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"CAPPELLA SISTINA" IN PERICOLO.,di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: May 21 2013 19:50:52.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 14/3/2012 08.17
Titolo:ANALFABETISMO FUNZIONALE. Noi, analfabeti seduti su un tesoro ...
Noi, analfabeti seduti su un tesoro

di Armando Massarenti (Il Sole-24 ore/Domenica, 11 marzo 2012)

Due dati dovrebbero impressionarci come italiani, se vogliamo vederci (anzi, diciamo pure, venderci) come cittadini del mondo. Il primo è quello che riguarda la strepitosa immagine positiva che ancora siamo in grado di diffondere all'estero. Chiunque di noi si presenti come italiano in un qualunque ambiente di New York, Parigi, Tokyo, Pechino, Singapore, non riceverà che elogi e espressioni di ammirazione.

Perché? Perché nonostante tutto il nostro brand va fortissimo. E di che cosa è fatto questo brand? Vi sembrerà strano ma la parola che lo riassume è una sola: Cultura. Noi siamo il Paese della Cultura. Ovunque nel mondo. Nel mondo che conta e che si arricchisce. Lo dico con un'enfasi che non è la mia (e neppure l'uso disinvolto di parole del marketing come brand lo è, ma è per intendersi), perché non amo la retorica e per me cultura è anche tante altre cose assai più piccole (è anche ingegnosità minuta, fumetti, videogiochi, grafica, artigianato) e anche meno piccole ma in genere poco amate dagli umanisti: scienza, diritto, economia. Ma c'è poco da fare: è quello il brand che, quando siamo bravi, riusciamo a vendere, e dobbiamo andarne fieri. Anche nelle piccole cose: nel nostro design, nelle nostre automobili, nel nostro abbigliamento, nei nostri orologi di lusso, nei nostri mobili, in tutto il made in Italy c'è un riverbero della nostra gloriosissima storia, in un'immagine in cui lo straniero vede tutta la grandezza dell'antica Roma e del nostro Rinascimento, che condisce con i nostri musicisti, gli inventori dell'Opera lirica, i poeti, i grandi navigatori, i fondatori della scienza galileiana, cioè di quel metodo che è alla base del prodigioso progresso tecnico-scientifico degli ultimi quattro secoli in Europa e nel mondo. Ma di questo si parla nelle pagine centrali di questo numero, dove si può vedere bene, dati alla mano, che nei casi migliori la cultura «fattura», anche al nostro interno, nelle nostre regioni e province.

Passiamo dunque al secondo dato che dovrebbe impressionarci. Anzi, in questo caso, allarmarci. Noi italiani appariamo come primi ‐ primi assoluti! ‐ in una ben poco encomiabile lista. Tutto il mondo la può leggere e stupirsene. È pubblicata nella voce «functional illiteracy» di Wikipedia (la voce corrispondente «analfabetismo funzionale» non c'è nella versione italiana di Wikipedia, qualcuno la allestisca!), e dice che il 47 per cento degli italiani dai 14 ai 65 anni ha forti deficienze nella semplice comprensione di un testo. All'Italia seguono il Messico (43,2%), l'Irlanda (22,6%), Gran Bretagna (21,8), Usa (20), Belgio (18,4) giù giù (anzi su su) fino alla alfabetizzatissima Svezia (7,5%!).

Il 47 per cento di analfabeti vi sembra un'esagerazione? Prima di allarmarci potremmo provare a consolarci in due modi. Primo: obiettare che i dati della voce di Wikipedia si fermano al 2003. Magra consolazione. Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ci ha ricordato, nel suo recentissimo Investire in conoscenza e sul Sole 24 Ore-Domenica di due settimane fa, che negli anni successivi gli analfabeti funzionali sono saliti all'80%! E un allarme simile è confermato da uno dei nostri massimi linguisti, Tullio De Mauro. Anche la tv, dopo aver fortemente contribuito alla crescita e unificazione linguistica del Paese, ora sta assecondando il movimento opposto.

Secondo modo di consolarci: si tratta di «analfabetsimo funzionale» e non di analfabetismo tout court, dal quale siamo usciti con un grande sforzo collettivo con la ricostruzione del secondo dopoguerra. Magra, magrissima consolazione anche questa, alla quale si può rispondere con la famosa battuta di Eugenio Montale, che aveva già capito tutto: «Il rapporto tra l'alfabetismo e l'analfabetismo è costante, ma al giorno d'oggi gli analfabeti sanno leggere». Sanno leggere 'tecnicamente', nel senso che per lo più riconoscono i caratteri, e sanno maldestramente far di conto. Peccato che nell'80 per cento dei casi non capiscano quello che leggono e non dispongano di quel minimo di attrezzatura intellettuale utile a orientarsi nel mondo. Non sono in grado per esempio di capire e compilare un modulo in cui vengano richieste non solo informazioni anagrafiche, ma anche riguardanti la propria posizione professionale, previdenziale o fiscale. E se nei paesi civili la media dei cittadini di questo tipo si assesta sul 20%, da noi le percentuali sono invertite!

Dove può andare il Paese più ricco di opere d'arte del mondo, che futuro può immaginare per il suoi giovani, per la qualità della vita, per riattivare quel «circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione», se parte da questa miserevole dotazione di capitale umano?

Mettendo insieme le due immagini ‐ quella del brand e quella dell'analfabetismo ‐ viene da pensare al grande illuminista tedesco Ephraim Lessing, il quale suggellò il suo Grand Tour con una favola in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un cavallo esclamano: «Da quale nobile animale abbiamo tratto origine!». Quanto gli italiani sappiano diventare boriosi proprio in ragione della loro storia e al loro patrimonio lo ha poi ribadito un altro filosofo. «Il tratto principale del carattere nazionale degli Italiani - annotava Arthur Schopenhauer in un Taccuino del 1823 - è un'assoluta spudoratezza. Che consiste in questo: da un lato non c'è nulla di cui non ci si ritenga all'altezza, e quindi si è presuntuosi e arroganti; dall'altro non c'è nulla di cui ci si ritenga abbastanza esperti, e quindi si è codardi. Chi ha pudore, invece, è troppo timido per alcune cose, troppo orgoglioso per altre. L'Italiano non è né l'uno né l'altro, bensì, a seconda delle circostanze, o è pavido o è borioso».

Oggi dobbiamo avere l'umiltà di ricominciare da capo, di ripensare i saperi e le competenze, e acquisire piuttosto la consapevolezza di essere degli analfabeti seduti sopra un tesoro, sempre di più privi di quegli strumenti di base che ci permetterebbero non solo di capire, ma anche di far fruttare i formidabili talenti che ci circondano.

Smettiamola, con il nostro turismo d'accatto, di presentarci come degli straccioni che a un certo punto scoprono di avere il Colosseo (oggi usato come una specie di rotatoria per le automobili) e cercano di mungerlo il più possibile, senza aggiungerci nulla in termini di innovazione, intelligenza, conoscenza, capitale umano. Totò che vende la fontana di Trevi a un turista americano è un'altra immagine appropriata, e ancora attuale. Ci fa ancora ridere. Ridiamoci pure sopra. Ma allarmiamoci anche, perché Totò ci sta dicendo ancora la verità. Abbiamo capito che quell'opera ha un valore inestimabile, ma ne capiamo sempre meno il significato, mentre è proprio questo che gli altri Paesi civili ed emergenti comprendono e apprezzano, e spesso sfruttano economicamente, con maggiore lungimiranza, al nostro posto.

Ecco allora il vero senso di emergenza che il nostro Manifesto per la cultura vuole imprimere ai decisori pubblici attuali, e al Governo intero, che non possono sottrarsi a questa enorme responsabilità storica solo perché da trent'anni i loro predecessori lo hanno fatto. Il senso dell'urgenza sta in quei dati agghiaccianti, in quel misero 20% di italiani (8 milioni circa) che dispone di strumenti di lettura e scrittura minimi indispensabili. Siamo in gravissimo ritardo nel quadro internazionale e nell'ambito di una società globalizzata cosiddetta della «conoscenza». Se poi aggiungiamo i dati relativi ai ragazzi di 15-16 anni dei famosi test Pisa c'è da allarmarsi ancora di più.

Dunque prima ancora che dalla Cultura, partiamo dalle sue basi, dall'istruzione, e ripensiamola nei termini dell'unico possibile investimento per il nostro futuro dopo la crisi. Prendiamo il coraggio ‐ e i dati ‐ a due mani e diamoci da fare. Io sono certo, con la maggior parte di voi, che impegnandoci un po' possiamo tranquillamente dimostrare che Lessing e Schopenhauer avevano torto.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 16/3/2012 10.39
Titolo:UN VIAGGIO IN COMPAGNIA DI DON GIUSEPPE DE LUCA ...
UN VIAGGIO:

SUI LUOGHI DELLA METAFISICA. IN COMPAGNIA DI DON GIUSEPPE DE LUCA **

Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che mai nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata; e sì che vi si è a distanza pari, lassù, tra l'Adriatico, lo Ionlo, ll Tirreno, e io fanciullo coi pastori spiavo se, di tra una radura e l'altra della sommità più alta, si vedessero in lontananza scintillare insieme le tre marine); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano, non appena oltrepassato il crinale che il Vallo separa dalla vallata del Pergola, d'ún subito scoprivo, là sulla costa di fronte, il mio paese nel sole, e poco più giù sulla destra il camposanto, dove dorme colei che, dando in cambio la vita sua per la mia, mi fece uomo; e accanto ad essa, dorme il prete che fece me prete.

Voi direte: il Pergola, peuh! gran fiume che è! e poi anche la valle di cotanto fiume, e poi... Adagio, lettore. Da quei monti dietro il mio paese, da quelle faggète, scende il Melandro; il Melandro per ùna matassa lenta di andirivieni va a riversarsi nel Pergola, il Pergola nel Tanagro; e così, dolce dolce, una valle appresso all'altra ora costeggiando l'uno ora.l'altro paese, antiquos subterlabentia muros, quei magri fiumi si gettano alla fine nel Sele

[nei pressi della stazione ferroviaria del Comune di CONTURSI, fls],
e il Sele entra nel mare a Pesto, dove I'acqua del mare serba ancora una sua certa luce: poco più su insomma dell'antica Elea, dove nacque un giorno la metafisica, come sullo Ionio a Metaponto, ora coltivata ma sempre solitaria, nacque un giorno la filosofia religiosa.

Lettor mio, vuoi proprio levarti la voglia e il gusto di darci di "area depressa"? Padrone. Io pure, rintronato sin da fanciullo tra nomi come Melandro, Tanagro, Sele, Palinuro, Elea, Metaponto, anche io mi sento quando perplesso e quando depresso. Non forse in quel senso che dici tu, ma è un fatto, sento che mi opprime, quasi un peso troppo grande, il peso di tre millenni continuati nella luce della civiltà; e se non ti dispiace, mi sento turbare tutte le volte da quelle terre, quei cieli,.quei boschi, quelle acque, quei luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Tutte le volte. Te ne accorgerai tu pure, un giorno non lontano *.

*

Questo è il paesaggio in cui si trova Contursi Terme, e questo è il sorprendente avvio dell'articolo, intitolato Ballata alla Madonna di Czestochova ("Osservatore Romano", 25.2.1962), scritto da don Giuseppe De Luca (su invito di Giovanni XXIII, in occasione della visita a Roma del primate polacco, il cardinale Wyschinski), a meno di un mese dalla sua repentina morte avvenuta il 19.3.1962 (cfr. "Bailamme", nn. 5-6, 1999, pp. 11 e sgg.). Egli era nato a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, il 15.09.1898, da una famiglia contadina.
Della sua instancabile e preziosa attività culturale, degna di nota (per i problemi qui trattati) è la cura e la risrampa, accresciuúa con ricchi dati bibliografici, della dissertazione del 1907 di Angelo Roncalli su Il Cardinale Cesare Baronio. Per il terzo centenario della morte, cfr. Angelo Roncalli, Il Cardinale Cesare Baronio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961.

** Cfr. Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. Note sul "poema" rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996, pp. 14-15.
Autore Città Giorno Ora
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/3/2012 19.28
Titolo:IL VIAGGIO DI OGNUNO E DI OGNUNA - IL VIAGGIO DI "ADAMO" ...
La Commedia di ognuno di noi

di Carlo Ossola (Il Sole -24 Ore, 18 marzo 2012)

Siamo stati formati dalla critica a pensare alla Divina Commedia come «viaggio a Beatrice» (così suona il titolo del celebre saggio di Charles S. Singleton, Journey to Beatrice, 1958). Il fedele d'Amore mantiene la promessa che chiudeva la Vita nova: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei». Beatrice appare nel Paradiso Terrestre, al sommo della montagna del Purgatorio, ivi trionfa e ivi nomina, per la prima volta nella Commedia, Dante: «Quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra» (Purg., XXX, 62-63). La teoria romantica che da Rossetti a Gourmont ha ispirato la lettura del poema trova qui il suo sigillo.

Ma molti ostacoli presenta tuttavia una lettura siffatta: il primo ed evidente è che Dante si fa lì nominare per essere aspramente rimproverato da Beatrice: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57). Anche a voler ammettere che Dante si pieghi a un gesto di umiltà, e poi ascenda gloriosamente con Beatrice al Paradiso, sul più bello - come si dice in maniera colorita ma calzante - Dante si fa poi abbandonare da Beatrice: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose» (Par., XXXI, 58-60).

La guida al mistero e alla visione finale sarà san Bernardo: su questo "transito" Jorge Luis Borges ha scritto pagine finissime e non resta che rinviare ai suoi Nove saggi danteschi. L'ipotesi romantica rimane monca e toglie anzi grandezza al «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 1-2), toglie spessore alla lettura allegorica del testo che Dante difende spiegando, nell'Epistola a Cangrande, e citando nel poema il salmo In exitu Isräel de Aegypto (Purg., II, 46).

Occorre prendere sul serio il testo e ritornare a una ipotesi già avanzata dal Boccaccio e dai primi commentatori e ripresa nel Novecento da Ezra Pound: «In un senso ulteriore è il viaggio dell'intelletto di Dante attraverso quegli stati d'animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare "Ognuno", cioè "Umanità", per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell'umanità nell'ascesa fuor dall'ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (E. Pound, Dante, in Lo spirito romanzo, 1910). Se il protagonista del viaggio è «Everyman», non è più necessario attribuire a Dante viator l'esperienza eccezionale di una visione mistica, ma di riconoscere in lui il volto di Ognuno: per questo «la Commedia di Dante è, di fatto, una grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre rappresentazioni» (ivi).

La lettura di Pound incontra, dicevamo, la chiosa che il Boccaccio propone sin dall'apertura delle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, estrema opera della sua vita, suggerendo che non solo da Beatrice Dante si faccia nominare, ma soprattutto da Adamo al sommo del Paradiso: «L'altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: "Dante, la voglia tua discerno meglio", eccetera».

Ora precisamente Boccaccio adotta una lezione, per Par., XXVI, 104, trádita dai più antichi codici (il Landiano, 1336, il Trivulziano, 1337, e molti altri) e confermata dagli antichi commentatori, da Pietro Alighieri, alle Chiose ambrosiane, a Francesco da Buti; lezione che cambia profondamente il senso del poema, poiché ora - nominato da Adamo - Dante non è più solo il fedele d'Amore, ma è il «novello Adamo» di un'umanità redenta, come riassume, nel suo commento, Pietro Alighieri e, con raffinata pertinenza, ribadiscono le «Chiose ambrosiane» (da situare intorno al 1355; traduco dal bel latino): «Dante - Qui il poeta si fa nominare dal primo uomo che impose il nome a tutte le cose e senza quella excusatio alla quale ebbe a ricorrere nel Purgatorio ove disse: "Che de necessità qui se registra". Nota quindi che il poeta mai volle essere nominato nell'Inferno, e neppure nel Purgatorio nei luoghi ove si purgano i vizi, ma concesse di farsi nominare fuori dalle cornici dei vizi, sebbene dovendosi scusare (tamen cum excusatione). Ma in Paradiso senza doversi scusare, come appunto qui - essendo l'opera ormai quasi compiuta - e dopo che, esaminato, aveva fatto professione delle virtù teologali».

Quando parallelamente si osservi il comportamento di Boccaccio copista, in particolare nell'esemplare «Chigiano L VI 213 (= Chig), di mano del Boccaccio, che lo trascrisse non molto avanti la nomina a lettore di Dante, nell'agosto del 1373» (G. Petrocchi, I testi del Boccaccio, in La Commedia secondo l'antica vulgata), si dovrà concludere che anche lì un codice Chig «il quale si impone sugli altri con la qualifica di edizione ultima e definitiva del testo dantesco» (Petrocchi) mantiene la lezione «Dante, la tua voglia discerno meglio» (nel ms. a p. 330; ringrazio di cuore Rudy Abardo per il prezioso riscontro filologico e Marisa Boschi Rotiroti per la sollecitudine) con perfetta coerenza alle ragioni enunciate nelle contigue Esposizioni.

Si tratta dunque di ritornare alle origini, non solo agli autorevolissimi manoscritti che inscrivono: «Dante» o «da- te» e non «da te» (lezione minoritaria), come ha adottato il Petrocchi e con lui - snervando il vigore del testo - le edizioni moderne della Commedia («Indi spirò: "Sanz'essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio"»); e di riconoscere che - nell'eliminare Dante nominato da Adamo - non si è fatta solo una "rimozione" a favore di una lettura meramente amorosa del poema, ma si è privato il testo stesso di quella grandiosa e universale coralità che Dante voleva conferire al proprio viaggio. Poiché, qui, Dante non è più il poeta della Vita nova, ma l'autore del «poema sacro»; egli è ormai, e per sempre, Everyman, il "novello Adamo" dell'umanità redenta, sì che dal «padre antico» (Par., XXVI, 92) possa ricevere la più alta consacrazione.

Occorre insomma pensare alla Commedia, come a «l'albero che vive de la cima» (Par., XVIII, 29); che si compie nella "nuova Genesi" del Paradiso di Gloria, come ben vide Giovanni Getto, sin dal 1947, sottolineando «cotesto epos della vita interiore come esultanza delle spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell'eterno» (Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante, in Aspetti della poesia di Dante); ma anche come partecipazione dell'umanità tutta alla speranza della Resurrezione della carne della storia e dei corpi, che ansiosamente i beati in Paradiso attendono («Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta», Par., XIV, 43-45).

Così dunque, in questa quotidiana coralità di Everyman, è da proporre al XXI secolo la Divina Commedia, bene comune non dell'Italia soltanto, ma dell'umanità intera; e sempre così è stata intesa, dai primi commentatori al Boccaccio, come il poema al quale bussare e attingere per avere accoglienza, ospitalità, conforto. Lo testimonia ancora, al portale di un palazzo di Cannaregio il battente dantesco, e i tanti uomini che in nome di Dante, e leggendo il suo poema, hanno sfidato la barbarie, da Osip Mandel'štam a Primo Levi. Ogni giorno, Dante è davvero tutti noi.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 20/3/2012 16.06
Titolo:SIBILLE E PROFETI... DONNE E MINISTERI
Donne e ministeri da segno dei tempi a indice di autenticità

di Lilia Sebastiani

in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 10 marzo 2012

Nell’enciclica ‘conciliare’ Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) al n.22 l’ingresso crescente delle donne nella vita pubblica veniva annoverato tra i segni dei tempi, insieme alla crescita delle classi lavoratrici (n.21) e alla fine del colonialismo (n.23).

Ricordare l’enciclica è doveroso, per il valore storico di questo semplice e cauto riconoscimento: infatti è la prima volta che un documento magisteriale rileva la cosiddetta promozione della donna senza deplorarla - anzi come un fatto positivo. I segni dei tempi sono ancora al centro della nostra attenzione, ma per quanto riguarda le donne la questione cruciale e non ignorabile è ormai quella del loro accesso al ministero nella Chiesa, a tutti i ministeri.

Venerande esclusioni

Certo il problema dei ministeri non è l’unico connesso con lo status della donna nella Chiesa, ma senza dubbio è fondamentale; guardando al futuro, è decisivo. Non solo e non tanto in se stesso, ma per la sua natura di segno.

In questo momento nella Chiesa la donna è ancora esclusa dai ministeri ecclesialmente riconosciuti: non solo da quelli ordinati (l’Ordine sacro, cioè, nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato, diaconato) ma anche da quelli istituiti, il lettorato e l’accolitato. Questi ultimi, chiamati un tempo “ordini minori” e considerati solo tappe di passaggio obbligatorie per accedere all’ordinazione, furono reintrodotti nel 1972 da Paolo VI (Ministeria quaedam) come “ministeri istituiti” - per distinguerli da quelli ordinati, mantenendo però l’elemento della stabilità e del riconoscimento ecclesiale - e furono aperti anche a laici non incamminati verso l’Ordine; tuttavia si specificava chiaramente che tali ministeri erano riservati agli uomini, “secondo la veneranda tradizione della chiesa latina”.

Un po’ più recente l’istituzione dei “ministri straordinari dell’Eucaristia”: con prerogative non molto diverse da quelle degli accoliti, questi possono essere anche donne. E di fatto sono più spesso donne che uomini. Un passo avanti, forse? Certo però la dichiarata ‘straordinarietà’ sembra messa lì a ricordare che si tratta di un’eccezione, di una supplenza..., di qualcosa che normalmente non dovrebbe esserci.

A parte i servizi non liturgici ma fondamentali, come la catechesi dei fanciulli, quasi interamente femminile, e le varie attività organizzative e caritative della parrocchia, le letture nella Messa vengono proclamate più spesso da donne che da uomini; ma si tratta sempre e comunque di un ministero di fatto, che in teoria sarebbe da autorizzare caso per caso, anche se poi, di solito, l’autorizzazione viene presunta.

Il Concilio e l’incompiuta apertura

Il problema dell’accesso femminile ai ministeri è diventato di attualità nella Chiesa nell’immediato post-concilio, nel fervore di dibattito che caratterizzò quell’epoca feconda e rimpianta della storia della Chiesa. Il Vaticano II aveva mostrato una notevole apertura sulle questioni che maggiormente sembravano concernere il problema della donna in generale e della donna nella Chiesa in particolare. Sulle questioni più specifiche e sul problema dei ministeri i documenti conciliari erano generici fino alla reticenza, ma senza chiusure di principio. Ciò autorizzava a sperare nel superamento, non proprio immediato ma neppure troppo lontano, di certe innegabili contraddizioni che persistevano sul piano disciplinare. Inoltre altre chiese cristiane avevano cominciato da qualche anno, certo non senza resistenze anche aspre, a riconsiderare e a superare gradualmente il problema dell’esclusione (a nostra conoscenza, la chiesa luterana svedese fu la prima ad ammettere donne al pastorato, nel 1958)

.Una chiusura fragile

Nel decennio che seguì il Concilio, il dibattito in proposito fu intenso. La Chiesa ufficiale mantenne però una posizione di cautela e di sostanziale chiusura sempre più netta, che culminò - volendo chiudere la questione una volta per sempre - nella dichiarazione vaticana Inter insigniores, che è della fine del 1976, ma resa pubblica nel 1977.

In questo documento l’esclusione delle donne dal ministero ordinato veniva ribadita con caratteri di definitività vagamente ‘infallibilista’, ma anche con un significativo mutamento di argomentazione, che ci sembra importante poiché dimostra che l’esclusione è un fatto storico-sociologico in divenire e non un fatto teologico-sacramentale. Non si dice più, come affermava Tommaso d’Aquino, che la donna è per natura inferiore all’uomo e quindi esclusa per volere divino da ogni funzione implicante autorità; si richiama invece l’ininterrotta tradizione della Chiesa (che è evidente, ma è anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e soprattutto la maschilità dell’uomo Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che, presiedendo l’assemblea, agisce in persona Christi.

Quest’ultimo argomento fragile e sconveniente è stato lasciato cadere, infatti, nei pronunciamenti successivi: questi si rifanno solo alla tradizione della Chiesa e a quella che viene indicata come l’esplicita volontà di Gesù manifestata dalla sua prassi.

Anche questo argomento non funziona. Gesù, che non mostra alcun interesse di tipo ‘istituzionale’, alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei suoi seguaci. Sembra insieme scorretto e pleonastico dire che “non ha ordinato nessuna donna”, dal momento che, semplicemente, non ha ordinato nessuno. Non vi è sacerdozio nella sua comunità, ma servizio e testimonianza, diakonìa non formalizzata - eppure rispondente a una chiamata precisa - che, prima di essere attività, è opzione fondamentale, stile di vita, sull’esempio di Gesù stesso “venuto per servire”.

Nel Nuovo Testamento di sacerdozio si può parlare solo in riferimento al sacerdozio universale dei fedeli (cfr 1 Pt 2,9; Ap 1,6), negli ultimi decenni tanto rispettato a parole quanto sfuggente e ininfluente nel concreto del vissuto ecclesiale; oppure in riferimento all’unico sacerdote della Nuova Alleanza - sacerdote nel senso di mediatore fra Dio e gli esseri umani -, Gesù di Nazaret (cfr Ebr 9), il quale nella società religiosa era un laico, oltretutto in rapporti abbastanza conflittuali con il sacerdozio del suo tempo.

Un’esclusione che interpella tutti

Vi sono due fatti, molto modesti ma significativi, che aiutano a tenere viva la speranza. Il primo, che i pronunciamenti dell’autorità ecclesiastica volti a chiudere ‘definitivamente’ la questione sono diventati abbastanza ricorrenti, il che dimostra che non è poi tanto facile chiuderla. Il dibattito è aperto e procede. Il secondo, che l’argomentazione teologica sembra cambiata ancora: felicemente sepolto l’infelicissimo argomento della coerenza simbolica, già pilastro dell’Inter insigniores, si richiama solo la prassi ininterrotta della chiesa romana e sempre più spesso si sente riconoscere, anche dalle voci più autorevoli, che contro l’ordinazione delle donne non ci si può appellare a ragioni biblico-teologiche.

No, non si tratta di banali rivendicazioni. L’esclusione interpella tutti: nessuna/nessun credente adulto può disinteressarsi di questo problema chiave finché le donne nella chiesa non avranno di fatto le stesse possibilità degli uomini, la stessa dignità di rappresentanza.

E’ necessario ricordare che vi sono donne cattoliche di alto valore e seriamente impegnate - tra loro anche alcune teologhe - che a una domanda precisa sul problema dei ministeri istituiti rispondono o risponderebbero più o meno così: no grazie, il sacerdozio così com’è proprio non ci interessa. E’ un atteggiamento che merita rispetto: almeno in quanto manifesta il timore che insistere troppo sul tema dell’ordinazione induca ad accentuare l’importanza dei ministri ordinati nella Chiesa (mentre sarebbe urgente semmai ridurre quell’importanza, insomma ‘declericalizzare’).

Ma dobbiamo ricordare che il “sacerdozio così com’è”, nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla ‘separazione’, sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna, che nella chiesa di Roma si esprime in una doppia modalità: l’esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all’obbligo istituzionale di essere “senza donna” per coloro che le esercitano. Il divieto per le donne di essere ministri ordinati el’obbligo per i ministri ordinati di restare celibi sembrano due problemi ben distinti, mentre sono congiunti alla radice. E ormai sappiamo che potranno giungere a soluzione solo insieme.

Segno dei tempi, certo. Segno di trasformazione, segno contraddittorio, segno incompleto, proprio come il tempo in cui viviamo. Per quanto riguarda la chiesa cattolica, però, non solo segno, ma indice di autenticità. Non temiamo di dire che sulla questione dei ministeri, che solo a uno sguardo superficiale o ideologico può apparire circoscritta, si gioca il futuro della chiesa.

Lilia Sebastiani

Teologa
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 25/3/2012 15.17
Titolo:Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia ...
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia

Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo

La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare

di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)

Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .

C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.

Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.

Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?

Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.

In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.

Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/11/2012 08.43
Titolo:CONTURSI T. Parte la mobilitazione per la salvaguardia
COMUNE DI CONTURSI TERME

Parte la mobilitazione per la salvaguardia della Chiesa del Carmine


http://www.comune.contursiterme.sa.it/index.php?action=index&p=751


E' stato anche grazie alla sensibilità di alcuni cittadini contursani che vivono da anni a Milano come il Prof. Federico La Sala che lo scorso autunno il Sindaco e l'Amministrazione affiancando il Parroco Don Salvatore Spingi hanno ritenuto di sollecitare un intervento da parte della Soprintendenza affinchè alcuni affreschi del ciclo delle sibille all'interno della bellissima Chiesa del Carmine, danneggiato da infiltrazioni di acqua piovana non andasse definitivamente perduto.

Ed infatti dopo il sopralluogo congiunto da parte di tecnici funzionari delle due Soprintendenze di Salerno (ai Beni architettonici ed ai Beni artistici) si è riusciti ad ottenere solo indicazioni su come effettuare gli interventi di riparazione delle tegole, delle orditure e delle caditoie esterne, ma nulla di più. Nessun finanziamento e nessun contributo economico. "Il Ministero ha subito tagli drastici e non ci sono neanche le risorse per la manutenzione degli uffici" è stata la risposta delle Soprintendenze sollecitate.

Secondo il loro avviso l'intervento è di competenza della Parrocchia in quanto proprietaria della struttura. Ma, è chiaro, in Italia si rischia di morire tra i rimbalzi delle competenze amministrative, per cui l'Amministrazione intanto ha conferito incarico ad un proprio tecnico, il responsabile dell'ufficio "Edilizia e Lavori Pubblici" per la predisposizione di un progettino di intervento di consolidamento della struttura per poi ottenere la relativa prescrita autorizzazione da parte della Soprintendenza e poi, in assenza di fondi e finanziamenti pubblici, aiutare la Parrocchia nella raccolta fondi e nel coinvolgimento di cittadini, sponsor e volontari da impiegare per evitare il malaugurato degrado della bellissima Chiesa del seicento.

Si tratta di un vero e proprio gioiello, uno straordinario monumento religioso, culturale ed artistico che i contursani di oggi devono salvaguardare per i contursani di domani. Gli affreschi sono resistiti per più di quattro secoli e tutti devono attivarsi per conservarne la straordinaria bellezza ed il profondo messaggio che ne è stato tramandato.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 21/5/2013 19.50
Titolo:NIENTE DI FATTO!!!
DOPO UN ANNO E PIU' DALLA VISITA E DALLA RELAZIONE DEI TECNICI DELLA SOVRINTENDENZA CHE HANNO SOLLECITATO

PARROCO E SINDACO A UN INTERVENTO DI "SOMMA URGENZA", TUTTO FERMO!!!

NIENTE DI FATTO!!

COME SE NIENTE FOSSE ACCADUTO (E NIENTE POTREBBE ACCADERE)!!!

Federico La Sala