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A 50 ANNI DAL VATICANO II, UNA SITUAZIONE CUPA. Un'analisi di Vito Mancuso - con una nota,a c. di Federico La Sala

Ultimo aggiornamento: September 26 2012 16:16:38.

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/9/2012 23.38
Titolo:DISOBBEDIRE. La trasgressione in questo caso è responsabilità ....
Disobbedire

di Jacques Noyer (vescovo emerito di Amiens)

in “www.temoignagechretien.fr” del 9 settembre 2012 *

«Signor parroco, vorremmo vederla. Stiamo per sposarci, ma io sono divorziato...» Mi è stato riferito recentemente che un prete sentendo queste parole ha richiuso la porta della casa parrocchiale affermando: «Sono desolato ma non posso far nulla per voi!». Ecco un funzionario come si deve! È questa l’obbedienza?

Senza dubbio molti altri avrebbero fatto entrare la coppia e l’avrebbero ascoltata. Alcuni, con molto garbo, avrebbero concluso con le stesse parole: non posso far nulla per voi. Altri avrebbero cercato di rispondere entrando maggiormente nel merito della richiesta di queste persone abitate dal desiderio di situare il loro amore e il loro progetto di vita sotto lo sguardo del loro Dio o almeno sotto lo sguardo della loro famiglia e dei loro amici cristiani. Molti pastori riterranno loro compito vedere queste persone con lo sguardo di Cristo.

Non possono immaginare che colui che si è fermato a parlare con la Samaritana rifiuti di prestare attenzione alla loro richiesta. In quel dialogo, il pastore si impegna con le proprie convinzioni, ma con la preoccupazione di accogliere la sete profonda dei suoi interlocutori. Non ci sono risposte prefabbricate. Con maggiore o minore audacia, proporrà il cammino che ritiene il migliore per il caso singolare che ha davanti.

Potrà ritenere che l’applicazione pura e semplice delle norme ferirà l’attesa confusa che si trova di fronte. Sa che al di là di Gerusalemme e del Garizim, c’è un Dio d’amore che si adora in spirito e verità. Non ci si può rifiutare di superare la linea gialla quando si tratta di evitare di schiacciare qualcuno. La trasgressione in questo caso non è disobbedienza. È responsabilità.

La situazione ecclesiale che si è creata attorno all’ «appello alla disobbedienza» dei preti austriaci diventa non controllabile. Questa provocazione è molto rischiosa. Vogliamo una reazione intollerante capace di generare drammatiche lacerazioni nella nostra Chiesa? L’inerzia del Vaticano, diffusa da una gerarchia impaurita, avrà, una volta di più, ragione di un modo di sentire di alcuni lasciandolo marcire senza risposte? A mio avviso sarebbe stato meglio un «appello alla obbedienza» all’audacia del vangelo.

La Chiesa non può addormentarsi nelle sue certezze e nelle sue abitudini. Non ha il diritto di sacralizzare un momento della storia per rifiutare di amare il presente. I preti non hanno il diritto di far tacere gli appelli del loro animo di pastori per un’obbedienza formale alla legge. I vescovi non possono giustificare la loro inerzia per la paura di una reazione della Curia.

Il Papa ha sufficientemente ricordato la grandezza del Concilio, perché nessuno si dimentichi delle proprie responsabilità nella missione del popolo di Dio. Abbiamo troppo sofferto per un’obbedienza intesa come una semplice rinuncia all’iniziativa e all’inventiva. Credo che l’obbedienza al Padre di Gesù Cristo è contraria ad una sottomissione cieca al diritto canonico.

Desidererei ascoltare a tutti i livelli della Chiesa il fremito dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Mi piacerebbe che ordinare un prete non fosse rinchiuderlo nel ruolo di esecutore di ordini, ma dargli fiducia. Mi piacerebbe che affidare una diocesi ad un vescovo consistesse nel chiedergli pareri e proposte e non invece nell’esigere un giuramento di fedeltà. Mi piacerebbe poter fare ascoltare fino ai vertici le invocazioni di questo popolo che cerca acqua fresca e rifiuta l’acqua stagnante delle cisterne vaticane.

La Volontà del Padre che manda il suo Figlio e ci invita all’avventura del Regno non è un regolamento ma una creazione, un concepimento, una risurrezione. Che la Tua volontà sia fatta, diciamo! Ma non è un abbandono. Come un’eco, ascoltiamo il Padre ridirci che non ha bisogno di schiavi sottomessi, ma di figli liberi alla cui iniziativa affida la responsabilità del suo progetto d’amore

* Fonte: Incontri di "Fine Settimana".
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/9/2012 23.40
Titolo:PAROLA A RISCHIO. Risalire gli abissi ...
PAROLA A RISCHIO

- Risalire gli abissi
- La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
- Perché è sorriso, liberazione, gioia.

-di Giovanni Mazzillo (Teologo) *

G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.

Salvezza
- Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro. Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.

La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.

L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.

Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).

Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.

La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.

Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.

La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.

In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.



* MOSAICO DI PACE, LUGLIO 2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/9/2012 10.55
Titolo:Non c’erano autorità né religiose né laiche. Nessun prete ....
Chiesa di tutti, chiesa dei poveri

di Giancarla Codrignani (17 settembre 2012) *

Anche gli amici che non erano a Roma, ma fanno parte di quel popolo di Dio che sente il disagio critico di una transizione necessaria (ma ricusata) della sua Chiesa e, forse, non aveva avuto notizia di questa convocazione, dovrebbero essere grati a Vittorio Bellavite, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Raniero La Valle, Alessandro Maggi, Enrico Peyretti e Fabrizio Truini, che hanno collaborato per costruire un’agorà comunitaria di credenti nel forte convincimento che il Concilio Vaticano II portò nella storia della Chiesa cattolica un rinnovamento irrinunciabile.

Hanno aderito 99 associazioni grandi e piccole (e le più grandi hanno fatto un passo indietro per non prevaricare) e 28 riviste, concordi nel promuovere a Roma l’evento "Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri" rievocando simbolicamente il radiomessaggio di Giovanni XXIII l’undici settembre 1962, quando invitò i fedeli a costruire la "primavera della Chiesa", della "Chiesa dei poveri".

Nessun’intenzione di "commemorare" il Concilio Vaticano II, ma una rinnovata volontà di cercare nuove vie alla sua troppo rinviata attuazione.

Lo ha detto Cettina Militello nella forma più intensa: siamo tutti responsabili della mancata attuazione di una riforma della Chiesa cattolica, non più rinviabile soprattutto perché non si tratta di alterare la tradizione, ma di metterla in novità per evitarne la cristallizzazione in atto. Nessuna contestazione, dunque, ma una fedeltà coraggiosa che vuole una chiesa dei poveri e per i poveri, una chiesa secondo il Vangelo.

Carlo Molari ha approfondito la necessità di una "tradizione vivente", e di una ricerca dell’azione dello Spirito nella nuova situazione storica, individuando nel post-concilio la grande carenza di una Chiesa che non è "dei poveri per i poveri". Che si tratti di esigenze di cambiamenti urgenti lo ha testimoniato p. Felice Scalia con un sofferto e duro intervento sulla situazione della Compagnia di Gesù, in crisi "numerica e di coscienza". Ovvii i richiami a tutta la problematica in questione, dalla liturgia alla collegialità, dall’ecumenismo (evocato da Paolo Ricca) alla presenza delle donne, dalle parole del card. Martini alla rievocazione di Paolo VI fatta da dom Giovanni Franzoni, dalla discriminazione degli omosessuali credenti al valore del concilio "pastorale".

Non c’erano autorità né religiose né laiche. Nessun prete con la veste; alcune suore sì. Le donne hanno più coraggio. Ma tutti dobbiamo andare avanti.

*Fonte: Incontri di "Fine settimana".
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 20/9/2012 19.30
Titolo:COALIZIONE SUORE USA. Fedeltà a Dio, prima che all’istituzione....
Fedeltà a Dio, prima che all’istituzione.

L’«obbedienza profetica» delle religiose statunitensi

da Adista Documenti n. 33 del 22/09/2012 *

DOC-2471. DENVER-ADISTA. A differenza della più famosa LCWR (Leadership Conference of Women Religious), che rappresenta i vertici delle congregazioni femminili Usa, il Ncan (National Coalition of American Nuns) è l’organizzazione progressista di base delle religiose statunitensi. Fondata nel 1969, conta oggi circa 700 aderenti. La sua missione è quella di lavorare e intervenire sulle questioni che riguardano la giustizia, l’eguaglianza e l’inclusione, nella Chiesa come nella società Usa. A Denver, in Colorado, il 14 agosto scorso si è riunito il Consiglio direttivo della Ncan. Alla conclusione dei lavori, sono stati approvati tre documenti. Il primo, assai significativo perché interviene su un tema oggi molto sentito dall’opinione pubblica cattolica statunitense, plaude la scelta operata dalla Leadership Conference of Women Religious, durante la sua assise annuale di Saint Louis (7-10 agosto 2012, v. Adista Notizie n. 30/2012), di rispondere con una “obbedienza critica” alla valutazione dottrinale fatta dal Vaticano alla fine della sua indagine sulla vita religiosa negli Stati Uniti (v. Adista Notizie nn. 16, 17, 23, 24/12); il secondo documento si interroga sulle vere radici dell’escalation di violenza nei confronti delle donne registrato ultimamente negli Stati Uniti; l’ultimo riguarda invece il traffico degli esseri umani ed il loro sfruttamento sessuale.
- Li proponiamo qui di seguito, in una nostra traduzione dall’inglese. (v. g.)

NELL’INTERESSE DELL’UMANITÀ

di Coalizione nazionale delle suore Usa

IL TEMPO MIGLIORE, IL TEMPO PEGGIORE

L’incipit del romanzo di Charles Dickens Racconto di due città è tornato spesso d’attualità nella nostra Chiesa, sin dal 18 aprile del 2011: «Era il tempo migliore, era il tempo peggiore». Da quel giorno, infatti, la valutazione dottrinale da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) nei confronti della Leadership Conference of Women Religious (LCWR) ha prodotto angoscia e dolore tra le suore statunitensi e le religiose di tutto il mondo, ma ha anche offerto l’opportunità di spiegare alla CDF l’universo dei valori cari alle religiose Usa.

Uno di questi valori è dato dall’obbedienza. La teologia, l’ecclesiologia e la spiritualità del Concilio Vaticano II hanno contribuito a far comprendere alle religiose che il loro impegno, e quindi la loro obbedienza, appartiene a Dio, non ad una istituzione. E, dunque, che essere fedeli e obbedienti a Dio può significare, a volte, dover prendere una direzione diversa da quella indicata dalle autorità religiose. Tale obbedienza profetica richiede la stessa audacia mostrata da Gesù di Nazareth quando ha infranto la legge religiosa del suo tempo per eseguire opere buone di sabato. Tale obbedienza richiede coraggio, perché comporta più di una semplice opposizione alle proprie autorità spirituali. La persona o il gruppo che decida di disattendere una direttiva a favore di una opzione alternativa in cui si ritiene scorra linfa vitale deve essere consapevole, come Gesù, delle sanzioni che ne possono derivare.

L’indicazione sul modo in cui dobbiamo agire appartiene al versante dell’autorità legittimamente costituita, ma le religiose, anzi tutti i fedeli, non devono seguire ciecamente l’autorità. Basta riflettere sulla Shoah per comprendere a quali risultati possa portare una obbedienza acritica. Su ogni direttiva è perciò necessaria un’opera di discernimento con il cuore e con la preghiera. Attraverso il discernimento e la guida dello Spirito, sta poi a noi decidere se una disposizione impartita dall’autorità risponde al vero interesse della comunità umana.

Le religiose hanno cercato di vivere questo tipo di obbedienza adulta dopo il Vaticano II, rivolgendo l’attenzione ai documenti delle proprie comunità, ai bisogni delle persone, alle proprie esperienze di vita, alle dichiarazioni dei leader religiosi e agli appelli dello Spirito per discernere la direzione in cui procedere, e provando a vivere docilmente alla luce di tali fonti.

La Coalizione nazionale delle suore statunitensi plaude la LCWR per l’obbedienza scaturita da un processo di discernimento orante di cui ha dato prova nella sua risposta alla valutazione dottrinale. Sosteniamo la LCWR nel suo desiderio di cogliere questa opportunità per chiarire quali siano la sua missione e i suoi valori in un dialogo con i tre rappresentanti del Vaticano. Siamo liete per il fatto che la LCWR cercherà di aiutare la leadership della Chiesa a comprendere la necessità che i laici, ed in particolare le donne, abbiano voce nella Chiesa e che porterà avanti questa discussione fino a quando l’integrità della sua missione non venga compromessa.

DOVE RISIEDE LA VERA CAUSA DELL’ESCALATION DI VIOLENZA?

Questa estate il nostro Paese ha assistito a due atti orribili di violenza a distanza di poche settimane l’uno dall’altro. Quanto avvenuto in un cinema di Aurora, in Colorado, e nel tempio Sikh in Wisconsin ci ha stordito per l’enormità dell’odio che può aver motivato tali azioni. Questi incidenti sarebbero stati meno devastanti se gli autori non avessero avuto accesso ad armi d’assalto? Sicuramente. Siamo realmente scioccati dalla facilità con cui una persona possa attentare alla vita di qualcun altro per soddisfare le proprie pulsioni? Ce lo auguriamo.

Ma cosa c’è alla base di questi attacchi? Sappiamo molto bene che gli autori di questo genere di crimini sono stati essi stessi vittime o soffrono di una qualche forma di disturbo mentale. Tre quarti degli adulti in età lavorativa in questo Paese non guadagnano abbastanza per vivere al di sopra della soglia della povertà. I loro diritti vengono lentamente erosi da un sistema economico di stampo neoliberista che pone la ricerca del profitto al di sopra delle persone.

Che cosa ci permette di sopportare la quotidiana aggressione fisica e sessuale contro le donne all’interno del matrimonio e come schiave nelle reti della tratta a scopo di sfruttamento sessuale? Che cosa ci permette di chiudere gli occhi di fronte ai casi di bambini che vengono sessualmente, fisicamente ed emotivamente abusati da parenti, insegnanti, uomini di Chiesa? Cosa ci rende immuni dalle notizie quotidiane di omicidi di giovani su larga scala a causa della droga, delle armi e delle bande?

Non abbiamo forse sperimentato un attacco ai nostri sistemi educativi, costantemente privati di sostegno finanziario? Giovani dotati di grande creatività si vedono legare le mani dai crediti scolastici negli anni più produttivi della loro vita.

Pensiamo al nostro sistema militare che addestra giovani donne e uomini a uccidere: per che cosa? Il controllo esercitato su Paesi, giacimenti petroliferi, religioni e qualsiasi altra cosa fa del nostro Paese una realtà spaventosa. Il numero di giovani che, una volta tornati a casa, si tolgono la vita o uccidono altri esseri umani è allarmante. Quanta violenza!

La verità è che una parte della nostra società non solo accetta, ma promuove o sfrutta questa violenza, mentre i mezzi di comunicazione, con il loro continuo bombardamento di immagini di violenza fisica e sessuale, hanno su di noi un effetto anestetizzante. La riforma del sistema di giustizia penale e il contenimento dell’apparato militare-industriale potrebbero essere un buon inizio per dar vita a un altro tipo di mondo.

Come si fa a promuovere lo sviluppo di una società che conferisca dignità alla vita garantendo ad ogni persona il diritto al cibo, alla casa, a un lavoro decoroso che consenta di guadagnarsi da vivere? Possiamo creare una società in cui qualsiasi atto di violenza sia visto come un’infamia? Quando abbracceremo quel tipo di nonviolenza che abbia come fine la promozione della vita? Possono le nostre comunità aiutare un bambino che assume un comportamento violento a capire che tale comportamento non è mai accettabile perché ogni persona ha il suo valore e la sua dignità?

Le vittime delle recenti violenze in Colorado e Wisconsin non sono purtroppo le uniche vittime, ma non riusciremo a cambiare nulla fino a quando non saremo disposti a prendere in considerazione tutte le forme di violenza e le loro cause.

LA TRATTA DELLE DONNE E DELLE GIOVANI

La tratta degli esseri umani - una moderna forma di schiavitù - è tra le industrie criminali più grandi e in più rapida crescita. Casi relativi a questa tratta, che esiste nel mondo sin dalla notte dei tempi, sono stati registrati in tutti i 50 Stati Usa.

Ne fanno parte realtà come il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale e la riduzione in schiavitù. Le vittime possono avere qualsiasi provenienza etnica o sociale. E le donne possono essere ricercate e sfruttate anche per il piacere sessuale degli appassionati del Super Bowl, del World Games Series e di altri eventi sportivi.

In questa guerra contro le donne, vengono negate le libertà fondamentali ad innumerevoli giovani e adolescenti. Siamo a conoscenza di abusi commessi in alcuni Paesi contro bambine di 8 anni, costrette ad un matrimonio combinato e a volte torturate in caso di rifiuto. O obbligate a prostituirsi e cedute al mercato del sesso se non consumano subito il matrimonio o non hanno figli. Approfittando della loro vulnerabilità, queste donne e queste adolescenti vengono comprate, vendute e malmenate per le più diverse ragioni.

La National Coalition of American Nuns si oppone a tutte le forme di tratta di esseri umani. E si congratula con la Leadership Conference of Women Religious per aver affrontato questo tema nel corso della sua assemblea nazionale, svoltasi dal 7 al 10 agosto 2012, attraverso un seminario sul tema “Traffico di esseri umani: persone rapite, speranza rapita” e una risoluzione che impegna a lottare per la sua abolizione.

La National Coalition of American Nuns supporta iniziative studentesche come il Red Thread Movement che fornisce sostegno finanziario per sottrarre le giovani ai trafficanti di sesso.

- Articolo tratto da ADISTA
- La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it

* Il Dialogo, Giovedì 20 Settembre,2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/9/2012 18.31
Titolo:Ma la Chiesa sa fare i conti con le donne?
Ma la Chiesa sa fare i conti con le donne?

di Marinella Perroni* (l’Unità, 24 settembre 2012)

In molti ormai si irritano a sentir parlare di donne. Accettano che ci siano donne in grado di prendere la parola, basta però che non parlino di donne, perché la parola, come l’intelligenza, non deve avere determinazioni di genere. Per questo ci si compiace se il direttore della Mostra del cinema di Venezia insiste sul fatto che i sette film diretti da donne sono stati scelti perché belli, non per l’appartenenza sessuale delle rispettive registe, e il disagio collettivo cresce tutte le volte che il movimento Se non ora quando? propone, come condizione necessaria, anche se non sufficiente, per rifondare la politica italiana, il criterio del «50 e 50».

Non è questo il luogo per prendere in esame le tante implicazioni della cultura di genere e, soprattutto, per provare a capire i motivi dell’ostinato quanto diffuso rifiuto che ad essa oppone l’opinione pubblica del nostro Paese, in primis la sua classe intellettuale di ogni ordine e grado. Invece, quando si tratta di donne e Chiesa cattolica, la sensibilità si riaccende. Come se la Chiesa cattolica rappresentasse l’unica enclave ideologica ostile alle donne. Come se l’inviata dell’Onu che ha presentato il primo rapporto sul femminicidio e ha definito la situazione italiana «grave e insostenibile» avesse in mente soltanto i parrocchiani cattolici Piaccia o no ammetterlo, l’impedimentum sexus non determina soltanto l’interdizione dal sacerdozio cattolico, ma si insinua in molti modi nel pieghe della vita civile del nostro Paese.

Cultura di genere nella chiesa

Quando, ormai quasi dieci anni fa, alcune teologhe italiane hanno dato vita al Coordinamento teologhe italiane, spinte dall’esigenza di valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito teologico, pensavano non soltanto al panorama ecclesiale, ma anche a quello culturale. La Chiesa cattolica ha infatti un problema molto serio sulla questione della rappresentanza delle donne, ma questo problema si declina in modi profondamente diversi a seconda dei Paesi in cui essa vive come soggetto storico e culturale, oltre che come comunità religiosa. La questione delle donne è questione italiana, non soltanto cattolica.

Nessuna di noi si illude: la categoria di genere è ambivalente e problematica. Impone però di fare i conti con un dato di fatto ormai evidente: le donne ci sono e, quando acquisiscono gli strumenti per diventare soggetti culturali, sportivi, economici, religiosi, politici, sindacali, sono assolutamente capaci di entrare nella trama delle relazioni e delle competizioni pubbliche che configura una società. Soprattutto, vogliono restare donne, ma non vogliono essere come normalmente ci si aspetta che debbano essere. È vero, sulle passerelle della politica, dei media o della società civile dominano ancora figure o figurine di donne prodotte da un immaginario maschile, da dolce stil novo o da orgetta, poco importa: donne che siano come devono essere, non che siano come sono.

Anche il linguaggio di ecclesiastici illuminati riflette ancora il recondito desiderio che le donne si facciano, sì, sempre più presenti nella Chiesa come nella società, ma che debbano essere quelle che loro si aspettano, sensibili e accoglienti, protagoniste, sì, ma con gli abiti confezionati da una cultura patriarcale che è disposta a farsi femminilizzare (leggi: ammorbidire, edulcorare), ma non è disposta a ridiscutere cosa sia il maschile e il femminile, cosa comporti, sul duplice versante dell’interiorità e delle relazioni, la maschilità e la femminilità, cosa voglia dire vivere in una società capace di declinarsi e di organizzarsi a partire dalla differenza di genere.

E fa amaramente sorridere che rifiutino il femminismo e la prospettiva di genere proprio quelli che hanno organizzato il mondo a partire dal criterio dell’esclusione sulla base della differenza dei sessi. Comprese, evidentemente, le chiese cristiane o le altre tradizioni religiose! Emma Fattorini e Liliana Cavani hanno suggerito alla Chiesa cattolica di convocare un «sinodo sulle donne». Molte di noi sperano fortemente, invece, che ciò non avvenga.

Quando, cinquanta anni fa, Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II sapeva molto bene a cosa andava incontro e lo desiderava ardentemente: che i vescovi di tutto il mondo si confrontassero nella trasparenza e nella libertà, perché fossero «le chiese» a ridisegnare il volto di una Chiesa cattolica capace di rispondere alla chiamata di responsabilità che ad essa veniva dalla storia.

La forza del Concilio è stata proprio questa: vi hanno partecipato tutti i vescovi cattolici, con la chiara consapevolezza di dover dare voce alle loro chiese, e vi hanno anche partecipato rappresentanti di un’ecumene cattolica già esistente oltre che vagheggiata, per non dire che, per la prima volta nella storia, vi hanno preso parte, sia pure tra mille limitazioni e vincoli, perfino alcune donne (23 su 2778 presenti!) che erano figure di rilievo in diversi ambiti della vita della Chiesa.

Rileggere il Vaticano II

Al Vaticano II hanno collaborato, con i loro vescovi, 400 teologi in forza nelle diverse università nazionali. Lo sforzo di mediazione che questo ha richiesto, a tutela della comunione ecclesiale, ha dato la misura della vitalità delle chiese e, al contempo, della loro cattolicità reale, non formale.

Oggi, l’atteggiamento di partenza è molto diverso, nell’episcopato, nelle università teologiche, nelle comunità ecclesiali. Perché oggi non si accetta più di partire dal criterio della realtà, percepita e capita come interpellanza per spingere la fedeltà al vangelo lì dove la rivelazione di Dio nella storia chiede, e la giusta distanza tra verità e realtà è diventata insanabile scissione: quali teologi e soprattutto quali teologhe verrebbero chiamati a partecipare? Quale libertà di parola sentirebbero di poter avere?

Dal 4 al 6 ottobre avrà luogo un convegno organizzato dal Coordinamento teologhe italiane dal titolo «Teologhe rileggono il Vaticano II. Assumere una storia, preparare il futuro» (www.teologhe.org). Vuole essere, evidentemente, un evento ecclesiale tra i tanti previsti per celebrare i 50 anni dall’apertura del Vaticano II. Ma vuole anche lasciar emergere quanto e come, a partire dal Concilio, la soggettualità delle donne è diventata una componente irrinunciabile della vita ecclesiale. Una soggettualità di cui, come teologhe, siamo in grado di prenderci la responsabilità. Domandandoci anche, però, se la Chiesa e la cultura italiane sono altrettanto in grado di fare i conti con questa soggettualità che ci spinge ad essere ciò che siamo e non ciò che le aspettative patriarcali pretendono da noi.

*biblista, presidente del Coordinamento teologhe italiane
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 26/9/2012 16.16
Titolo:Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo del suo potere.
Il papa monarca-assoluto: cenni storici su origine e sviluppo del suo potere.

di Leonardo Boff ("Jornal do Brasil”, 17 settembre 2012) *

Abbiamo scritto precedentemente su queste pagine che la crisi della Chiesa-istituzione-gerarchia ha le sue radici nell’assoluta concentrazione di potere nella persona del Papa, potere esercitato in modo assolutistico, lontano da qualsiasi partecipazione dei cristiani e fonte di ostacoli praticamente insormontabili per il dialogo ecumenico con le altre Chiese.

All’inizio non fu così. La Chiesa era una comunità di fratelli. Non esisteva la figura del Papa. Nella Chiesa comandava l’Imperatore. Era lui il sommo pontefice (Pontifex Maximus), non il vescovo di Roma o di Costantinopoli, le due capitali dell’Impero. E così è l’imperatore Costantino a convocare il primo concilio ecumenico a Nicea (325), per decidere la questione della divinità di Cristo.

E di nuovo nel secolo VI è l’imperatore Giustiniano che ricuce Oriente e Occidente, le due parti dell’impero, reclamando per se stesso il primato di diritto e non quello di vescovo di Roma. Tuttavia, per il fatto che Roma vantava le tombe di Pietro e Paolo, la Chiesa romana godeva di particolare prestigio, come del resto il suo vescovo che davanti agli altri deteneva "la presidenza nell’amore" e esercitava il "servizio di Pietro", quello di confermare i fratelli nella fede, non la supremazia di Pietro nel comando.

Tutto cambia con Papa Leone I (440-461), grande giurista e uomo di Stato. Lui copia la forma romana del potere che si esprime nell’assolutismo e autoritarismo dell’imperatore; comincia a interpretare in termini strettamente giuridici i tre testi del N.T. riferibili al primato di Pietro: Pietro, in quanto roccia su cui si costruirebbe la Chiesa (Mt 16,8); Pietro, colui che conforta i fratelli nella fede ( Lc 22,32); e Pietro come pastore che deve prendersi cura delle pecore (Gv 21,15). Il senso biblico e gesuanico va nella direzione diametralmente opposta, quella dell’amore, del servizio e della rinuncia a ogni onore. Ma l’interpretazione dei testi alla luce del diritto romano - assolutistico - ha il sopravvento. Coerentemente, Leone I assume il titolo di Sommo Pontefice e di Papa in senso proprio.

Subito dopo gli altri papi cominciarono a usare le insegne e il vestiario imperiali, porpora, mitra, trono dorato, pastorale, stole, pallio, mozzetta: si creano palazzi con rispettive corti; si introducono abiti per vita da palazzo in vigore fino ai nostri giorni con cardinali e vescovi, cosa che scandalizza non pochi cristiani che leggono nei vangeli che Gesù era un operaio povero e senza fronzoli. Così finisce per essere chiaro che i gerarchi stanno più vicini al palazzo di Erode che alla culla di Betlemme.

C’è però un fenomeno che noi stentiamo a capire: nella fretta di legittimare questa trasformazione per garantire il potere assoluto del Papa, si fabbricano documenti falsi.

Primo. Una pretesa lettera del Papa Clemente (+96), successore di Pietro in Roma, diretta a Giacomo, fratello del Signore, il grande pastore di Gerusalemme, nella quale si dice che Pietro, prima di morire, aveva stabilito che lui, Clemente, sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Evidentemente anche gli altri che sarebbero venuti dopo.

Falsificazione ancora più grande è la Donazione di Costantino, documento fabbricato all’epoca di Leone I, secondo il quale Costantino avrebbe dato in regalo al Papa di Roma tutto l’Impero Romano.

Più tardi, nelle dispute con i re Franchi, fu creata un’altra grande falsificazione le Pseudodecretali di Isidoro, che mettevano insieme documenti e lettere come provenienti dai primi secoli, il tutto a rafforzare il Primato giuridico del Papa di Roma.

Tutto culmina con il codice di Graziano (sec. XIII), ritenuto la base del diritto canonico, ma che poggiava su falsificazioni e norme che rafforzavano il potere centrale di Roma oltre che su canoni veri che circolavano nelle chiese.

Evidentemente tutto ciò viene smascherato più tardi, senza che con questo avvenga una qualsiasi modificazione nell’assolutismo dei Papi. Ma è deplorevole, e un cristiano adulto deve conoscere i tranelli usati e fabbricati per gestire un potere che cozza contro gli ideali di Gesù e oscura il fascino del messaggio cristiano, portatore di un nuovo tipo di esercizio del potere servizievole e partecipativo.

In seguito si verifica un crescendo nel potere dei Papi. Gregorio VII (+1085) nel suo Dictatus Papae (dittatura del Papa) si autoproclamò Signore assoluto della Chiesa e del mondo; Innocenzo III (+1216) si annuncia come vicario e rappresentante di Cristo; e infine Innocenzo IV (+1.254) si atteggia a rappresentante di Dio. Come tale sotto Pio IX, nel 1.870, il Papa viene proclamato infallibile in fatto di dottrina e morale.

Curiosamente, tutti questi eccessi non sono mai stati ritrattati o corretti dalla Chiesa gerarchica, perché questa ne trae benefici. Continuano a valere come scandalo per coloro che ancora credono nel Nazareno, povero, umile artigiano e contadino mediterraneo perseguitato e giustiziato sulla croce e risuscitato contro ogni ricerca di potere, e sempre più potere, perfino dentro la Chiesa. Questa comprensione commette una dimenticanza imperdonabile: i veri vicari-rappresentanti di Cristo, secondo il vangelo di Gesù (Mt 25,45) sono i poveri, gli assetati, gli affamati. La gerarchia esiste per servirli non per sostituirli.

Tradotto da Romano Baraglia

* Fonte: Incontri di Fine settimanana