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LA LEZIONE DI SARAMAGO. "COME scrittore, credo di non essermi mai separato dalla mia coscienza di cittadino". Un suo inedito con interventi e interviste di Oreste Pivetta, Vincenzo Consolo, e Roberto Saviano,a cura di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: July 08 2010 18:05:22.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/6/2010 17.27
Titolo:CONTRO SARAMAGO, L'OSSERVATORE ROMANO - OVVIAMENTE!!!
LA POLEMICA

il Vaticano contro Saramago

"Un ideologo anti-religioso"


Il giornale della Santa Sede critica in particolare il "Vangelo secondo Gesù", opera controversa, attraverso la quale il premio Nobel lanciò una "sfida alla memorie del cristianesimo" *

ROMA - Josè Saramago "è stato un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo", si legge questo oggi sull'Osservatore Romano, in un articolo, "L'onnipotenza (presunta) del narratore" che ricorda come il poeta portoghese morto ieri a 87 anni 1, avesse scelto "lucidamente" di autocollocarsi "dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano".

Lo scrittore "si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle 'purghe', dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi". Il giornale della Santa Sede critica in particolare il "Vangelo secondo Gesù", un'opera controversa, attraverso la quale il premio nobel lanciò una "sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sè se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva".

"Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce - conclude l'articolo - la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo".

Le spoglie dello scrittore portoghese da Lanzarote, isola delle Canarie dove risiedeva dal 1991, sono state portate a Lisbona, dove si terranno le esequie. Lo ha reso noto la fondazione Saramago. Ad accompagnare il feretro a bordo di un c130 dell'aeronautica militare portoghese, c'erano la vedova e il figlio, oltre al ministro della Cultura, al suo biografo e a diversi parenti e amici. La cremazione si terrà domani intorno a mezzogiorno.

Poeta, romanziere e giornalista, Saramago è stato l'unico autore di lingua portoghese ad avere ricevuto il premio nobel per la letteratura. Il suo primo romanzo - che non ebbe successo - fu "Terra do pecado" del 1947; dopo 30 anni di silenzio uscì "Manuale di pittura e calligrafia", vero inizio di una carriera letteraria riconosciuta a livello internazionale con "L'anno della morte di Ricardo Reis" (1984) e culminata con il premio nobel vinto nel 1998. Ateo dichiarato, ebbe problemi con il governo portoghese che rifiutò di presentare il suo "Vangelo secondo Gesù Cristo" al premio letterario europeo, abbandonando per protesta il Paese e trasferendosi a Lanzarote.

* la Repubblica, 19 giugno 2010
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/6/2010 18.13
Titolo:CONTRO UN ATEO NON DEVOTO, LA STRONCATURA DELL'ORGANO DEL CATTOLICESIMO ATEO-DE...
È morto José Saramago

L’onnipotenza (presunta) del narratore

di Claudio Toscani

"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile".

Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l’abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.

"Saramago", cognome aggiunto all’anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l’editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l’iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche.

Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all’autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all’oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l’impronta ideologica d’eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette.

Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l’elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un’onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell’arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso.

E per quel che riguardava la religione, uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa.

Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande. Ma non per lui.

Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s’è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell’opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L’anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell’oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell’assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l’evento, più per gioco che per convinta ideologia.

È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l’altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l’universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva.

Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo.

Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell’etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell’isola sconosciuta (1998), parabola sull’uguaglianza dell’uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L’uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale.

Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l’autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso.

Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall’itinerante carovana di Il viaggio dell’elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all’inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull’ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto.

Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all’ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell’evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell’inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.

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(©L’Osservatore Romano - 20 giugno 2010)
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 08/7/2010 18.05
Titolo:Cecità: un’epidemia collettiva ...
Cecità: un’epidemia collettiva che porta verso la più sfacciata volgarità

di Norberto Lenzi *

Qualche settimana fa è morto Josè Saramago, uno dei più grandi scrittori di sempre. Dopo aver subito il prevedibile ostracismo dalle case editrici di Berlusconi, la sua memoria è stata brutalmente calpestata dall’Osservatore Romano con accenti di un’asprezza così rancorosa da apparire insolita perfino per un giornale che non ha mai risparmiato rampogne verso chi manifesta la sua laicità.

Uno dei suoi libri più belli e più originali si intitola Cecità. In una città qualunque, di un paese qualunque, un guidatore sta fermo al semaforo in attesa del verde quando si accorge di aver perso la vista. All’inizio pensa che si tratti di un fenomeno passeggero, poi passa attraverso un crogiuolo di emozioni che vanno dalla incredulità, alla speranza, alla disperazione.

È l’inizio di un’epidemia che colpisce progressivamente tutta la città e l’intero paese creando un’emergenza per cui i ciechi vengono rinchiusi in un ex manicomio e lì vivono nell’abbrutimento più totale, sorvegliati a vista da soldati armati che non esitano a sparare contro quelli che tentano di fuggire. Quella condizione scatena nei più gli istinti peggiori, l’individualismo più esasperato, la sopraffazione dei più deboli.

Si tratta di un’allegoria spietata su quanto può accadere quando il vivere sociale riceve una turbativa che allontana la comunità dalle regole e crea spinte selvagge alla realizzazione egocentrica degli interessi individuali, condotta fino alla soppressione fisica di chi potrebbe contenderli. Poi, inspiegabilmente come si era manifestata, l’epidemia si risolve, tutti riacquistano la vista e constatano quanta desolazione e quante macerie quello stato collettivo aveva provocato.

Nel nostro Paese, invece, la perdita della vista è stato un lento fenomeno progressivo, con obnubilamenti inizialmente lievi, a volte perfino soavi, come l’attesa di una riduzione delle tasse, fino a raggiungere incredibilmente la cecità totale proprio in concomitanza con la caduta di ogni speranza sulla realizzazione di tale appetitosa promessa.

Dante sistemava all’Inferno chi praticava “lunga promessa con l’attender corto”, ma Berlusconi ha scalato il Paradiso grazie alla procurata cecità collettiva sulla truffaldina condotta di un fedifrago costituzionale. Un’atrofia visiva che impedisce ancora oggi, nonostante la lunga teoria di escort, penose esibizioni fotografiche con ballerine di lap-dance, goffi e volgari corteggiamenti di sconcertate signore all’estero, di riconoscere che questo non può essere un Presidente del Consiglio di un paese civile ma, al massimo, la risposta italiana a Bokassa.

Nel libro di Saramago un’unica donna era riuscita miracolosamente a conservare la vista e non lo manifestava agli altri per pudore e per timore, pur guidandoli nell’assillo delle necessità quotidiane. Da noi fortunatamente sono ancora molti le donne e gli uomini che sono riusciti a conservare questo indispensabile senso. Alcuni anzi, come avviene in certe situazioni nel mondo animale che stimolano l’istinto di conservazione della specie, sono riusciti perfino ad acuirlo.

È a questi che dovremo affidarci nel presente e nel futuro perché tutti questi ciechi, come nella parabola di Bruegel, non finiscano nel precipizio. Dicono che noi pensionati abbiamo una fastidiosa propensione all’apologo. Spero invece che si tratti di una felice disposizione alla profezia. Ha detto Falcone che la mafia, come tutti i fenomeni umani, deve avere un inizio e una fine.

Così dovrà essere anche per Berlusconi.

* DOMANI ARCOIRIS, 08-07-2010