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PIANETA TERRA: IL 20 LUGLIO 1969, CON ARMSTRONG, ALDRIN E COLLINS, I TERRESTRI VEDONO DALL'ESTERNO - PER LA PRIMA VOLTA - LA LORO CASA,a cura di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: July 18 2009 17:27:19.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/7/2009 16.19
Titolo:L’uomo, la Luna e l’inno sofferto di Padre Turoldo - di Marco Roncalli
Ricorrenza

L’uomo, la Luna e l’inno sofferto di Padre Turoldo

di Marco Roncalli *

«Bellissima cosa e mirabilmente piacevole, vedere il corpo della Luna... », quando, quattro secoli fa, puntato il cannocchiale a contemplarla con nuovi occhi, Galileo Galilei scriveva nel «Sidereus Nuncius» queste righe, i suoi avversari parlavano di un’allucinazione: più o meno come quelli che continuano a dubitare del primo allunaggio, quarant’anni fa, vedendo in esso il «primo assaggio di realtà virtuale» .

Sgombrato il campo dalle teorie dei complotti a colpi di effetti speciali, resta il fatto che l’inizio della colonizzazione umana del cosmo, cominciata con il satellite vicino alla Terra, avvenne nel clima di guerra fredda tra Urss e Usa con investimenti pazzeschi a sostegno di una sfida che esigeva la vittoria e per gli americani ancor più che la guerra in corso nel Vietnam.

E così finì che persino l’astro irraggiungibile cantato nei secoli da Saffo a Leopardi, o da Rabindranath Tagore a Federico García Lorca, venne addirittura calpestato da due coraggiosi astronauti - Neil Armstrong e Buzz Aldrin - che consegnarono agli Usa con il loro balzo sul suolo lunare il ruolo di prima potenza mondiale.

Oggi però rivedere le sequenze filmate di quel repertorio provoca, oltre alle emozioni di ieri, qualche interrogativo in più che nell’ubriacatura del revival di questi giorni non sempre ha trovato... spazio. E non ci riferiamo al fatto che lassù l’uomo, nonostante progressi tecnologici incredibili e il perdurante bisogno di possibili fonti energetiche, non ha voluto rimetterci piede. Né alla crisi economica globale che farebbe sembrare assurda un’altra simile assai onerosa conquista, ritenuta ambigua già quatto decenni fa da chi anelava pane per gli affamati invece che pietre seppure lunari («Non credere, America, che ti si possa perdonare / perché sei approdata sulla Luna: / altri comporranno infiniti pena / all’avvento dell’era nuova. / Non io, pur commosso e lacerato a un tempo / dal rimorso di essere uno dei tuoi: / non io, che sarei maledetto, soffocando / la consapevole impotenza degli umili...» , scrisse padre Davide Turoldo nella sua elegia per il 21 luglio 1969).

No. Piuttosto, ci riferiamo ad alcune immagini. Una fra tutte quella dell’astronauta che posa la bandiera a stella e strisce sulla luna e che - indirettamente - suggerisce l’idea di chi fissa la sua sovranità, quasi a rivendicare un dominio, benché il diritto aerospaziale lo escluda nettamente. Infatti - ed è anche questo il bello della luna -, il Trattato del ’ 67, l’Outer Space Treaty, afferma cose poco note, ma assai interessanti. Ad esempio che « lo spazio extra atmosferico, ivi compresa la luna, [...] può essere esplorato e liberamente, senza alcuna discriminazione » (articolo 1). Anzi dice di più: «Anche realizzando una base lunare permanentemente abitata si potrà al massimo rivendicare la propria sovranità entro la base stessa» (articolo 2).

E non è finita; ecco cosa recita l’articolo 4: « Sono vietati sui corpi celesti l’apprestamento di basi e installazioni militari, di fortificazioni, la sperimentazione di armi di qualsiasi tipo e l’esecuzione di manovre militari » . Mi chiedo perché certe regole che valgono sulla luna non debbano valere su questa terra dove, fra l’altro, sarebbe quanto meno più facile o frequente il poterle applicare. Me lo chiedo ingenuamente pensando che da noi viene respinto chi calpesta il patrio suolo anche se fugge dal suo Paese solo per sopravvivere e, in fin dei conti... non vuole mica la luna.

* Marco Roncalli (Avvenire, 17 Luglio 2009)
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/7/2009 17.27
Titolo:NEW YORK. Obama ai giovani afroamericani

Il presidente alla Naacp, la più antica associazione per i diritti dei neri
"Non voglio che i nostri figli aspirino solo di diventare rapper o giocatori di basket"

Obama ai giovani afroamericani
"Studiate per diventare giudici"

dal nostro inviato ANGELO AQUARO *

NEW YORK - Quando Barack Obama si è ribellato, finalmente, all’ultimo padrone, quel tele-prompter, il gobbo, che gli confeziona i discorsi più convincenti, la gente, la sua gente giù in platea, è esplosa in un boato: "Guido per Harlem", ha urlato andando a braccio "scendo per il South Side di Chicago, vedo tutti quei ragazzi buttati agli angoli delle strade, e allora dico: potrei essere io, lì, ma grazie a Dio è andata diversamente". Grazie a Dio, e per volontà della nazione.

Nella sala dell’Hilton Hotel, addobbata di festoni e palloncini per i cent’anni del Naacp, la più antica associazione per i diritti civili, Obama riscopre l’orgoglio nero. "Noi lo sappiamo: anche se la crisi economica colpisce gli americani di ogni razza, tra gli afroamericani ci sono più disoccupati". Boato. "Sembra un sermone", chioserà il New York Times, e infatti i delegati cominciano a fargli eco con il classico "amen" delle funzioni religiose: l’origine del blues. Se ne accorge, Obama. "Ehi", scherza "ho creato un angolo della preghiera".

In campagna elettorale, nei primi cento giorni, il presidente non aveva mai esaltato le sue origini. Anzi. Ora gli analisti sottolineano che mai come adesso, stretto tra la crisi, le riforme che reclamano nuove tasse e le critiche per la scelta della latina Sotomayor alla Corte Suprema, il presidente ha bisogno del sostegno della comunità nera, magari nella forma lobbistica che il Naacp, 300 mila iscritti e 30 milioni di budget, può garantire. "Make no mistake", dice il presidente: non facciamo errori, non illudiamoci. "Il dolore della discriminazione è ancora sentito in America". Dice cose di sinistra, Obama. Parla di responsabilità. "Allontanate dai nostri figli l’Xbox, metteteli a letto presto. Non possono tutti aspirare a essere il prossimo Le Bron o Lil Wayne", dice, additando i due miti, del basket e del rap, dei giovani.

"Io voglio che i nostri figli aspirino a diventare scienziati e ingegneri dottori e insegnanti, non solo giocatori di basket e rappers. Io voglio che i nostri figli aspirino a diventare giudici della Corte Suprema. Io voglio che aspirino a diventare presidente degli Stati Uniti". In sala c’è ancora chi urla "Amen".

* la Repubblica, 18 luglio 2009