scorso. In entrambi i casi, il Parlamento ha dismesso una delle sue due funzioni fondamentali, quella per la quale la sua presenza è segno distintivo della nostra libertà: la funzione di veto.

Poiché il rapporto del Parlamento con l’esecutivo non è né di predellino né di copertura. I parlamentari hanno infatti mandato libero e nessuno, nemmeno il capo del loro partito, può costringere la loro volontà decisionale: su questa loro libertà sta la doppia funzione del Parlamento, quella deliberativa ovvero di produrre una maggioranza e quella di veto o limitazione del potere del governo. Il Parlamento non è mai un docile e passivo sostenitore del governo. Quando dismette la sua funzione di veto, esso diventa cassa di risonanza del governo e spalanca le porte al plebiscitarismo che la propaganda mediatica rinforza quotidianamente. Come l’opinione pubblica, il Parlamento diventa un potere docile nelle mani del leader.

Il presidente del Consiglio è consapevole di avere in mano il Parlamento quando riesce a neutralizzarne il potere di veto. Sa anche che due altri poteri di fermo gli sfuggono ancora di mano: la Presidenza della Repubblica e la giustizia. Da questa consapevolezza scaturiscono le sue recentissime esternazioni: cambiare la Costituzione per rendere tutti i contro-poteri docili al suo potere.

Di fronte a questo rischio evidente, il Parlamento dovrebbe sentire la responsabilità del suo ruolo poiché è un fatto che nella democrazia elettorale i governi non dovrebbero cadere con la mobilitazione delle piazze, ma nel Parlamento. È possibile rendere il rischio gravissimo che sta di fronte alla nostra già compromessa democrazia costituzionale in questo modo: al Parlamento spetta il compito di riprendersi la sua completa autonomia, che è di rendere possibile una maggioranza e di fungere da veto. Più ancora, di impedire che tutti i poteri di veto e di controllo siano resi docili e addomesticati.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/4/2011 19.55
Titolo:La Chiesa non può essere “neutra” (al fianco del potere) quando il paese precipi...
La proposta dei vescovi sui “problemi cruciali” é il “consolidamento di una democrazia governante”, vale a dire prevalenza dei poteri sui diritti, rafforzamento dell’esecutivo, sistema elettorale maggioritario, legge che regoli la democrazia interna ai partiti: ma i padri della Costituzione l’avevano respinta, allora che neutralità é?

La Chiesa non può essere “neutra” (al fianco del potere) quando il paese precipita nella disperazione

di Raniero La Valle *

C’è un caso serio che si è aperto nella Chiesa italiana e nella stessa comunità civile. È un’agenda di “problemi cruciali” e di cose da fare (detta “un’agenda di speranza per il futuro del Paese”) che è stata presentata dai vescovi a conclusione della recente Settimana Sociale dei cattolici tenutasi a Reggio Calabria. Che qualcuno si preoccupi di quel che ci sarebbe da fare in questo povero Paese per riaprire i cuori alla speranza è certamente una cosa positiva, come è positivo dire che tra le cose più ragionevoli e giuste da fare ci sia di accogliere gli stranieri.

È motivo però di grande sconforto e allarme trovare che i “primi temi” indicati siano quelli attinenti al “consolidamento di una democrazia governante” (espressione che nell’attuale gergo politico indica la prevalenza dei poteri sui diritti) e che questi temi vengano identificati così: a) rafforzamento dell’esecutivo; b) sviluppo del federalismo; c) sistema elettorale maggioritario; d) bipolarismo; e) legge che disciplini la vita dei partiti e ne regoli la democrazia interna (ipotesi discussa, ma respinta, alla Costituente); e tutto ciò in una “forma di governance” che si preferisce definire “poliarchica” invece che democratica, con un richiamo non pertinente a Benedetto XVI che nell’enciclica “Caritas in veritate” usava sì il termine “poliarchico”, ma non per incoraggiare una frammentazione feudale dei poteri negli ordinamenti interni, bensì per sostenere una pluralità dei poteri sul piano internazionale, contro il mito di un unico governo mondiale e di un unico Impero.

In questo complesso di tesi e di programmi politici proposto ora dai vescovi è riconoscibile l’ideologia propria di un gruppo minore del Partito democratico vicino a Veltroni; ma la Chiesa che c’entra? L’opzione che essa in tal modo propone all’Italia si presta in effetti a due gravi critiche, una nel merito, l’altra nel metodo. Sul piano del merito la piattaforma politica avanzata dalla Conferenza episcopale sembra non tenere conto della drammaticità della situazione italiana, oggi dominata da un potere oltracotante e corruttore, che non viene mai nominato, grazie alla scelta indicata dal Rettore della Cattolica, Ornaghi, di fare un’analisi intenzionata a “restare neutra rispetto agli schieramenti politici”.

Ora, nell’astrazione di un Paese assunto senza schieramenti politici, senza partiti, senza alcun giudizio sulle pratiche del governo in atto, sulle sue politiche e le sue leggi, l’idea della CEI è che sia “indilazionabile il completamento della transizione istituzionale”, nel senso indicato di una prevalenza dell’esecutivo, del maggioritario, del bipolarismo, del federalismo. Invece, sulla base dell’esperienza disastrosa dell’ultimo ventennio molti italiani pensano a un ripristino della rappresentanza, a una riabilitazione del Parlamento, a uno sviluppo del pluralismo delle culture politiche e dei partiti, e ad elezioni veritiere basate su un voto libero ed eguale.

Siamo, certo, nell’opinabile. Ma rispetto ai fini specifici della Chiesa ragioni non troppo opinabili dovrebbero spingerla a opzioni opposte a quelle adottate: il bipolarismo, nella settaria versione italiana, ha rotto infatti l’unità spirituale del Paese, ha spronato a una legislazione e a provvedimenti amministrativi spietati contro la vita degli stranieri (anche quella nascente), ha seminato rancore ed odio, e lascia per cinque anni incontrollato il governo anche se decide guerra, politiche di impoverimento e nucleare. Inoltre, con la complicità del maggioritario, ha separato dalla politica il movimento cattolico ed esclude ogni forma di partecipazione autonoma dei cattolici alla competizione tra i partiti.

Sul piano del metodo la pronunzia ecclesiastica si presenta come fatta in nome di “noi tutti come Chiesa e come credenti, chiamati al grande compito di servire il bene comune della civitas italiana”; e benché formalmente il documento sia riconducibile al Comitato organizzatore della Settimana, esso è stato approvato dal Consiglio permanente della CEI, mentre lo stesso Comitato è un’articolazione permanente della Conferenza episcopale, presieduto com’è da un vescovo nominato da lei e incaricato com’è di monitorare il seguito da dare alla Settimana mettendosi in relazione, quasi come alto Direttorio, con “le diverse forme di presenza capillare dei cattolici nella società italiana”.

Il documento, come è proprio dei migliori documenti ecclesiastici, chiama a testimoni apostoli, evangelisti e profeti, fa appello al tesoro dell’attuale magistero pontificio ed episcopale, chiede conferma al Concilio, unisce cielo e terra, eucaristia e politica, si rivolge non a una parte, ma a tutti i cattolici e a tutti gli italiani, e parla in nome della fede. Ma in base a quale carisma sceglie tra l’una o l’altra legge elettorale e forma di governo, e in base a quale sussidiarietà si sostituisce, nel dettare l’agenda politica, alla responsabilità dei cattolici come cittadini, così come dei cittadini non cattolici?

* domani.arcoiris.tv, 11-04-2011