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LA NASCITA DI GESU': IL SOVVERTIMENTO DEL NATALE. Una riflessione di Bernard Ginisty - con appunti,a c. di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: December 24 2012 09:49:58.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 23/12/2012 19.21
Titolo:il linguaggio e la verita'. Martini il comunicatore ....
Il linguaggio e la verità. Martini il comunicatore

di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 23 dicembre 2012)

«In principio era la Parola, la Parola era presso Dio e la Parola era Dio», recita il Vangelo di Giovanni (1,1). E poco dopo: «In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini». Se dovessi indicare una laica chiave di lettura di questo celebre incipit evangelico, sceglierei il commento di Carlo Maria Martini dell’anno pastorale 1981-1982, ove non a caso viene meno la maiuscola: «Nella parola il nostro essere profondo si manifesta; la nostra libertà sprigiona le sue capacità operative; la nostra umanità va in cerca dell’umanità degli altri, cerca un contatto con loro, genera consensi, costruisce comunità umane, interviene sulle cose del mondo».

È uno splendido elogio del linguaggio come strumento evolutivo che consente il passaggio dall’individualità dell’io al noi e favorisce l’emergere delle più diverse forme del collettivo umano. Martini ricorre così a una caratterizzazione di Homo sapiens che mostra non poche linee di convergenza con la tradizione del libero pensiero da David Hume a Charles Darwin, da John Stuart Mill a Bertrand Russell: l’umanità è un mosaico di intelligenze, passioni e affetti «eccentrici e insoddisfatti», ed è proprio questa paradossale condizione che rende il linguaggio un elemento ineliminabile di incivilimento.

Certo, Martini ha in mente anzitutto «il primato della parola di Dio», che può sempre trascendere la gabbia dell’espressione puramente umana. Mi pare però significativo che proprio in questo contesto, così impregnato di fede evangelica, Martini non insista tanto su temi escatologici come l’immortalità delle anime o la resurrezione dei corpi, bensì sottolinei che è la parola - e solo essa - che «supera e salva ciò che muore»; anche se l’intero Universo giungesse al punto di «spegnersi». Per questo Dio ha bisogno degli uomini: la sua parola «non cessa di essere una realtà storica» e appunto la sua efficacia si manifesta nell’interpretare e salvare la vicenda della libertà umana, che va valutata «con le sue aspirazioni, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale».

Appunto per questa ragione la parola illumina le più diverse situazioni secondo modalità non disgiunte dal contesto culturale, sociale e storico. Scriveva Martini in un biennio difficile come il 1981-1982 che «davanti a urgenti interpellanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle nuove circostanze in cui viveva la famiglia, dall’inquieta condizione dei giovani e delle donne», il silenzio impacciato dei timidi e la carenza di linguaggio sono già delle colpe. Il sintomo più grave della malattia provocata dall’incoerenza fra quel che si professa e quel che si è, fra il dover essere e l’esistente di fatto, è la scissione tra «testimonianza e opere». D’altra parte, solo il linguaggio è in grado di colmare lo scarto tra «il mondo misterioso della fede» e «le contraddizioni della civiltà industriale».

La nostra è l’epoca della competenza tecnico-scientifica e Martini si è sempre dimostrato consapevole della forza che si sprigiona dalle idee non meno che dai grandi apparati della ricerca, senza troppe distinzioni tra ricerca pura e applicata, perché la linea di demarcazione tra l’una e l’altra cambia con la costellazione dei successi nella nostra comprensione della realtà.

Nel 1982-1983 Martini osservava «che l’uomo ha compiuto e va compiendo importanti conquiste nel dominio della natura, nella cura della salute, nella promozione della dignità personale, nell’organizzazione della vita sociale». Ma già nell’anno pastorale precedente metteva in guardia che l’incremento delle conoscenze scientifiche e lo sviluppo delle applicazioni tecniche spingono l’umanità a sopravvalutare la sua potenza e a darsi a un’attività produttiva sempre più frenetica.

Il riferimento più ovvio, all’epoca, era ancora alla corsa agli armamenti e all’equilibrio del terrore, garantito - se così si può dire - da Usa e Urss. Ma i giudizi pronunciati in quelle circostanze avevano una portata più ampia di quanto la logica della situazione facesse sospettare. «Di fronte ai tanti casi di corruzione, al generale affievolimento del senso di responsabilità, alla crisi delle istituzioni democratiche, tante voci chiedono un risorgimento della coscienza morale».

La cronaca più recente ci fa sembrare ancor più vive affermazioni di questo genere. Comunque, tale «sfida» per Martini deve venire raccolta, decifrata e fatta evolvere «verso la coscienza del bisogno di un solido fondamento».

A questo punto non posso fare a meno di pensare a un poetico elogio del fondamento nel divino come questo, formulato nell’età dei Lumi:
- «Chi ha dato il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio. Chi dà la forza di pensare all’uomo? Dio». Qualche ingenuo cattolico - non certo Martini - potrebbe stupirsi che queste righe siano state vergate dalla penna di François-Marie Arouet, detto Voltaire, che alla voce «Catechismo cinese» del suo Dizionario filosofico (1764, prima edizione anonima Ginevra, anche se l’indicazione formale è Londra) aveva affidato all’esotico principe Ku la descrizione di come quel fondamento sostenga mondo, vita e intelligenza.

Nonostante la rinascita di forme più o meno virulente di fondamentalismo (cui Martini ha sempre guardato con estrema severità), è difficile sottrarsi all’impressione che il mondo disincantato di oggi si sia ormai affrancato da opzioni deistiche cui dava ancora spazio l’illuminista Voltaire.

L’impresa scientifica non ci pare cattolica o protestante più di quanto non sia induista, buddhista o confuciana. Né abbiamo a che fare nella nostra realtà quotidiana con una morale civile che possa venire dedotta in modo univoco da questa o quella dogmatica religiosa: in tal caso ne soffrirebbe la nostra stessa apertura democratica. In altre parole, siamo lontani da quel pretendersi tutti «cattolici, anzi cattolicissimi» come ancora faceva Galileo Galilei; per non dire dell’omaggio mistico di un Keplero al Dio uno e trino che nelle forme geometriche rispecchia la propria essenza o della sottomissione di un Newton al «Signore del mondo» che colma con la sua insondabile benevolenza le lacune della legalità fisica.

Per Martini la struttura pluralistica di scienza e società non costituiva affatto una sconfitta della proposta cristiana ma un suo punto di forza, nella convinzione che nella rinuncia a qualsiasi imposizione riacquistasse senso persino quel «bisogno indistinto di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo» che intesse l’atto della preghiera.

Né mancava in Martini un franco riconoscimento del valore individuale della scelta: tale «avventura difficile e inebriante» richiede infatti che ci sia sempre un io che corre il rischio della decisione, «anche se vivo, decido, prego in una comunità di fratelli che mi sostiene, mi rianima e spiritualmente mi dilata». Certo, la libertà umana «è sempre tentata d’infedeltà», e cristianamente Martini vedeva qui anche la radice di disordine e prepotenza, che possono inquinare persino l’orazione al punto di farne «il tentativo di piegare la divina volontà alla nostra».

Ma laicamente sapeva pure che quella stessa «infedeltà» può diventare la molla dell’insofferenza al conformismo, che è il frutto della restaurazione di qualsiasi fondamentalismo - persino di un fondamentalismo scientista, che vede nelle conquiste tecnico-scientifiche lo strumento di un dominio assoluto da parte di un’élite di tecnocrati a spese dell’ambiente e dei singoli individui.

Mi sia lecito aggiungere che un siffatto «atteggiamento di orgoglioso e bruciante possesso» a mio parere vanificherebbe la stessa crescita della conoscenza, intesa non solo come ricerca di «verità» continuamente rivedibili e mai definitive, ma anche come condivisione linguistica tra la cerchia degli specialisti e il pubblico più ampio, capace di incrementare la critica e il dissenso, a loro volta intesi come stimoli a nuove e incessanti scoperte. È mia convinzione e speranza che su questo possano davvero convergere le parole degli uomini e quelle di Dio.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/12/2012 09.49
Titolo:IL RIVOLGIMENTO DELL'AMORE: LA SVOLTA RADICALE ....
- La «conciliazione» di divino e umano
- Anche per tanti filosofi laici, da Hegel in poi, l’incarnazione cambia la percezione della vicenda umana
- La Natività
- Libertà e uguaglianza nella storia dell’uomo
- La svolta radicale
- La figura del Cristo capovolge il rapporto uomo-Dio proprio della filosofia greca

- di Michele Ciliberto (l’Unità 24.12.12

Per quale motivo i laici, e anche i non credenti, festeggiano il Natale? Quale è il significato che essi assegnano a questa festività che ricorda, e celebra, l’Incarnazione (insieme alla Resurrezione il centro costitutivo della religione cristiana)?

Vorrei cercare di rispondere a queste domande da storico della filosofia, sostenendo queste tesi: l’Incarnazione è una base essenziale della concezione della storia umana come storia della libertà; è il fondamento di una visione dell’uomo quale principio di libertà e di responsabilità; con essa inizia a svolgersi, in termini nuovi, il principio dell’eguaglianza e di un comune destino come predicato originario dell’umanità.

Alla base di questa visione che fonda una concezione integralmente nuova della storia e dei fini che in essa l’uomo si propone stanno due motivi essenziali: la «conciliazione» di umano e di divino, che si realizza nella figura di Cristo; il mutamento radicale, rispetto alla filosofia greca, nel rapporto tra Dio e uomo e, di conseguenza, tra uomo e Dio. Vediamoli entrambi cominciando dal primo.

«La certezza dell’unità di Dio e dell’uomo è il concetto di Cristo, dell’Uomo-Dio. Cristo è apparso,un uomo che è Dio e un Dio che è uomo; da ciò il mondo ha avuto pace e conciliazione». Così scrive Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, illuminando il significato della Incarnazione e della figura di Cristo nella storia del pensiero e in quella del mondo.

Questa posizione è il punto di approdo di un lungo travaglio che attraversa fin dalle origini anche la filosofia moderna. Esso concerne precisamente la possibilità della «conciliazione» fra umano e divino di cui parla Hegel: come è possibile che finito e infinito, uomo e Dio, possano «conciliarsi» nella figura di Cristo? Se è incommensurabile la distanza tra l’uno e l’altro, la figura di Cristo si rivela come una sorta di creatura mostruosa una specie di centauro senza alcun fondamento filosofico e teologico. Infatti il rapporto tra divinità e umanità potrebbe darsi solo in termini di «assistenza» della prima alla seconda; non di «inerenza», inconcepibile sia dal punto di vista filosofico che teologico.

Queste sono posizioni di pensatori radicalmente estranei al cristianesimo; ma anche un grande cristiano e un profondo pensatore come Pascal esclude, da un punto di vista filosofico, la «conciliazione» di umano e di divino: solo la verità del Vangelo, osserva, «concilia la contrarietà con un’arte affatto divina e ne fa una saggezza veramente celeste in cui si conciliano quegli opposti, incompatibili in quelle dottrine umane». Come egli stesso precisa subito dopo, questa è però teologia, non filosofia.

La forza e la grandezza della posizione di Hegel sta precisamente nel porre in termini filosofici la «conciliazione» di umano e di divino, interpretando a questa luce la figura di Cristo e l’Incarnazione. Lo fa perché elabora una nuova teoria degli «opposti» risolvendo il problema di fronte al quale Pascal si era fermato, abbandonando il campo filosofico per quello teologico.

A differenza di Pascal il quale aveva respinto drasticamente la possibilità che gli «opposti» fossero «nel medesimo soggetto» Hegel «concilia» umano e divino nella figura di Cristo, stabilendo le basi della concezione della storia come storia della libertà. E strappando, con Lutero, Cristo alla tomba in cui l’avevano cercato i crociati, lo pone nella interiorità dell’uomo, nella spiritualità che si «acquista solo nella conciliazione con Dio, nella fede e nella partecipazione». Quella cristiana è perciò una «dottrina della libertà» individuale, fondamento di una nuova concezione dell’uomo e della storia, di cui l’Incarnazione e la figura di Cristo sono fondamento essenziale.

È un’acquisizione filosofica decisiva dalla quale non sarà più possibile tornare indietro, e che il pensiero laico farà sua nei suoi esponenti più alti e significativi. Si potrà discutere dei caratteri della libertà, ma che essa sia il principio della storia umana e che il cristianesimo abbia svolto una funzione essenziale questo è ormai un dato acquisito.

E veniamo ora al secondo elemento. L’Incarnazione e la figura di Cristo generano un altro «principio» filosofico essenziale anche per un laico, consistente nel mutamento radicale, rispetto al pensiero greco, del rapporto tra Dio e l’uomo.

Lo ha detto in pagine molto belle Max Scheler: mentre la concezione greca presenta un uomo che si sforza di salire verso Dio, il cristianesimo con la figura di Cristo rovescia questo punto di vista, presentando un Dio che discendendo verso tutti gli uomini, accoglie con un gesto di amore totale l’intera umanità. Nella concezione cristiana si attua perciò un vero e proprio «rivolgimento dell’amore»: «il nobile si abbassa all’ignobile, il sano all’ammalato, il messia ai pubblicani ai peccatori e questo senza la paura antica di diventare meno nobili ma nella più strana convinzione di guadagnare l’eccelso, di divenire simili a Dio».

Un motivo assai intenso, svolto con efficacia anche da Barth: «L’uomo può dirsi senza Dio, può sentirsi ateo, ma Dio non può dirsi senza l’uomo perché Dio non è più senza l’uomo, rimane abbracciato, così coinvolto con l’umanità da appartenere ad essa». Quello cristiano è un Dio che, coprendo ogni persona con la sua luce e il suo calore, pone le basi di quel principio di solidarietà e di eguaglianza tra tutte le creature che diventerà poi un principio essenziale della filosofia e del pensiero politico moderni.

In conclusione: libertà, responsabilità, eguaglianza sono tutti concetti che hanno a che fare con l’esperienza cristiana e con la dottrina della Incarnazione, e perciò con il Natale. Sarebbe stolto negarlo o occultarlo; come sarebbe sciocco trascurare l’originalità e la creatività con cui il pensiero laico ha ripensato e sviluppato queste radici. La nostra comune civiltà nasce e fiorisce da semi differenti: ieri come oggi il nostro compito è riconoscerli e riaffermarli nella loro autonomia e specificità.
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- La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza di umanità, nel mondo e col mondo.
- La storia del Logos ne è paradigma
- Un bimbo il Dio che rischia non è solo spirito
- Il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa
- Il cristianesimo non è una «religione civile»
- È la compromissione radicale del divino con la storia dell’umanità che spinge i cristiani alla passione per la giustizia

di Serena Noceti (l’Unità, 24.12.2012)

In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Lo gos era Dio... E il Logos divenne carne». Con la loro incisiva lapidarietà queste parole del Quarto Vangelo, che vengono proclamate nelle chiese ogni anno nella liturgia del Natale, consegnano a una prospettiva essenziale, davanti al profluvio di parole sulla solidarietà, la condivisione, la bontà con cui si offre la reinterpretazione del Natale in una società ormai secolarizzata e post-cristiana, ma sempre segnata nei tempi del vivere collettivo dalla sua tradizionale storia cattolica.

Sono parole che sintetizzano la coscienza di fede cristiana sulla ineliminabile relazione di Dio con il mondo, sulla sua compromissione radicale con la storia dell’umanità, e insieme vogliono esprimere una parola significativa sull’umano, a partire dalla concreta vicenda di Gesù di Nazareth.

Le parole del Vangelo di Giovanni sono parole che possono raggiungere nella loro paradossalità anche gli uomini e le donne credenti e non abitatori di questa tarda modernità, perché parlano di «divenire» e di «carne», di un definitivo (che non è l’assoluto) nel frammento di un esistenza singolare e limitata; perché hanno la capacità di interpellarci attraverso il tempo a riconsiderare in modo nuovo la nostra stessa storicità, dischiudendone orizzonti di senso e di resistente speranza. Quando la Bibbia ricorre al termine «carne», infatti, esprime l’essere umano integrale visto nella sua fragilità, nella debolezza, nella mortalità, nello stare in una rete di relazioni che qualificano l’identità singolare e nell’essere determinato e «de-finito» dallo spazio e dal tempo.

La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza dell’umanità, nel mondo e con il mondo, di cui la storia del Logos incarnato è fondamento e paradigma. La progressiva tecnicizzazione del mondo e della vita, lo sviluppo rapido dei sistemi di comunicazione e di trasporto, l’evoluzione dei sistemi sociali stanno modificando in maniera sostanziale proprio la nostra percezione dello spazio e del tempo. «Com-presenti» al mondo intero e segnati da un egemonico presente che sembra presentarsi a noi già compiuto, pronto per essere consumato e abbandonato per fare spazio non al futuro, ma a nuovi presenti, siamo affascinati da una «possibile onnipotenza» e insieme sperimentiamo un inedito dis-orientamento: abbiamo smarrito il senso del tempo, di una storia collettiva che goda di radici che custodiscono identità in divenire, di una progettualità di futuro capace di una speranza che orienti le prassi dell’oggi.

L’annuncio cristiano ha al centro non una verità a-storica su Dio, ma la paradossale affermazione che mediatore di salvezza per l’umanità intera è l’uomo Gesù Cristo, nella singolarità della sua vicenda umana, data nello spazio e nel tempo: una biografia segnata dalla parzialità come ogni altra esistenza umana (a iniziare da quella di sesso), ma capace di interpretare

il «qui ed ora» nella permanente dinamica trasformativa del futuro. Davanti a quella volontà di potenza che ci fa perdere di vista la nostra condizione di fragilità il cristianesimo proclama non una verità a-storica sul divino e sulla trascendenza, ma il volto di Gesù di Nazareth. Nel Natale ricorda che, se contraddistingue l’umano (e il divino) lottare per ridurre ogni fragilità e vincere ogni alienazione, è proprio della maturità umana la coscienza che individuazione del senso, esercizio di libertà, crescita autentica sono connessi con il limite e il determinato.

Non «semplicemente» il «farsi uomo» di Dio, ma il «farsi carne» (sarx), lo sperimentarsi nella condizione spazio-temporale e nella storicità di un divenire libero e responsabile, per una salvezza che passa dall’impotenza della sarx di Gesù e quindi non impone, non vincola, ma si propone alla libertà di ognuno. È una proposta di fede che chiede di superare ogni concezione di un Dio «a-patico» e immutabile e ogni comprensione della verità che sia a-storicamente pensata, per aprirsi a una rivelazione di Dio nella storia e come storia, che comporta interpretazione e coscienza del relativo. Al di là del pittoresco e dell’aurea di innocente candore veicolata dai nostri presepi, il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa perché costringe ad abbandonare un’idea infantile di salvatore che, quale onnipotente e deresponsabilizzante Deus ex machina sceso nei contesti dolorosi della vita in cui si è sperimentato il limite del nostro possibile, viene a liberarci dalla finitudine dell’umano e dal rischio della libertà.

Fin dall’inizio del cristianesimo si è vigilato per mantenere la verità della «carne» di Gesù davanti alle ricorrenti tentazioni gnostiche, alle riduzioni spiritualizzanti o etiche della fede, al concentrarsi sulla natura divina di Cristo a detrimento della concretezza della sua persona umana. Anche oggi, in un tempo in cui è sempre più evidente la tentazione di risolvere l’esperienza cristiana nell’interiorità o in una spiritualità dedita a un sacro che semplifica e rifugge dalla complessità del mondo, mentre molti tentano di ri-ascrivere il cristianesimo a un destino di civil religion, la memoria del «Natale nella carne» si pone come interruzione necessaria per i cristiani affinché ritornino a declinare un annuncio significativo per tutti, perché ancorato all’effettività corporea di Gesù quale luogo dell’esserci di Dio, capace di ridisegnare il pensiero sull’umano e sul divino.